di Lorenzo Pellegrini & Edoardo Bove
Lore
Quando voglio stare da solo con la mia Roma, vado al Giardino degli Aranci. Mi sistemo la maglietta, appoggio i gomiti sul parapetto e osservo. Quanto sei bella. Da qui puoi vedere un po’ tutto. Ti senti in mezzo alla natura, ma hai tutti i monumenti a portata di mano. Sembra che tu possa toccarli. Roma è speciale.
Immortale, talmente divinizzata da essere la più umana di tutte. In ogni angolo, non riuscirai mai a sentirti solo. Sarà la storia, saranno le pietre. Le luci calde, i motorini sul Lungotevere, le lettere sciupate sui cartelli stradali. Lei sta lì, vicina, e non ti lascia per niente al mondo. Con lei balli anche senza musica.
Roma sono le persone che la compongono. Quelle che quando cammini, te ne accorgi che ti guardano in modo diverso. Quella è tutta gente che non ti conosce, ma che ti osserva e con gli occhi lo vedi che ti vuol dire «Daje Lorè, io sto con te. Io sto con voi». Bellissimo. Ricevo ogni giorno l’affetto dei miei familiari, ma quando incrocio lo sguardo di un tifoso che cerca di trasmetterti tutta la sua emozione, il cuore batte un po’ più forte.
Sono cresciuto dentro Roma, tra le bambole di mia sorella a cui staccavo la testa per utilizzarla come pallone e il circolo della Banca d’Italia dove lavorava mio padre. Lì avevo un amico immaginario. Tanti bambini parlano con i supereroi, altri con i protagonisti dei cartoni animati. Io, semplicemente, parlavo con Francesco Totti. La prima volta in cui l’ho visto avrei voluto parlargli davvero, ma alla fine tutti i discorsi sono rimasti nella mia mente. Mi bastava sapere che lui mi avesse visto. Ogni volta che ero in partitella con lui, e ricevevo il pallone, glielo passavo subito. Tanto poi ci pensava lui. Lo capiva che i giovani erano in soggezione al suo cospetto e con qualche battuta alleggeriva subito la tensione. Adesso voglio essere io d’ispirazione, come lui lo è stato per me. Per i tanti ragazzi che sognano di scrivere la storia della Roma.
Come Edo.
Edo
Ho capito una cosa guardandoti. Che noi veniamo qui a Trigoria per lavorare, ma soprattutto per migliorare. L’ho visto sai che dopo ogni allenamento raccogli qualche pallone, ti sistemi al limite dell’area di rigore e inizi a calciare le punizioni. Chissà da quanto lo fai, e posso dirti che i risultati si vedono. Siamo cresciuti tutti con Francesco negli occhi. E per me c’è ancor più un alone di leggenda, dato che da sempre vivo nella casa accanto alla sua, a San Giovanni.
Totti è Totti. E la Roma è la Roma. Pensa Lore che ho rischiato di non giocarci. La storia del mio arrivo in giallorosso è qualcosa di stupendo. Praticamente mi presento ai provini, senza sapere che i test sono due. Il primo consiste in una partita con i ragazzi in prova, il secondo in un match con il gruppo squadra già formato. Faccio il primo provino ed essendo estate, parto in vacanza con la mia famiglia. Qualche giorno dopo i miei genitori ricevono una chiamata: «Ma dov’è vostro figlio? Lo stiamo aspettando per iniziare». Ehm… ero al mare, non avevo capito. Pensai: «Vabbè, è finito tutto. Il sogno è svanito, potranno mai prendere uno che non si presenta ai provini?». Non demordo: la Roma organizza i campus estivi e decido di iscrivermi con qualche amico. Ci sono gli osservatori, e c’è anche Bruno Conti. Che appena mi vede in fila per compilare l’iscrizione, mi dice: «Ma te che ci fai qui?». E io balbetto: «Eeeh, voglio partecipare ai campus». La sua risposta mi lascia senza parole: «Ma quale campus, guarda che sei già stato preso! Tra qualche giorno inizi con il gruppo dei 2002». E io che ci ero andato solo per divertirmi.
Lore
Dai, Edo ne ha fatta di strada. Dovrebbe tagliarsi i capelli e iniziare a vincere qualche partitella contro di me, ma è un ragazzo che, sinceramente, necessita di pochi consigli. Posso dargliene uno: chiedere sempre di più a se stesso di quanto stia già facendo. In campo il suo miglioramento è stato incredibile, deve continuare su questa strada.
La Roma è così, la senti dentro. Quello che i nostri tifosi hanno fatto quest’anno è sotto gli occhi di tutti. Si meritano il meglio, ci teniamo che le persone siano a conoscenza di questo. Giocare per la Roma ti dà un’emozione in più. Senza saperlo, ma abbiamo una grande responsabilità. Io sto rivivendo il sogno di me, che da piccolo vedo Francesco il capitano. Adesso non me ne rendo conto, ma qualche bambino si paragona a me. Uno degli stimoli più grandi che esistano, e che deve farci chiedere sempre di più da noi stessi.
Come quella mattina. Eravamo nella sala colazione e tutti, dico tutti, sapevamo che avremmo ribaltato il Barcellona. Anzi, non è che lo sapevamo, è che proprio ne eravamo convinti. Tutti, tranne uno: Kostas Manolas. Il dio greco che ha segnato il 3-0 e ci ha fatto ribaltare il 4-1 dell’andata. Lui, scaramantico, era seduto con il succo all’arancia in mano che diceva: «State buoni che ne prendiamo 4». Alla fine quello decisivo lo ha fatto lui.
Se chiudo gli occhi, non voglio immaginare la mattina della finale di Conference League. Sono uno che preferisce concentrarsi sul presente, dando il meglio per rendere quella giornata degna di essere ricordata, oltre che vissuta.
