Abbiamo intervistato Emilio Faroldi, Prorettore Delegato del Politecnico di Milano e direttore del Master in Progettazione, Costruzione e Gestione delle Infrastrutture Sportive. Ci ha parlato della corretta concezione di stadio e di evento sportivo, di San Siro e del suo futuro, di passione e calcio romantico, di milanesità da derby.
Al giorno d’oggi, lo stadio va pensato come un semplice luogo di svolgimento della partita? O è forse un importante metodo di aggregazione culturale e socialità?
«Lo stadio nasce ad inizio ‘900 perché la gente aveva passione per il calcio. Da lì, con il crescere del football, si è sempre allargato per ospitare un numero via via maggiore di tifosi e per poter partecipare a certe competizioni, come è successo con il terzo anello di San Siro, per esempio. Dal 1990 in poi, in Italia, ci si è sempre dimenticati del potenziale che lo stadio poteva avere nella riqualifica di quartieri degradati. Negli anni, la società è cambiata ed il calcio con lei: sono cresciuti nuovi sport alternativi, e gli sportivi sono diventati delle star lontanissime dal popolo, a volte addirittura delle aziende, simbolo di un calcio che non incarna più i vecchi valori che ha sempre avuto: speranza, svago, fuga per i più poveri. E lo stadio, essendo lo specchio della società, ne risente tanto. Ecco perché tantissimi stadi oggi sono troppo grandi e troppo poco utilizzati: il Madison Square Garden di New York può ospitare tre eventi al giorno, non uno o due a settimana. Ma la direzione presa ad Amsterdam e Parigi è quella giusta: lo stadio può e deve diventare un edificio rappresentativo della società, che aiuta ambienti poveri a riqualificarsi, non che crea zone pericolose. Il calcio, soprattutto in certi luoghi, aggrega e dona speranza e risposte a tutti, ecco perché è giusto creare uno spazio che possa aiutare in questo senso, andando oltre la partita del weekend. C’è tanto da lavorare, ma questa è la strada corretta».
In origine, lo stadio era frequentato dal popolo, dalla classe operaia. Oggi, guardando i prezzi dei biglietti di quasi tutti gli stadi, si può dire che essi siano pensati per un altro tipo di cliente?
«Oggi sì. Basti pensare che i veri introiti delle squadre non sono legati ai posti a sedere, bensì a sponsorizzazioni, contratti televisivi e Sky Box venduti ad aziende che frequentano lo stadio più per opportunità lavorative che per passione. Il calcio romantico di Rivera e Mazzola è lontano. Quelle erano figure che rappresentavano non solo un grande esempio per i ragazzi, ma che davano anche un apporto tecnico alla squadra, più che di marketing. Oggi, il mercato è legato ad altre situazioni di business. Quel vecchio calcio si può trovare nelle province, dove non ci sono certe possibilità economiche e dove si vive ancora l’essenza sportiva del ‘Davide contro Golia’, che è quella che dona fascino e magia al calcio, e che va recuperata anche per non creare una spaccatura tra il calcio di alto livello e il calcio dei ragazzi. Bisogna dare la possibilità alle persone di credere che la partita che guardano la domenica sia qualcosa da scrivere in quei 90 minuti e che non c’entra con altri poteri. Sarebbe bello anche ripartire con delle regole per i vivai, per facilitare i ragazzi emergenti. Ecco perché bisogna investire sui centri sportivi: sono il luogo dove si insegna il calcio, e dove il calciatore vive tutta la settimana. Fatto un buon centro sportivo, si può pensare allo stadio. E questo vale per tutti gli sport: in Italia abbiamo campioni di scherma e judo che si allenano in strutture non all’altezza, e bisogna rimediare».
Il riferimento alla famosa Super Lega sembra evidente…
«Su quella non ho le idee chiare. Come esiste la Notte degli Oscar che decreta la superiorità di certi attori su altri, può esistere una competizione del genere. Ma così come può partecipare e vincere un film coreano, come lo scorso anno, tutti devono poter partecipare ad essa. Escludendo qualcuno per motivi snob ed economici, si ammazza lo sport e si trasforma tutto in spettacolo, ma allora è sufficiente la Partita del Cuore. Poi, le prime otto della Champions League sono quelle che alla fine parteciperebbero alla Super Lega, ma comunque, così, si svilirebbe il valore dello sport».
Oggi lo stadio, pur essendo un luogo fisico, deve relazionarsi con tanti media. Essendo le squadre delle vere e proprie aziende che devono fare i conti con un bilancio, non conviene loro rendere il proprio stadio un luogo dove ospitare uno show che va al di là del risultato sportivo?
