Quando varchi il cancello del centro sportivo del Siviglia, c’è una scritta che domina e cattura l’attenzione. «Costruendo il nostro futuro». Definizione perfetta di un movimento che crea talento, valore e soprattutto futuri campioni. Gran parte del merito, negli anni, è stato di Ramon Monchi.
Monchi, direttore sportivo nato a San Fernando, cittadina più vicina al Marocco che a Madrid, è stato profeta in patria. A Siviglia lo hanno osannato, idolatrato e poi riabbracciato quando ha scelto di tornare. Lui ha sempre ricambiato con trofei e grandi plusvalenze. Aveva salutato il Pizjuán sdraiato a centrocampo, baciando il terreno di gioco con addosso la maglia di Puerta. Atto d’amore. Poi è rientrato alla base due anni dopo, scottato da Roma e dall’Italia, quasi bisognoso di ritrovare affetto e certezze. E nessun posto è in grado di dartele come casa tua. D’altronde è ripartito come aveva interrotto, vincendo. Ancora una volta in Europa. Ma soprattutto creando valore e futuri campioni.
«È colpa mia, vi chiedo scusa».
Certo se però si parla di Monchi a Roma, il giudizio non può essere positivo. Soprattutto se si prende in analisi il secondo anno. Già, perché al suo arrivo il ds gode di molta fiducia – sia da parte della società che dall’ambiente – e porta la squadra in semifinale di Champions con Eusebio Di Francesco allenatore. Tra i due c’è un confronto continuo, Monchi si ferma spesso a mangiare dal pescarese. Apprezza la cucina italiana, anche se a tavola con lui non si parla di calcio. Gli argomenti sono tanti, si spazia dalla famiglia alla sua infanzia. Ramon è molto legato a Cadice, alle sue origini e alle tradizioni.
Il secondo anno invece le cose sono peggiorate. È mancata sempre più la condivisione, sia nella scelte che nelle idee. E piano piano è scemata anche la fiducia. Monchi se ne è sempre preso la piena responsabilità, affrontando critiche e malumori. «È colpa mia, vi chiedo scusa». Lo ha detto il giorno dei saluti e lo ha ripetuto negli anni quando si è trovato a parlare di Roma. A Budapest affronterà il suo passato. Incrocio del destino.
Ramon Monchi, «L’ingannatore di Siviglia»
Per descriverlo l’ex presidente giallorosso James Pallotta si servì de «El burlador de Sevilla y convidado de piedra», (L’ingannatore di Siviglia e il convitato di pietra), opera teatrale attribuita a Tirso de Molina, paragonando quindi Monchi a Don Giovanni e alle sue qualità di ingannatore e seduttore. L’ex presidente gli rimprovera i tanti acquisti sbagliati, soprattutto il secondo anno, da Pastore a Nzonzi, ma anche le cessioni di Allison, Nainggolan e Strootman. Anche se la lista di giocatoriche poi non hanno reso in realtà è lunghissima. Moreno, Karsdorp, Under, Gonalons, Kolarov, Defrel, Schick, Marcano, Bianda, Fuzato, Mirante, Zaniolo, Cristante, Coric, Olsen, Santon, Kluivert, Pastore, Nzonzi: tutti gli acquisti a titolo definitivo di Monchi. Una serie di nomi in ordine sparso, che trasmette caos, in una strana commistione tra giovani rampanti, vecchi santoni e calciatori spremuti, promesse irrealizzabili e altre incredibili. Seppur qualcuno, vedi Kolarov o Cristante, non male non fece. Troppo poco per essere soddisfatti, ovviamente. Ramon alle accuse – tanto del presidente quanto della piazza – non ha mai risposto. Si è limitato a salutare, congedandosi e tornando a casa. Con lo sguardo cupo, di chi ha fallito e non è stato capito.
Monchi va via lasciando una Roma alla sbando a causa di una rivoluzione senza senso: è davvero incredibile che, durante la sua gestione, di 12 giocatori acquistati solo uno abbia avuto un buon rendimento, tra l’altro il più imprevedibile, cioè Zaniolo. E non perché si tratti di pessimi giocatori, ma perché inadatti al contesto sotto ogni punto di vista: alla Serie A, al gioco di Di Francesco, al compito che gli veniva chiesto di svolgere.
Quello che più gli è mancato nella sua esperienza a Roma è stato il tempo. La fiducia di poter costruire, senza avere la pressione di portare subito risultati e risposte. «Sono arrivato che sembrava dovessi fare tutto io, comprare i giocatori, parare e difendere». Non l’ha saputa reggere, non che sia facile in una piazza come Roma. Non conosceva il calcio italiano e ne è stato risucchiato. Non ha creato una sinergia con l’ambiente e con l’allenatore. Di Francesco chiedeva giocatori da 4-3-3, lui quasi mai è riuscito ad accontentarlo. Difficile così, per tutti. Per Monchi è stato meglio tornare in patria e provare a risorgere.
«El Cartel es Se Gana»
Una frase che è passata alla storia. Agli occhi dei romanisti è diventato quasi un modo per prendersi in giro. Durante la presentazione, Monchi espone tutto il suo armamentario comunicativo. A Siviglia era stato il suo punto di forza, nella capitale sarà una Spada di Damocle. «La Roma non ha un cartello su cui è scritto si vende, ha un cartello in cui c‘è scritto si vince». Gli si ritorcerà contro. La strategia è stata però rivedibile anche in questo. Prima è partito forte, con uno scherzoso «ci vediamo al circo Massimo» detto a un tifoso in ritiro, poi si è via via ridimensionato. «Roma non si è costruita in un solo giorno, io sono arrivato da 14 mesi, lasciatemi un po’ di tempo. La squadra sarà più forte». Così non è stato e lui di tempo non ne ha avuto più. Meglio separarsi. E che strano sarà ritrovarsi ora. Da avversari, faccia a faccia, nel momento più importante della stagione.