Edo
D’altronde è normale: noi siamo figli di questa città, di questa gente. Siamo un gruppo unico e siamo i primi tifosi di noi stessi. Il mio primo tifoso, ad esempio, è sicuramente Zaniolo. Nico mi fa troppo ridere. Quando ho segnato il mio primo gol in Serie A, lui era in tribuna. Appena la palla è entrata si è alzato e, con le mani nei capelli, ha iniziato a gridare incredulo: «Ha fatto gol Bove? Macché davvero ha segnato Bove?». Non ho ancora capito se fosse sbigottito o se mi prendesse in giro.
Resta il fatto che quando il pallone è entrato dentro, sono rimasto lucido, fin troppo. Ero talmente concentrato sulla partita che d’istinto mi è venuto spontaneo tornare verso il cerchio di centrocampo per farne un altro. Nei giorni dopo ho iniziato a realizzare, è stata una settimana emozionante.
Qui da noi è tutta una questione di cuore. Anche il mister punta molto sul concetto di Noi. Lo utilizza sempre. E in quel Noi ci sono i magazzinieri, quelli del marketing, i calciatori. Tutti quelli che compongono un mattoncino di questa società. La prima volta mi sentivo molto in soggezione. Era come uno di quei personaggi che da piccolo vedi in tv, oppure nei film, e rimani sorpreso quando te li trovi davanti. Mi ha salutato a Trigoria e io avevo ancora il braccio ingessato. Mi ha chiesto: «Come stai?».
Piano piano anche lui sta diventando romano.
Lore
Per forza, come fai a non innamorarti di questi posti qui. Dove esci e incontri la gente che ti ferma e cerca in tutti i modi di trasmetterti la propria passione. I bambini che si emozionano quando mi vedono, devono sapere una cosa: l’emozione è maggiore per me. E poi ci sono le foto: me le chiedono in ogni momento. La più bella che ho scattato è stata dopo il gol di tacco nel derby. Un tifoso mi ferma sul lungomare di Ostia per un selfie, tentenna e mi guarda: «Non hai capito, io voglio fare la foto col tuo tacco». Mi sono messo a ridere, mi sono girato e sì, si è scattato una foto con me di spalle e lui inquadrato insieme al mio piede.
Edo
Non puoi capire cosa mi è successo, allora. La prima foto me l’hanno chiesta al bar sotto casa. Il giorno prima della partita contro il Verona, entro per un caffè e nessuno mi riconosce. Il giorno dopo aver segnato, entro tra gli sguardi interessati: «Grande Edo, possiamo farci un selfie». E fin qui tutto bello, una grande emozione, particolare. Qualche ora più tardi stavo camminando per strada e a un certo punto vedo un camion che rallenta, fino a inchiodare: «Ao’, ma te sei Bove? Dobbiamo per forza farci una foto». Guardo lui, guardo il camion, guardo la strada. Tira il freno a mano e scende. Le macchine dietro hanno iniziato a suonare il clacson, qualcuno ha abbassato il finestrino per urlare «Ma che fai? Ma chi è questo?». Qualcuno lo insultava. Ci siamo scattati la foto, è salito sul camion ed è ripartito. Non smettevo di ridere.
Lore
Roma è così: non ti senti mai solo. Arrivi in centro e da una parte c’è Testaccio, dall’altra Castel Sant’Angelo, poi Campo dei Fiori, i Fori e il Colosseo. Come fai a sentirti solo? Il centro per noi romani è paradossale. Se chiedi a qualche mio compagno straniero, probabilmente negli ultimi anni lo ha visitato più di me. Quando passiamo davanti all’Altare della Patria, ad esempio, alcuni giocatori rimangono imbambolati. Per me è la normalità. Che bello.
Da ragazzo prendevo i mezzi e dal mio quartiere arrivavo al Colosseo con gli amici. Questi sono i miei ricordi d’infanzia. Insieme all’aritmia e al cammino di Santiago. Ne parlammo con il parroco della nostra chiesa e lo convincemmo. Il 14 luglio 2012, con gli altri ragazzi, il sacerdote e due animatori, siamo partiti da Ponferrada. Obiettivo: raggiungere Santiago in 10 giorni, circa 300 km da percorrere a blocchi di 30. Pensi che sia dura, ti spaventa non sapere a cosa andrai incontro. Ma è proprio questo il bello. Verso Santiago, nel calcio, nella vita. Nel mezzo può accadere tutto. Rifletti, e ti rimane dentro. I momenti più belli sono stati nel percorso: sai da dove parti, sai dove arrivi, la sfida è conoscere quello che dovrai vivere per raggiungere la meta.
Edo
Sai invece dove vorrei fare un cammino? Sull’Appia Antica. Se vuoi conoscere la vera essenza della nostra città, quello è un percorso molto simile a quello di Santiago. Una delle strade più storiche e lunghe d’Italia, vicino Roma Sud. Piena di alberi. Inizi a camminare verso l’ignoto.
Lore
L’ignoto. Come quando, ogni anno, ti arrivava la lettera della Roma. La prima volta avevo il cuore in gola, ma grazie alla sensibilità dei bambini avevo capito che mio padre sapeva qualcosa. E sapeva che io sarei diventato Lorenzo, «quello che gioca nella Roma». Non dimenticherò mai i secondi in cui ho aperto la busta. Un sì o un no che possono cambiarti la vita. Ero teso, ma fiducioso. Perché la lettera ti arrivava comunque, era il verdetto a segnare la tua esistenza. Legata indissolubilmente alla tua città. Siamo figli di Roma, e questo non ce lo potrà mai togliere nessuno.