Chi sono le sorelle Boccalini, le ragazze che hanno portato il calcio femminile in Italia

by Redazione Cronache

Al 12 di Via Stoppani a Milano, se ci andate oggi, troverete un elegante palazzo in stile napoleonico. Un bel balcone al primo piano, l’edera a incorniciare le colonnine, una facciata pulita e delicata. Un ambiente raffinato, insomma. Pare impossibile pensare che quasi 90 anni fa da queste parti sia cominciata una delle più grandi rivoluzioni sportive del nostro Paese. I protagonisti, anzi le protagoniste, sono un gruppo di ragazze della zona di Porta Venezia. Si chiamano Luisa, Giovanna, Marta e Rosa. Nomi da classiche sciure milanesi, con una passione in comune, tirare un calcio ad un pallone. Un sacrilegio, in epoca fascista. Il regime le vuole a casa, a stare con la famiglia e con i figli, al massimo a fare qualche esercizio per tonificare il corpo, ma il calcio assolutamente no. Invece loro giocano. Poco lontano, ai giardini di Porta Venezia, tra gli sguardi incuriositi e un po’ impettiti dei vecchi baroni dell’alta borghesia.

Contro tutto e tutti

Insieme ad altre compagne, le quattro, che portano lo stesso cognome, Boccalini, fondano il Gruppo Femminile Calcistico, la prima squadra italiana fatta interamente da donne. Sono ragazze come tante, fanno le sarte, le commesse, ma soprattutto le tifose. Dell’Inter, che a quel tempo si chiama Ambrosiana, perché il nome “Internazionale” fa un po’ a cazzotti con l’autarchia voluta da Mussolini. Hanno i capelli corti e scendono in campo in camicia a righe e in gonna. La storia comincia a circolare per Milano, anche perché nel frattempo si aggiungono altre giocatrici. La stampa di regime le prende in giro, le ostacola. Inventa anche teorie fantascientifiche secondo cui una donna non sarebbe in grado di rincorre una sfera. L’unico giornale che si interessa davvero alla vicenda è Il Calcio Illustrato, forse meno allineato con il partito. «Amo moltissimo il giuoco del calcio, un amore tenace il mio, non un fuoco di paglia – spiega Giovanna alla rivista – Le mie compagne hanno tanta passione e buona volontà: non tramonteremo mai».

L’esordio

Effettivamente l’esperimento funziona. Dai giardini passano ai campi veri e attirano anche l’attenzione dei signori Cinzano, che hanno un’attività piuttosto redditizia nel settore delle bevande alcoliche. Parte subito un sponsorizzazione, che permette alle ragazze di comprare due set di maglie e organizzare la loro prima partita ufficiale. È l’11 giugno 1933, in un campo di viale Gioia, che ora non esiste più. È passato solo un anno dalla fondazione della squadra e a suggellare l’evento c’è Giuseppe Meazza, attaccante dell’Inter e simbolo del regime. Circa un migliaio di spettatori per assistere ad un 1-0 tra Gruppo Sportivo Cinzano e Gruppo Sportivo Ambrosiano. Il capo del Coni Arpinati aveva dato il via libera, a condizione che si giocasse rasoterra, con un pallone più piccolo e leggero e con in porta dei ragazzini maschi, perché secondo uno dei tanti pregiudizi che circolavano, il ruolo del portiere avrebbe potuto compromettere la fertilità delle donne.

Seme gettato

A inizio luglio, va in scena un secondo match. Presenti anche i dirigenti nerazzurri, che per l’occasione invitano i colleghi dello Sparta Praga, a Milano per disputare la semifinale della Mitropa Cup. Sembra tutto andare per il meglio, ma le ragazze non hanno fatto i conti con i frequenti cambi ai vertici delle istituzioni fasciste. Ad agosto, infatti, Arpinati viene accantonato, a favore di Achille Starace. Il nuovo presidente del CONI ci mette nove mesi a sciogliere il club, con la partecipazione del numero uno della FIGC Giorgio Vaccaro. Le calciatrici vengono indirizzate verso altri sport e alcune vinceranno campionati italiani nel basket e nel mezzofondo. Ma poco importa, perché il seme era stato gettato e se ora le calciatrici diventeranno professioniste lo devono anche a queste pioniere in camicia a righe.