«Ogni tanto succede, ad esempio nel tennis. Lo spettacolo ad hoc in certi casi ci può stare. Ma senza una posta in palio lo sport non esiste: solo se c’è un obiettivo si crea una competizione non falsata. Se non ci fosse, tutto sarebbe all’insegna del non farsi male, del non avere un vero avversario, del non vincere nulla, se non dei soldi, di nuovo. Ma ci sono tanti sportivi che baratterebbero dei soldi per qualche trofeo. Quindi è importante tenere l’attenzione sullo sport, sul sudore, sulla squadra, e non sui singoli divinizzati dai social. Tanti calciatori silenziosi (ma non per questo meno importanti) hanno poca popolarità ed è un peccato. Maradona e Pelé sono diventati eterni senza social. Oggi mitizziamo troppo alcuni personaggi: Cristiano Ronaldo è un atleta formidabile, con una costanza e una caparbietà unica, ma avrebbe avuto successo anche nella discesa libera e nel tennis. Tecnicamente non è forte come sembra grazie al palcoscenico social e di marketing che ha».
A proposito di social, il sito inglese Compare.bet ha pubblicato poco fa una classifica dei migliori stadi al mondo: San Siro, l’unico italiano in top 10, evidenzia ottimi risultati nelle interazioni in rete, ma resta indietro dal punto di vista dei servizi, della visibilità e delle barriere architettoniche. È uno stadio troppo vecchio?
«Questa classifica dimostra ulteriormente che lo stadio esiste perché deve essere teatro di un’emozione. Questa popolarità sui social, San Siro la deve ad anni di successi degli anni passati soprattutto del Milan, che hanno permesso a tantissima gente di condividere delle emozioni forti. Fino a poco tempo fa, era il luogo più visitato di Milano dopo il Duomo. Per noi italiani, abituati a tante bellezze, è strano, anche perché il museo dello stadio lascia un po’ a desiderare. Vuol dire che è l’emozione a rendere popolare lo stadio. Quando poi lo si analizza, ci si rende conto che è irrecuperabile dal punto di vista dei servizi e della struttura».
Oggi è ancora pensabile, per due società rivali come Inter e Milan, condividere uno stadio così importante come lo è San Siro?
«Milano è una delle poche realtà dove può avvenire, e sarebbe anche un modello di risparmio e ottimizzazione per tanti. Per riqualificare l’intera area di San Siro, poter contare sulle risorse di entrambe le società sarebbe grandioso per un semplice motivo: ognuna a suo modo, le due squadre incarnano entrambe la vera milanesità. A Torino, per esempio, una squadra rappresenta la città e l’altra la provincia, e sarebbe impensabile la condivisione dello stadio. Milano e San Siro hanno questa opportunità e va sfruttata».
Quindi è meglio insistere sullo stadio in periferia, a differenza dell’Inghilterra, dove invece si trova in mezzo ai centri abitati ed è simbolo anche di un singolo quartiere, come succede a Londra per ognuna delle sei squadre della città?
«Quello avviene grazie a secoli di storia. Milano non ha zone interiste e zone milaniste, e non può pensare a stadi che rappresentino quartieri. Al contrario, creare uno stadio più per Milano e meno per Inter o Milan sarebbe fantastico. Certo sarebbe difficile la convivenza, ma il potenziale è enorme».
Al momento, lo stadio e la zona attorno quanto sono riqualificabili e quanto sono da rifare?
«Siamo nella culla del calcio italiano, la posta in palio è alta. Se l’ambizione è quella di tornare a competere con i club che oggi giocano la semifinale di Champions League e possono permettersi Haaland e Mbappé, San Siro è vecchio e non basta. E chi pensa di riqualificare il vecchio ‘Meazza’, non sa che quello che vediamo oggi è la sovrapposizione di tanti progetti diversi successivi nel tempo: il vecchio San Siro non esiste più. Se oggi si abbatte San Siro, si abbatte solo il ricordo di qualcosa che non c’è più. Ma se gli inglesi hanno avuto la forza di togliere Wembley, tutto è lecito».
Per chiudere: con il Master di cui è direttore, ha incontrato tanti personaggi appartenenti al calcio di alto livello, e frequentato templi dello sport come Coverciano. Ha qualche aneddoto da raccontarci?
«Nel nostro Master siamo tutti malati di sport. Ricordo quando siamo andati a Coverciano e ci siamo trovati a bere il caffè con Batistuta, Totti, Pirlo e Cannavaro. Il Master è andato a quel paese. Noi parliamo di architettura e business calcistico, ma se ci sono testimonial di questa natura è difficile. Pochi giorni fa, abbiamo fatto una call con il Sassuolo ed è entrato il capitano della squadra (Magnanelli, ndr). Non è famoso come Ronaldo, ma ha più di 500 partite con i neroverdi. È bello sentire le storie di questi sportivi, e frequentandoli ci si accorge di quanto siano mitizzati in modo negativo: dai media sembrano dei ricchi viziati fannulloni, ma sono molto più vicini alla gente ‘normale’ di quanto si pensi, ed è bello avere a che fare con loro».