Non appena gli nomini l’Italia il suo sguardo va istintivamente verso l’alto, verso il cielo. Come a volerlo visualizzare prima di parlarne. Creare un legame, alimentandone il ricordo e la memoria in modo strettamente personale. Gianluca Vialli per Tore Andre Flo è stato un compagno, un allenatore e un maestro. E per certi versi forse anche un qualcosa in più. «Sì non è stato assolutamente solo questo. Anzi non è stato, Gianluca è e sarà sempre». Ti fa impressione perché mentre lo racconta ne parla al presente. «È una persona d’oro, che ti colpiva con la sua bontà d’animo. Era pronto a darti un consiglio in ogni situazione, sapeva essere un padre e un compagno allo stesso tempo. Io sono arrivato al Chelsea che ero molto giovane, lui mi ha fatto da chioccia e mi ha fatto crescere molto».
«Ognuno si faccia un goccio, ci porterà bene»
Mentre ne parla si apre poi a ricordi e aneddoti. «Te ne racconto una che ti fa capire il personaggio. Era una semifinale di Coppa di Lega contro il Manchester United. Arrivati in spogliatoio si avverte un po’ di tensione, nessuno scherza e non vola una mosca. Lui lo percepisce. Esce e rientra con una bottiglia di champagne che stappa prima che noi potessimo realizzare. ‘Ognuno si faccia un goccio, ci porterà bene’. Credeva molto nel gruppo e nell’unione. E ha avuto ragione lui, non solo abbiamo vinto quella partita ma anche la finale a Wembley. Come fai a non amarlo un allenatore così?».
Tore Andre Flo e la chiamata di Gullit
Per Flo il Chelsea è stata una famiglia, la prima volta lontano da casa. «Ricordo perfettamente il giorno della chiamata. Ero in macchina, mi squilla il telefono ‘Ciao Tore sono Ruud Gullit’. Ho pensato ‘Sì, vabbè bello scherzo’ e ho messo giù. Mi ha richiamato dopo 2 minuti ed era davvero lui. Per anni ci abbiamo riso su, che imbarazzo. Solo che per uno che è cresciuto con i suoi poster in camera, pensare che mi chiamasse per convincermi a venire al Chelsea era più che un sogno».
Negli anni passati a Stanford Bridge sono tante le cartoline da tirare fuori dall’album. «Quello che mi ha impressionato di più? Ti faccio due nomi, diversissimi tra loro ma entrambi mostruosi. Il primo è John Terry. Quando sono arrivato a Londra lui era lì da pochissimo ed era, con me, uno dei più giovani. Ma ti assicuro che era già leader. Forse più lì che a 35 anni. Era uno spettacolo, anticipo e senso della posizione da veterano. Sembrava giocasse da vent’anni».
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Quando parla del secondo si ferma un attimo, sorride e riparte. «Lo chiamavano the Magic Box, ma voi Gianfranco lo conoscete bene…». Tore te lo descrive con gli occhi ancora increduli, di chi vorrebbe attraverso le parole, riuscire a farti capire la sua ammirazione. «Zola era incredibile. Faceva tutto con una naturalezza che ti spiazzava. Rendeva semplice ogni giocata. Ma in realtà anche in spogliatoio era così. Uno che parlava poco ma che comunicava con lo sguardo. E poi le punizioni. Al posto del piede sembrava avesse un telecomando…».
«Ti piacerebbe giocare in Italia? Dal Chelsea a Siena»
Dopo tre stagioni a Londra, Flo si trova a girare un po’. Quattro anni tra Rangers e Sunderland, fino a che non arriva la chiamata che non ti aspetti. Stavolta nessuna incomprensione, solo tanta curiosità. «Ti piacerebbe giocare in Italia? Ti vogliono due squadre». «Ho accettato subito, quasi senza pensare. Scelsi Siena e posso dire di aver fatto molto bene. Poi per uno come me, cresciuto con i poster del grande Milan in camera e con le partite della Serie A in televisione. Non potevo dire di no». In quel Siena, Tore Andre si trova in coppia d’attacco con Enrico Chiesa, capitano e numero dieci dei bianconeri. «C’era una grande intesa, nella maggior parte dei gol che ho fatto c’è il suo zampino. Guizzi, spunti e accelerazioni, nonostante avesse 33 anni. Lo vedi quando uno ha qualcosa di speciale, diverso dagli altri».
«Quel giorno a casa mia piangevano tutti»
Oggi Flo fa l’allenatore, sogna di farlo ad alti livelli e cerca di fare tesoro di tutto quello che ha imparato in oltre vent’anni di carriera. «Mi porterò dentro la gestione del gruppo di Vialli, spero di riuscire a dare alle mie squadre un quinto di quello che dava lui. Un’altra cosa che vorrei avere è la calma che aveva Olsen nel preparare le partite importanti. Anche a lui devo tanto. Mi ha convocato per un Europeo e per un Mondiale, realizzando il sogno che avevo da bambino. Ricordo il giorno del mio esordio, a casa mia piangevano tutti».
Intanto studia, si informa e guarda partite a ciclo continuo. «Cerco di stare sul pezzo e non lasciare niente al caso. Ho allenato le giovanili del Chelsea, poi della Norvegia. Ora mi piacerebbe mettermi in gioco da allenatore in prima». E chissà che tornei e partite da seguire non possano essere un buon motivo per tornare in Italia. «Assolutamente. Anzi te lo prometto, quando ci risentiamo lo faremo in italiano. Devo migliorare e conoscere bene le lingue». A Siena lo ricordano con piacere, ma ovunque è andato ha strappato applausi e sorrisi. Quel gigante biondo, spinto dal vento gelido del nord. Con una stella a guidarlo nel percorso a cui dirà sempre grazie.