Abbiamo parlato con Paolo Vanoli, allenatore del Venezia. Dopo aver lavorato nelle selezioni giovanili italiane, è stato collaboratore di Antonio Conte al Chelsea e all’Inter. Poi ha intrapreso la carriera da primo allenatore: prima allo Spartak, adesso in laguna.
«Quando abbiamo vinto l’FA Cup con il Chelsea, Antonio era molto convinto di andare in fondo grazie alla sua mentalità. Da questo viene contagiato anche lo staff e quell’anno, è stato difficile ma l’abbiamo coronato con una coppa importante. Se guardate le foto, vedete anche la faccia stremata di Antonio e la voglia di vincere l’FC Cup a tutti i costi.
Sono il re delle grigliate? Il miei figli mi prendono in giro, ma secondo me la grigliata è un momento di festa. Mi piace molto, c’è grande aggregazione. Al preparatore dei portieri Spinelli, in Inghilterra gli consigliai addirittura le dimensioni della griglia che avrebbe dovuto comprare per farla bene.
Lavorare con Conte è un’esperienza che trasferisco ai miei collaboratori. Quando sono andato a lavorare con lui, ho sempre cercato di pensare a quello che pensava lui. Secondo me, se vuoi dare il massimo la tua testa deve pensare come quella del tuo allenatore. Inizialmente è stata una fatica, i primi mesi: sia per mentalità, sia per stile di gioco. Un collaboratore deve sempre dire quello che pensa, non è facile per questioni di carattere ma ho sempre detto ‘Non potrò mai essere il vice di Antonio’ perché ha bisogno di un altro carattere come vice. Ma mi sono sempre detto di essere un perfetto collaboratore, perché anche in uno staff ci sono diverse alchimie. La mia qualità migliore è che non riesco a non dire le cose in faccia.
Quando scelgo i collaboratori li scelgo anche per l’aspetto umano. Se pensi come un allenatore, è vincente. Se non pensi come un allenatore, non puoi arrivare preparato o sapere cosa dirà l’allenatore. Al giorno lavoro abbastanza ore, qui al Venezia iniziamo alle 8 e usciamo alle 19:30. Ognuno valuta il proprio lavoro, io credo che per farlo bene debba rimanere sul pezzo. Ogni allenatore ha la propria visione anche di questo, non vuol dire che se lavori come uno stakanovista vinci per forza. Sono curioso, guardo anche partite che non fanno parte del nostro calcio perché ad esempio, c’è una formazione che sta facendo bene e mi incuriosisce. Dormo poco? Penso proprio di sì.
Quando torno a casa, il mio prossimo step sarà riuscire a staccare. Adesso me lo rimprovero perché non ce la faccio ad esempio a non vedermi il big match. Conte me lo diceva sempre, faceva finta di staccare. Pur convincendolo, adesso ho capito perché non ce la facesse. Una volta durante la sosta della Nazionale all’Inter, dove c’erano 3-4 giocatori, gli dicemmo di riposare e stare in famiglia. Ci siamo ritrovati il mercoledì mattina, al pomeriggio si è ripresentato.
Il mio vice, visto le esperienze che ho avuto con Conte, mi ha affascinato il lavorare all’estero. Ho pensato che avrei voluto uno staff internazionale: sia per le lingue, perché oggi l’inglese diventa importante nello spogliatoio, e soprattutto per la mia curiosità di voler vedere altre culture. Quando sono andato allo Spartak, ho scelto il preparatore atletico Scienzi che lavorava in Qatar da 8 anni. Poi avevo scelto Donadel come vice quell’anno, che era stato in Canada. Come preparatore dei portieri, c’era Marco Zucker in D. Poi è andato a Vicenza e io sono andato in Nazionale, quindi ha continuato. Nel percorso si è aggiunto un nutrizionista che viveva in Qatar che poi ha intrapreso un altro percorso. Quando sono arrivato qui, Donadel mi ha detto che voleva provare come primo allenatore, quindi mi sono detto: ‘Bene, chi vorrei?’. Quindi ho cercato una persona con una mentalità opposta a quella italiana per vedere se mi può insegnare qualcosa professionalmente e di metodo. Ho conosciuto questo ragazzo allo Spartak, era venuto un giorno a trovarmi, era amico di Scienzi. Ho visto alcuni suoi lavori, veniva dal Qatar, si chiama Lino Filipe Neves Godinho ed è portoghese. Mi ha stuzzicato e oggi è il mio vice.
Essendo cresciuto come osservatore e poi come vice nelle under italiane, insomma sono nato nelle Nazionali, e ogni passaggio ha la propria interazione con i giocatori. I giovani hanno bisogno di comunicare. Ci sono degli step, ho visto l’alto livello con Conte e lì parli di campioni, hanno una diversa gestione che è il gruppo rispetto alla Serie B, dove devono crescere. Ogni livello ha una gestione. Se dovessi aggiungere una figura nel mio staff, aggiungerei uno psicologo: oggi il sociale è completamente cambiato. Questi ragazzi sono fragili al giorno d’oggi rispetto a una volta e saper interagire con loro non è facile. Vorrei una persona che mi potesse aiutare a farli rendere meglio, che me li facesse capire di più. Oggi ho quasi bisogno di fare un profilo IG perché a Mosca mi chiama mia moglie dicendomi che ho fatto IG senza dirmelo, ma uno aveva usato il mio nome per scrivere in modo fake. Puoi starne fuori, ma devi stare attento…
Il mio orgoglio qui a Venezia è stato far crescere questi ragazzi. All’estero son cresciuto anche come manager. Mi piace gestire anche cosa c’è intorno. Tatticamente è normale che sei condizionato da un sistema con cui hai già lavorato, quando sono arrivato era date delle sicurezze per la situazione in cui eravamo. Sono arrivato che eravamo penultimi e gli ho detto: ‘Peggio di così non possiamo, andate e divertitevi’. Siamo riusciti a fare qualcosa di straordinario. Sono dati oggettivi. La differenza oggi è saper stare in alto, lo dico ai ragazzi: è ancora una fatica, lo vedo, subentra il nervosismo che non ti viene il risultato o vorresti stare sempre lì. Questo è il nostro prossimo passaggio che stiamo facendo attraverso le fatiche.
Si vince con il gruppo, che ci siano stranieri o italiani. Ho fatto vedere una foto di Veron e Simeone, lui diceva che ‘Fuori dal campo ci odiavamo, ma se qualcuno in campo toccava un mio compagno lo ammazzavamo’. Questo è il succo. L’importante è l’obiettivo comune. Lo dico ai ragazzi: ‘Non mi interessa se fuori siete amici, ma quando venite qui siamo una squadra’».