I miei errori

li ho già pagati tutti

di Eusebio Di Francesco

A volte mi colpevolizzo più di quanto dovrei.

 

I miei errori li ho pagati tutti. Più di così, credo non fosse possibile.

 

Mi hanno dato del finito, del bollito. Gli ultimi 5 anni sono stati schifosi.

 

Ho avuto troppe delusioni. E anche io ho deluso. Ci sono tante componenti che fanno la fortuna e la bravura di un allenatore: io non sono stato né bravo, né fortunato.

 

Sicuramente, non nelle scelte: sono andato nei posti giusti ma nel momento sbagliato.

 

Roma-Barcellona è stata la notte più bella, ma l’inizio della mia discesa. Ne parleremo più avanti.

 

Dopo quel giorno, sono stato alla Sampdoria e dopo 2 partite, volevo dimettermi. Sono durato fino alla settima giornata per rispetto del mio staff, ma poi non ce l’ho fatta più: mi sentivo prigioniero come uomo. A Cagliari avevo iniziato bene, era arrivato anche il rinnovo, ma poi qualcosa si è rotto. Abbiamo deciso di rescindere. A Verona è stata l’esperienza peggiore, finita dopo 3 giornate.

 

E poi, per due anni, sono rimasto a casa. Senza una squadra, senza poter allenare.

 

Lontano.

 

L’ultima volta in cui era successo, era stato quando avevo smesso di giocare. Ero diventato per qualche mese il team manager della Roma, con cui avevo vinto lo Scudetto da calciatore. Ma avevo capito che non era la mia strada.

 

 

Dovevo fare detox dal calcio. Mi ero comprato uno stabilimento balneare a Pescara insieme a Daniele Delli Carri, un mio ex compagno. Si chiamava “Stella d’Oro”. Facevo di tutto, dalla spesa a sistemare la sabbia delle prime file. Non sapevo neanche che squadre giocassero in Serie A, non guardavo i risultati, vivevo completamente distaccato. Dovevo ripulirmi dall’ambiente.

 

Stavolta, sono tornato allo “Stella d’Oro” da cliente, dopo averlo venduto. In questi due anni sono scomparso, ma studiando. Ho vissuto in silenzio tutte le etichette che mi venivano date. 

 

«Di Francesco? Ma va, è finito».

 

Dentro di me, ho sempre saputo di non dover dimostrare niente a nessuno. Soltanto a me stesso, una semplice cosa: che ero ancora in grado di fare questo lavoro. Inconsciamente, sono nati i dubbi. Non tanto legati alle capacità, ma piuttosto di saper ancora trasmettere le mie idee a un gruppo, di saperlo gestire.

 

Tutti hanno aperto la bocca. A me piace soltanto ascoltare le critiche delle persone che stimo. Del resto, della massa, non me ne frega niente.

 

Ho pensato di tutto, anche di lasciare il calcio. Anche perché il mestiere dell’allenatore non mi è arrivato innato, qualche anno fa. È stata una scelta frutto del percorso. Ho fatto il team manager, ma non era il mio. Ho fatto il consulente di mercato, ma neanche quella era la strada che volevo percorrere. Ho fatto il responsabile di un settore giovanile, e quello è il lavoro di cui sono rimasto innamorato: entravo alle 8 in ufficio e uscivo alle 22, ogni giorno ci mettevo passione e piacere. Ancora oggi, quell’aspetto mi attrae e credo sia alla base di ogni società.

 

E alla fine, mi sono avvicinato nuovamente al campo, l’ultima cosa che avrei creduto potesse accadere in vita mia, iniziando ad allenare. Così mi sono fatto un nome.

 

Ma non è che un giorno prima sei forte e quello dopo sei scarso. Non disimpari all’improvviso.

 

 

In questo momento, ho una serenità addosso devastante. Il mio Frosinone sta andando bene, ma non sto facendo niente di diverso da quando il Sassuolo volava o la Sampdoria andava a picco. Certamente, ho imparato.

 

Durante questa pausa di due anni, sono andato da uno psicologo. Ci ho portato anche il mio staff. Mi ha consigliato tanti libri, uno su tutti “L’arte della pazienza” di Raffaele Gaito. Sono vecchio stampo, mi piace sottolineare le frasi tra le pagine per fermare i concetti. Sono pure geloso dei miei libri, non mi piace prestarli. Ce n’è uno, in particolare, che mi è piaciuto. E posso dire che in questo periodo senza allenare, ho imparato ad avere pazienza. Soprattutto, che avere pazienza non significa stare seduti ad aspettare il proprio momento. Non è quella la pazienza. Per me, adesso, è saper aspettare lavorando in vista del momento. Prepararsi a quando accadrà. Questo è ciò che ho fatto in questi ultimi due anni.

 

Dopo la Roma, ho capito che non c’è niente di scontato. Non mi è mai appartenuto come concetto, ma automaticamente può succedere. Continuo a fare ciò che facevo un tempo, ho solo rivisto alcuni aspetti e eliminato ciò che credo non serva più. Ho fatto mio ciò che penso sia interessante.

 

 

Ho avuto paura di tutte le critiche che mi sono piovute addosso? No, paura ce l’ho soltanto della barriera del Telepass. Una volta ero sulla Porsche di un mio compagno ai tempi della Roma, ci avviciniamo al casello e lui andava a tutta velocità. Ci schiantammo contro la sbarra e finimmo sotto. Da quel giorno, ogni volta che sono seduto sul sedile del passeggero, mi abbasso in prossimità del casello. I miei amici lo sanno e accelerano mentre io li prego di frenare.

