Il volto è stanco, si nota subito, ma è stanchezza mentale. Ti logora dentro. Sergiy Stakhovsky si collega puntale alle nove di sera nonostante la sua testa sia un via vai di pensieri. La famiglia è a Budapest e lui a Kiev, con i russi a venti chilometri. «Gli ho promesso che tornerò a casa, ma ora devo difendere il mio Paese». Quando gli nomini la parola ‘guerra’ ti corregge: «Non è solo guerra, è un’invasione. La Russia bombarda ospedali e uccide civili. Perché tutto questo?».
Vietato voltarsi indietro
Intorno a lui si sentono voci. Ci dice che è in un «luogo sicuro nel centro città». Insieme a lui c’è anche il fratello. Indossa la divisa militare, risponde in un inglese fluente imparato in vent’anni di circuito. Sergiy, 36 anni, ha posato la racchetta e imbracciato il fucile. Nel 2013 ha battuto Federer a Wimbledon, ma il giorno dell’invasione dell’Ucraina ha lasciato Dubai per arruolarsi. Oggi lo racconta a Cronache in videochiamata. «Non potevo non fare nulla». Lo dice con uno sguardo assonato e un traffico di pensieri. Due, i più importanti, lo fanno andare avanti. Resistere e rivedere la famiglia.
«Ho paura, ma non mi vergogno»
Questione di promesse, ma anche di un senso patrio che lo spinge a rigirarsi nel letto più e più volte, senza riuscire a dormire: «Sentiamo i bombardamenti. Ho paura e non me ne vergogno. Paura di non rivedere più la mia famiglia, i miei tre figli, ma come posso voltarmi dall’altra parte mentre il mio Paese soffre?». Sergiy si è arruolato tra le riserve dell’esercito ucraino. «Sono di pattuglia, aiuto le persone. Kiev è divisa: c’è chi vuole andare via e chi resta qui per combattere, o perché non può lasciare la città. I russi stanno provando in tutti i modi a circondarci, ma vengono respinti. Poi il giorno dopo ritornano con nuovi mezzi». Va così. Kiev è una città fantasma. «Ci stiamo preparando a un assedio. Alcune attività in città sono ancora aperte, come i servizi essenziali o altro, ma intanto, a pochi chilometri, i sobborghi vengono bombardati».
«Uccidere i civili, perché?».
Come l’ospedale di Mariupol, città allo stremo. Negozi saccheggiati, strade vuote, case distrutte, morti nelle strade. Ogni video è una coltellata: «I russi stanno uccidendo i civili e non si fermano, è scioccante. Non ci sono parole per descrivere ciò che sta accadendo lì e in altre città. Devi essere il Diavolo in persona per sparare o bombardare i civili. È qualcosa che non capirò mai, davvero». Prima di parlare con noi ha mandato un messaggio ad Antonio Conte, che in sala stampa si è detto dispiaciuto per le sanzioni agli atleti russi: «Gli ho scritto che si deve svegliare. Gli ucraini stanno lasciando le loro case, muoiono sotto le bombe e lui commenta in quel modo? Sono amareggiato io nel sentire cose così». Novak Djokovic, invece, gli ha mandato un messaggio di sostegno su Whatsapp tendendo la mano: «Mi ha detto ‘io ci sono’. Vuol dire molto».
L’Ucraina che resiste
Sergiy non è l’unico sportivo ucraino ad aver preso in mano il fucile. I fratelli Klitschko sono entrambi a Kiev. Quando gli hanno chiesto perché non sono fuggiti hanno risposto seccati: «E dove dovremmo andare?». Vitalij, il maggiore, è sindaco della capitale dal 2014. Per cinque anni è stato campione del mondo dei pesi massimi. Lo chiamavano Ironfist, pugno di ferro, mentre suo fratello Volodymyr è Steelhammer, martello d’acciaio. «Si stanno mobilitando tutti. Shevchenko, la Svitolina, Yarmolenko, Zinchenko». Solo uno non ha ancora parlato. È Anatoliy Tymoshchuk, ex capitano dell’Ucraina e oggi vice allenatore dello Zenit, ostracizzato dal suo stesso Paese per non aver mai preso pozione sulla guerra. Gli hanno tolto tutti i titoli sportivi, e c’è chi lo accusa di essere una spia: «Cosa potrebbe portare a livello di spionaggio? Mah, non conosco la storia, ma posso dire che molte sono invenzioni. Forse potrei provare a parlarci».
«Abbiamo bisogno d’aiuto»
Intanto l’Ucraina regge: «Senza il supporto militare dell’Europa e del mondo non so quanto riusciremo a resistere. Basta prendere una cartina geografica e vedere quant’è grande la Russia rispetto a noi. Io sono per la no fly zone, ovvero impedire che gli aerei sorvolino il Paese e continuino a uccidere civili. Potrebbe anche esserci una tregua con la Russia, certo, ma poi? Cosa succederebbe? C’è poco da dire: abbiamo bisogno d’aiuto». Parola di un volto stanco, che intanto resiste.