a cura di Cosimo Bartoloni, Giacomo Brunetti, Andrea Consales, Matteo Lignelli e Francesco Pietrella

Cinque storie del Ghana.

Le hanno provate tutte, perfino il digiuno per unire la popolazione in vista del grande evento.

 

Digiuno e preghiera: il Ghana ci prova così

 

Due vittorie nelle dodici partite disputate nell’intero 2022, un brusco cambio in panchina e, in generale, una penuria di talenti rispetto alla scorsa generazione. «Potrebbe andar peggio? Potrebbe piovere». Quando le cose vanno così male non resta alternativa che ricercare il soprannaturale, l’aiuto divino declinato secondo la propria cultura e le proprie tradizioni. E così ha deciso di fare il governo del Ghana, che in vista della rassegna di Qatar 2022, ha istituito, con tanto di pubblicità sui propri canali social, due giornate di digiuno e di preghiera per sostenere la Nazionale. Un invito che ha superato anche le barriere della diversità: il popolo ghanese, infatti, è diviso tra popolazione cristiana e popolazione musulmana: un giorno a testa, con il fine comune di aiutare le Black Stars a rialzarsi.

 

 

Ode a Iñaki Williams

 

Leggendo la storia di Iñaki Williams non si sa davvero da dove iniziare a raccontare. Sì, perché la vita di questo ragazzone di un 186cm potrebbe essere riassunta in una serie televisiva, e probabilmente, non basterebbe neanche una sola stagione. È figlio di due genitori che si sono conosciuti in un campo profughi ad Accra, da dove hanno intrapreso la pericolosissima fuga verso la Spagna. Si chiama Iñaki, che è il nome con cui vengono identificati gli immigrati di origine africana che, per vivere, vendono oggetti per strada: ecco per lui questo non è mai stato un problema, come ha spesso dichiarato. Perché nonostante questa storia, fatta anche di sofferenza, Iñaki Williams ha sempre il sorriso sulle labbra, anche quando parla di sé e racconta di giocare fino a tardi a fortnite e di fare sesso almeno quattro volte a settimana.  E poi ci sono i record: primo marcatore di colore della storia del Bilbao, squadra con cui non salta una partita dall’aprile del 2016 (avete letto bene) e nella quale gioca anche il fratello Nico, che ha scelto la Spagna. Iñaki, invece, ha voluto il Ghana, perché ad uno come lui certe sfide non possono fare paura.

 

 

Chiamatemi Thomas (o forse Yakubu)

 

Al centro del centrocampo e dell’intero sistema di gioco del Ghana troviamo Thomas Partey, mediano vecchio stile colonna dell’Arsenal di Arteta, che non più tardi di due anni fa ha sborsato ben 50 milioni di euro per assicurarselo. Sulla maglia preferisce il nome di battesimo, Thomas, perché, parola sua, «di Partey nel mondo ce ne sono tanti», mentre il classe 1993 vuole essere l’unico Thomas. A rendere ancora più complesso questo guazzabuglio, è intervenuta recentemente la sua conversione all’Islam, che ha portato in dote il cambio di nome: adesso Thomas si chiama anche Yakubu. Quasi un rito, quello del nome sulla maglia, che ha portato molto bene sin qui. Peccato, però, che con il Ghana il regolamento non gli conceda questa possibilità: con le Black Stars, quindi, Thomas tornerà ad essere Partey. Vedremo se manterrà il suo talento o se gli sarà rubato, in una versione in salsa calcistica di Space Jam.

 

 

Affari di famiglia, la saga degli Ayew

 

Nel Ghana del pallone il cognome Ayew è tanto inflazionato quanto sinonimo di qualità. Siamo davanti, infatti, ad una vera e propria saga, che comincia negli anni ’80 e arriva fino ai giorni nostri. Tutto ebbe inizio con Abedi, un monumento nazionale del calcio made in Africa, capace di vincere per tre volte il pallone d’oro africano (1991, 1992 e 1993), riuscendo in un’impresa comune soltanto a Eto’o e a Weah. Così forte tecnicamente da essere soprannominato ‘Pelé’ e da essere inserito dalla Fifa nella classifica dei best 100 della storia, niente male. Dopo aver vinto una Coppa dei Campioni con il Marsiglia, vivrà un’esperienza anche in Italia, con la maglia del Torino. Oggi a ricordare la sua eredità ci sono Jordan e André, i suoi figli, entrambi cresciuti nel vivaio del Marsiglia e protagonisti della nazionale ghanese. E il terzo fratello? Si chiama Ibrahim, gioca anche lui a calcio, ma ha avuto meno fortuna, pur potendo vantare due convocazioni ai mondiali, nel 2006 e nel 2010. Insomma, una questione di famiglia.

 

 

Riavvolgi il nastro, quando il Ghana ha quasi toccato il Sole

 

C’è un momento preciso in cui la storia del calcio del Ghana si è fermata: il 2 luglio del 2010. Siamo in Sudafrica, il suono delle Vuvuzela tormenta gli appassionati di tutto il mondo, l’Italia di Lippi è già tornata a casa e il Ghana è l’ultima selezione del continente africano ancora in corsa. Era arrivato fino a quel punto dopo aver superato un girone complicato, con Germania, Australia e Serbia, e si era spinto fino ai quarti eliminando gli Stati Uniti. L’avversario adesso era il temibile Uruguay di Suárez, Cavani e Forlán. Dopo 120 minuti, il punteggio è fermo sull’1-1. Da una mischia in area di rigore spunta Dominic Adiyiah che, con una coordinazione rivedibile, spinge la palla verso la porta: sembra gol, ma c’è Suárez sulla linea. Il Pistolero si sacrifica per la causa e respinge con le mani: rigore ed espulsione. Ecco fermiamoci, è qui che si compie il dramma sportivo: il Ghana è a 11 metri dalla semifinale del mondiale, dalla storia del calcio. Sul dischetto si presenta Asamoah Gyan: traversa. Si andrà ai rigori, vincerà l’Uruguay. Il Ghana si è avvicinato al sole, lo ha quasi toccato, ma poi, come Icaro, è caduto.