 

Sono stati 5 anni in cui Eusebio Di Francesco, il promettente allenatore italiano del Sassuolo, ha fallito. Mi hanno insegnato, pian piano, a contare fino a 10. Vi faccio un esempio.

 

Cagliari-Frosinone, vincevamo 0-3 a 20 minuti dalla fine. Abbiamo perso 4-3. Che batosta! Anni fa sarei stato un fiume in piena. Ma non sarebbe stato giusto. Sono rientrato negli spogliatoi, ho contato fino a 10 e ho detto poco o niente. Sono rimasto zitto per un giorno e mezzo e i ragazzi hanno subito quel mio silenzio più di tante parole. Poi ci siamo parlati e due giorni dopo abbiamo passato il turno in Coppa Italia. Un ragionamento costruttivo per ciò che sto vedendo ancora adesso. Psicologicamente potevamo restare scioccati.

 

Un tempo sarei stato più crudo e diretto. Adesso so riconoscere quando dall’altra parte non c’è cattiveria o malizia, ma ragazzi giovani che passano attraverso la crescita. Cerco di guardare dentro me stesso prima di puntare il dito. A volte mi hanno detto che sono permaloso. Tutti lo siamo, dipende dove ci toccano. Se ti fanno una battuta su qualcosa per cui hai lottato tutta la vita, è difficile rimanere indifferenti.

 

Tante volte ho lasciato passare quando avrei potuto rispondere picche. Invece ho soprasseduto.

 

Sono una persona schiva, che sta scomoda in copertina. Spesso, questo modo di essere viene scambiato per debolezza. Ho visto questo processo anche con Mimmo Berardi, che per me è come un figlioccio. Mio figlio Federico, dice che Berardi è il mio quarto bambino dopo lui, Mattia e Luca. Mi hanno dato tre nipoti e adesso sta per arrivare il quarto. Me li sono goduti stando in famiglia. Siamo zingari facendo questo lavoro, ho sempre preferito godermi gli affetti invece di andare in vacanza. Ho rifrequentato gli amici di una vita. Quelli con cui portavo avanti il Pescara 2000, una squadra amatoriale che a volte allenavo. Io, in realtà, andavo alle partite soltanto per le cene che nascevano dopo il fischio finale. Andavo lì per mangiare e godermi quel puro momento d’aggregazione.

 

 

Come Berardi, in tanti mi hanno visto debole. Ciò che io posso dire di lui, è che è un grande lavoratore. Un professionista esemplare. Ho sentito parlare di lui come un problema per un allenatore: in realtà, è solo e soltanto una risorsa. Non ha vizi, pensa solo alla famiglia. È un ragazzo chiuso, ma se gli entri dentro ti dà l’anima.

 

È un lavoratore. Come me. Ho questo carattere e mi verrebbe innaturale comportarmi diversamente. Sembro debole? Chissenefrega. Non mi interessa ostentare. Solo essere apprezzato nel contesto in cui lavoro.

 

Ne ho sentite di tutte sul mio conto, ma non serbo rancore. Alla Sampdoria ho lasciato sul piatto 2 anni di contratto sicuri, pur di rimettermi in gioco. Ora non mi esalto. D’altronde negli ultimi 5 anni avrò allenato sì e no per 30 partite, praticamente come fare male in un campionato. Solo che il mio è stato più lungo.

 

Prima di rinascere a Frosinone, ho cambiato il mio staff. Ci siamo guardati negli occhi ed era tempo per altre esperienze. Il mio vice storico, Tomei, sta facendo bene a Monopoli. Giammarino è al Pineto, Calzona si è qualificato con la Slovacchia agli Europei.

 

Contro l’Empoli sono stato fiero della mia squadra. Mi mancava questa sensazione. Hanno giocato il secondo tempo divertendosi, con la voglia di fare la partita. Lo vedevi a occhio nudo che volevano giocare. Ricordo ancora la cena con il direttore Angelozzi e il presidente Stirpe. Il ds mi aveva già scelto, ma il presidente voleva conoscermi. Quando sono andato in bagno, si sono dati un cenno d’intesa.

 

Ma non abbiamo ancora fatto niente. E qui torno a Roma-Barcellona. Nei 4 giorni precedenti, ci eravamo allenati divinamente. Dopo il terzo gol, se guardate le immagini, sono l’unico che non esulta. Mancava ancora troppo. Florenzi mi correva incontro urlando: «Non ci posso credere!». Gli risposi: «Ci devi credere, ma per farlo devi tornare in campo». I calciatori stavano sognando a occhi aperti, travolti dalle emozioni e trascinati dallo stadio. Il Barcellona ha fatto soltanto due tiri quella sera, negli ultimi minuti. Quando noi eravamo su un altro pianeta a livello emotivo. Stavamo rischiando di gettare tutto al vento per la fibrillazione di avercela fatta. Ma non era ancora fatta.

 

Così come adesso. Siamo a metà.


CREDITS:
autore: Giacomo Brunetti; testo di: Eusebio Di Francesco e Giacomo Brunetti; immagine di copertina: Imago; immagini: Imago, Image Photo Agency, Shutterstock.