Gianluigi Buffon da dietro la porta

by Giacomo Brunetti

Il cervello di Gianluigi Buffon è calibrato un centesimo di secondo in anticipo, obbligato dalla natura a questa peculiarità e allenato dal calcio a muoversi in anticipo per produrre parate spettacolari. Per questo la voce di Buffon è diretta, scandita, familiare, ma soprattutto pesa ogni parola prima di pronunciarla. Gigi sa sempre cosa dire dopo.

Ha lasciato il calcio. Lo ha fatto dopo essere diventato, forse, la persona più famosa d’Italia. Perché non c’è nessuno che non lo conosca. Se chiedete la formazione della Nazionale a chi il pallone lo odia, prima di procedere a forza con nomi di calciatori ritirati da tempo inizierà con «Buffon». E tu gli spiegherai che adesso gioca Donnarumma, che ci sono tanti portieri bravi… «ma quindi Buffon ha smesso?». Da oggi sì. La parata che abbiamo scelto per raccontarvelo l’ha fatta intorno ai 25 anni. Gigi è un uomo attento, abituato a osservare. Da dietro la porta, lo potete guardare in faccia. Se ripensate ad alcuni rigori che ha vissuto in carriera, quando il suo compagno calcia, lui è sempre voltato verso il pubblico. A 25 anni ha guardato la paura negli occhi: la depressione.

«La mia stagione in quel momento era normale, non avevamo più obiettivi. Ero sempre stanco, senza energie. Una mattina mi sono alzato e le gambe sono molli. Mi tremavano. Sono andato al campo e ne ho parlato al dottore. Mi rispose: ‘Gigi, questi sono sintomi iniziali di depressione’. Nei giorni successivi, nessun miglioramento. Quando mi tuffavo, non avevo forza». Inizialmente la scambi per stanchezza. «Il dottore mi propose dei farmaci antidepressivi», ma Gigi rifiuta, perché «se trovi sempre una soluzione che risolve il problema, non lo risolverai mai davvero e non ti peserai mai per ciò che sei e per quello che vali. Cercherai sempre alibi e scuse. La vita va vissuta secondo i limiti e le virtù». Aveva bisogno di nuovi stimoli, la sua vita era circoscritta al calcio e alla sua routine.

«Capisco che dovevo dare una svolta alla mia vita». Inizia a cambiare abitudini. Cambia il solito bar in cui va a fare colazione, cambia strada per andare al campo d’allenamento, cambia il modo di passare i propri pomeriggi. Un giorno sta passeggiando per Torino, in cerca del nuovo bar della sua rinnovava esistenza, e si imbatte in un cartello: «Mostra di Chagall». E qui torniamo alla nostra copertina. «Stavo camminando e mi imbatto in una galleria d’arte. Ho deciso di entrare, incuriosito». Di 200 quadri, «due o tre mi colpiscono davvero molto». In particolar modo uno, “La Passeggiata”, che «è un’immagine semplice, che potrebbe essere disegnata pure da un bambino. Mi ha trasmesso allegria e normalità, forse quella di cui avevo bisogno».

«Magari, Gigi, hai bisogno di cose normali». Viveva in modo nichilista, senza impulsi ulteriori alternativi al calcio: «Mi ero appassito, il mio cervello si era atrofizzato». Se oggi Buffon chiude la propria carriera da supereroe di molti, chiudendo un’era per più generazioni, è per aver guardato in faccia la paura a 25 anni ed esserne uscito con il numero uno sulla schiena: «Essere soddisfatti non vuol dire essere il numero uno al mondo. È trovare quella soddisfazione che ti tiene vivo e orgoglioso di te stesso».