Terra rossa che sa di pace, casa, famiglia, pallone, magari anche un film. Per lui è così. Ci piace pensare che Tom Saintfiet abbia visto «Blood Diamond» un paio di volte e si sia ritrovato in diversi concetti, al di là della trama. C’è una scena in cui a Di Caprio viene detto che la terra rossa nasce da lontano, da battaglie e guerre, da tribù e popoli, e che quel colore si rifà al sangue sparso di chi ha combattuto. «L’Africa è casa nostra – sussurrano a Leo –, e tu non la lascerai mai».
Come accaduto a Tom, 48 anni, c.t. del Gambia dal 2018 dopo una vita in giro per il mondo. Finlandia, Yemen, Trinidad e Tobago, Namibia, Bangladesh, Zimbabwe. Lui poi, belga di Mol, trentamila abitanti vicino Anversa. «Parlo inglese, francese, tedesco, un filo di arabo e qualche dialetto di qui». Per lui l’Africa sono «i sorrisi dei bambini a piedi scalzi che dribblano i sassi e gli spuntoni». Sono i tifosi gambiani appesi ai tralicci dei fari durante il match decisivo per qualificarsi in Coppa d’Africa. «C’erano almeno diecimila persone in più rispetto alla capienza dello stadio, cose mai viste».
Africa, casa
L’Africa è il sole che batte forte sulla terra rossa che macchia le scarpe, rovina i jeans, finisce tra i capelli. «E poi il calcio. In Europa esistono migliaia di accademie dove ‘costruiscono’ il talento. In Africa, invece, di talenti ce ne sono a centinaia. Sono puri. Ciò che impari in strada non te lo scordi più. L’astuzia, la furbizia, l’evitare gli ostacoli naturali. Ciò che vediamo in campo nasce su questa bella terra. Ecco cos’è che amo di più». Oggi Tom guida il Gambia rivelazione in Coppa d’Africa, prima partecipazione in assoluto e già 4 punti nel girone. «Quando sono arrivato questi ragazzi non vincevano una partita da cinque anni. Siamo la nazionale con il peggior ranking della Coppa, 150esimi, ma sogniamo il Qatar».
Anche grazie all’Italia, riferimento da sempre. «Uno dei miei primi ricordi di calcio è Paolo Rossi che stende il Brasile nel 1982. Avevo 9 anni. Sono stato in Italia varie volte per visionare i miei calciatori». Nel Gambia – oltre al preparatore atletico Daniele Caleca e al capo osservatori Alessandro Soli – giocano Barrow del Bologna, Darboe della Roma, Ebrima Colley dello Spezia, Jallow del Vicenza, Bobb del Piacenza, Omar Colley della Samp e Sibi della Virtus Verona, che a 16 anni arrivò in Sicilia con un barcone dopo 11 ore in mare. Faceva l’imbianchino, oggi il suo lavoro è il calcio.
Nel parcheggio
Darboe ha una storia simile, e questo gli ha dato la forza per imporsi: «Talento come Barrow. Hanno coraggio, estro, potenzialità». Predisposizione al sacrificio. Gliel’ha trasmesso il mister, che prima della partita più importante della storia del Gambia, contro l’Angola a marzo, ha fatto allenare la squadra nel parcheggio di un hotel. «Eravamo arrivati tardi, così ho diretto lì la rifinitura. Il bello è che non avevamo neanche le divise da allenamento. I giocatori hanno corso ‘in borghese’ con i loro vestiti. Chi in canottiera, chi in mutande, su e giù per il parcheggio, con il personale dell’albergo e i clienti che ci guardavano incuriositi. Non ero arrabbiato però, anzi, piuttosto calmo, e l’ho trasmesso a tutti». Sarà vittoria.
Saintfiet ha iniziato ad allenare a 24 anni dopo un brutto infortunio. Ha una laurea in psicologia dello sport e un passaporto pieno di visti. Nel 2002, a 29 anni, ha preso un aereo e se n’è andato alle Far Oer, salvo poi allenare in Olanda, in Qatar, in Germania e di nuovo nei Paesi Bassi. Da direttore tecnico dell’Emmen ha scoperto Bas Dost, punta del Club Bruges con un passato tra Wolfsburg e Sporting Lisbona: «Stavo bene, ma il mio sogno è sempre stato allenare una nazionale». Nel 2008 lo chiama la Namibia e passeggia sul rosso dell’Africa per la prima volta: «Un colpo di fulmine. Il mio posto nel mondo». Dopo Zimbabwe ed Etiopia vola in Asia, nello Yemen, dove racconta di «uomini armati per le strade» e del senso di paura: «Impari a guardarti a destra, a sinistra e a stare in guardia, ma è una scelta che rifarei».
Adebayor, che combini?
Come quella di guidare il Togo di Adebayor, allenato nel 2015. E sorride. Chiediamo perché, incuriositi, e Tom tira fuori dalle tasche un aneddoto che fotografa l’Africa del pallone e il personaggio Emmanuel, uno che all’Arsenal chiamavano «il secondo Henry». «La prima partita della mia gestione è contro il Ghana. Diramo le convocazioni, chiamo tutti, mi presento, e Adebayor risponde presente. Al raduno in hotel non si presenta però. Penso a un problema personale, all’inizio non ci faccio caso, ma salta anche la cena, un allenamento e la rifinitura del giorno prima. Tutto senza avvertire».
Mistero svelato. «A mezz’ora dal calcio d’inizio, in moto, si palesa un ragazzo alto in pantaloncini e maglietta, già pronto per la partita. ‘Sono Adebayor, quando si gioca?’. Una scena da film, non credevo ai miei occhi. Ovviamente lo mando in tribuna, ma sa com’è finita? Il giorno successivo Emmanuel è sempre stato il primo in tutto. A pranzo, a cena, in allenamento, così l’ho fatto giocare contro la Liberia. Vinciamo 2-1 grazie a un suo gol decisivo. Resta il calciatore più forte che abbia mai allenato». In attesa dei ragazzi terribili del Gambia, che volano bassi sulla terra rossa. Senza sporcarsi le scarpe.