Trent’anni fa, nel giro di meno di un centinaio di ore, il calcio cambiò per sempre. Domenica 26 giugno 1992 a Goteborg la Danimarca vinse gli Europei nell’ultima partita della storia in cui il portiere poteva ancora raccogliere con le mani un retropassaggio di un compagno: l’onore dell’ultima volta toccò a Peter Schmeichel. Il 30 giugno 1992, ultimo giorno di calciomercato (all’epoca si usava così), il Milan multi-miliardario di Berlusconi sganciò la bomba delle bombe: Gigi Lentini, aspirante fuoriclasse del Torino e della Nazionale, diventò rossonero per lo sproposito di… un sacco di soldi.
Il contratto fu depositato in Lega alle 19:20 del 30 giugno 1992, ma la trattativa era già iniziata a primavera: il Torino di Gianmauro Borsano versava in gravi difficoltà economiche e la via obbligata era la cessione del suo miglior gioiello, concupito sia da Berlusconi che da Agnelli, con evidenti ricadute ambientali nell’eventuale passaggio dal granata al bianconero. Il Cavaliere, alle prese con una campagna acquisti faraonica che avrebbe portato al Milan tutti insieme Papin, Savicevic, Eranio e De Napoli, voleva la ciliegina sulla torta. La corte a Lentini iniziò già a maggio, con un primo invito a cena ad Arcore con proposta di fidanzamento a cui il fantasista granata ebbe l’ardire di rispondere no (“A ventitré anni pensi di fregare il mondo”, rievocherà quell’episodio anni dopo Gigi). Al secondo tentativo il 23 giugno, con viaggio in elicottero da Caselle a Villa San Martino e visita guidata al salone delle Coppe e delle Supercoppe, Lentini capitolò. La Stampa, quotidiano di famiglia Agnelli, titolò: “Berlusconi strappa Lentini con 65 miliardi”. Così tanti?
Sì e no: con uno stratagemma giornalistico i quotidiani usavano “gonfiare” la cifra totale, mettendo insieme i 23 miliardi per il cartellino (comunque record mondiale, polverizzando il precedente primato di 13 miliardi per l’affare Maradona-Napoli risalente al 1984) e i 42 miliardi lordi di ingaggio al giocatore, divisi in otto miliardi per quattro stagioni più un non meglio precisato “bonus di benvenuto” di altri 10 miliardi lordi. Sono usanze che resistono ancora oggi, in alcuni casi addirittura per trattenere giocatori malmostosi (vedi Mbappé): allora però fecero grande scalpore e innescarono lunghi dibattiti sulla moralità di un calcio sempre meno sport e sempre più azienda, con dirigenti e presidenti divisi tra chi plaudeva alla spregiudicatezza del Cavaliere (sognando magari di poter spendere quanto lui) e chi si diceva inorridito per cifre così astronomiche. La stessa Juventus, del resto, non era rimasta a guardare: qualche giorno prima aveva ufficializzato l’acquisto di Vialli dalla Sampdoria per la cifra non certo irrisoria di 45 miliardi (anche qui tutto compreso) e sognava lo strepitoso colpo doppio per tornare a fare la voce grossa in chiave scudetto, dopo un campionato dominato dagli Invincibili di Capello che avevano chiuso l’annata senza sconfitte.
La cifra di 65 miliardi fu comunque immediatamente smentita da Galliani, che parlò invece di 27,2 miliardi totali (14 di cartellino più 13,2 al giocatore) e innescò un lungo e contorto balletto sul vero ammontare dell’operazione. Borsano, ben contento di una tale iniezione di denaro fresco, scelse inizialmente la via della finta indignazione, scaricando il peso dell’operazione sulle spalle di Lentini che a sua volta rimandò la palla dall’altra parte, alludendo alle tante cessioni eccellenti pianificate dal Torino in quell’estate: «Ho letto che stava vendendo mezza squadra e mi sono sentito tradito», disse in una bollente conferenza stampa nella sede torinese dell’ANSA, assediata da centinaia di tifosi granata inferociti. Dopo pochi giorni il prezzo del cartellino salì da 14 a 18,5 miliardi, comunque sempre qualcosa in meno rispetto ai valori reali su cui fece luce un’inchiesta della Procura di Torino, che nel 1993 accusò Borsano di essersi intascato anche sei miliardi e mezzo di lire in nero (1,5 miliardi in titoli di stato CCT e altri 5 miliardi con un versamento effettuato da un conto Fininvest in Liechtenstein).
Dopo oltre quattro anni, il 28 maggio 1998 la Procura di Milano ottenne il rinvio a giudizio di Berlusconi, Galliani e Massimo Maria Berruti, l’avvocato che aveva seguito da vicino la trattativa e nel frattempo era diventato deputato di Forza Italia. A grandi linee, la tesi dell’accusa (falso in bilancio aggravato) era la seguente: oltre ai 18 miliardi e mezzo “ufficiali”, ne sarebbero stati versati altri 10 in nero (la cifra nel frattempo è lievitata), estero su estero, per rimpolpare le esangui casse delle società di Borsano. Da quel momento, in pratica, il Toro avrebbe venduto l’anima al Diavolo, diventando una specie di succursale dei rossoneri fino al definitivo crac. Ma l’11 aprile 2002 la depenalizzazione del falso in bilancio approvata dal governo Berlusconi II accorciò di tre anni i tempi della prescrizione per questo reato, con esito retroattivo, di modo che, per un processo per reati commessi ormai dieci anni prima, improvvisamente la prescrizione passò dal 2004 al 2001. Il 5 novembre 2002 Berlusconi, Galliani e Berruti vennero prosciolti per prescrizione.