L’intervista viene registrata in un posto ben poco televisivo, davanti a un muro scrostato che compone, insieme ad altri manufatti di fortuna, la recinzione del San Paolo. Un muro di mattoni punteggiato da piccole e disordinate chiazze di calce, tipico di ogni periferia del mondo. Sembra una scena di Mi manda Picone, il film del 1984 di Nanni Loy con Giancarlo Giannini che si muove in una Napoli labirintica e tenebrosa: su questo sfondo, squallido poetico e grottesco insieme, recita e si muove il più grande calciatore del pianeta. Diego Maradona avanza verso il giornalista Fininvest Enrico Pirondini ridendo con tutto il corpo: è a lui, solo a lui, dipendente dell’azienda di proprietà del presidente della squadra che sta provando a scippargli lo scudetto, che vuole lanciare il suo proclama. Maradona è completamente solo, di una solitudine impensabile oggi, quando anche il terzo portiere viene braccato da un paio di addetti stampa che guardano i microfoni circostanti con aria circospetta. E siccome tutto si può dire di Diego tranne che non sia una persona disponibile, quasi non aspetta nemmeno la domanda e lancia subito il proclama che tutta Napoli aspetta, agitando l’indice della mano sinistra: «Domani non voglio una bandiera del Milan. Non voglio una sola bandiera del Milan». Il ‘domani’ di cui parla Diego è il primo maggio 1988, Napoli-Milan, la ‘madre’ di tutte le sfide scudetto.
Si sa cosa si è sempre detto a Napoli di quel finale di stagione: che, al di là del calo atletico e mentale persino fisiologico in una squadra in testa alla classifica da cinquanta giornate consecutive, fu la camorra a consigliare più o meno gentilmente di astenersi dalla lotta da aprile in poi, in particolare rivolgendosi a un paio di giocatori specialmente sensibili al tema. Dicono anche che il prezzo da pagare per tutte le scommesse piazzate al Totonero sul Napoli campione d’Italia sarebbe stato superiore alla felicità per il secondo scudetto consecutivo. Da oltre trent’anni girano anche i nomi dei diretti interessati, uno soprattutto, che ha sempre negato sdegnosamente tutte queste maldicenze, e d’altra parte ha sperimentato sulla propria pelle inquietanti vicende di cronaca che indurrebbero al silenzio anche persone provviste di molta meno spina dorsale. Voci che hanno trovato sponda anche lontano da Napoli, per esempio nel titolo del «Sole 24 Ore» che il 12 aprile 1987 introdusse l’argomento: «Lo scudetto del Napoli sbanca la camorra». Oppure in un verbale del pentito Pietro Pugliese, ex guardia giurata poi assoldata dai clan, che diede una seconda versione dei fatti e parlò di una catena di telefonate tra Berlusconi che chiamò Craxi che interpellò i tre generali napoletani del Pentapartito in quegli anni al governo: Antonio Gava, Giulio Di Donato e Paolo Cirino Pomicino, che chiamarono tutti insieme «ambienti illegali» che fecero pressione sul Napoli. Queste e tante altre dichiarazioni furono rilasciate il 19 novembre 1994 a un ufficiale della Guardia di Finanza, in un verbale che verrà poi archiviato perché ritenuto inattendibile.
Ad ogni modo, Maradona non voleva vedere bandiere del Milan e nel 1988 erano molto pochi i napoletani che avrebbero osato disobbedire a un desiderio di Maradona. Se la partita fosse stata truccata, difficilmente il capitano ne sarebbe rimasto all’oscuro. E poi – scusate lo spoiler – sarebbe stato proprio Diego a segnare il momentaneo 1-1 con una punizione diabolica allo scadere del primo tempo, calciata un millimetro sopra la punta delle treccine di Gullit in barriera: che senso avrebbe avuto, allora, sprecare un simile patrimonio di bellezza in una partita-farsa?
Ogni volta che si parla di calcio e Napoli si tirano in ballo i Quartieri Spagnoli, i presepi di San Gregorio Armeno, le estrazioni del Lotto, i banchetti fuori dalla stazione dove si pratica la nobile arte del gioco delle tre carte, truffe e magheggi, pacchi e contropacchi, il folklore deteriore. Non si riesce mai del tutto a considerarla un posto dove si lavora e si pensa calcio esattamente come altrove. Va detto che spesso e volentieri il Napoli non si sottrae affatto a questa rappresentazione però, signori della Corte, stiamo ai fatti. E i fatti dicono che gran parte dei giocatori del Napoli va ormai raccolta col cucchiaino, forse a causa di una preparazione estiva troppo leggera per arrivare in forma alla sfida contro il Real Madrid di settembre in Coppa Campioni; che lo spogliatoio è a pezzi, che anche Ottavio Bianchi sente sfuggire di mano le certezze faticosamente costruite in due anni (la formazione che ha perso contro la Juventus, inutilmente spregiudicata, è stata assai contestata dagli addetti ai lavori e pure all’interno dello spogliatoio) e non aiuta nemmeno un’inutile amichevole della Nazionale a Lussemburgo in mezzo alla settimana, mercoledì 27 aprile, in cui Azeglio Vicini dosa col bilancino i minuti dei tre milanisti (Maldini, Baresi e Donadoni) e dei due napoletani (De Napoli e Ferrara). Altri oscuri presagi: il sabato della vigilia sulla Ruota di Napoli sono usciti come primi due estratti il 41 (i punti del Milan) e il 90, che non ha bisogno di spiegazioni. E in Duomo, nonostante oltre mille persone raccolte in preghiera come da tradizione nel sabato che precede la prima domenica di maggio, il sangue di san Gennaro non si è sciolto.