Tripi si racconta: «Qualcosa a Roma mi è mancato. Io come Calafiori? È un obiettivo»

by Alessandro Lunari

Dimarco al Sion, Calafiori e Sebastiano Esposito al Basilea, e così via. Di giovani italiani trasferitisi all’estero per accumulare minuti, fare esperienza, crescere ce ne sono tanti, tantissimi. Spesso tornano, più sicuri, maturi, pronti. L’obiettivo di Filippo Tripi, ex capitano della Roma Primavera e oggi al Mura – in Slovenia – è proprio questo.

Dopo 12 anni nel settore giovanile e una stagione con la prima squadra agli ordini di Mourinho, nel dicembre del 2022 ha firmato per giocare nel massimo campionato sloveno: «Ci sono squadre che fanno l’Europa e lottano ogni anno per andare in Conference League. Il livello è più che buono, nonostante non sia uno dei top campionati europei. Anzi, credo sia un po’ sottovalutato. Io sono venuto qui per giocare e come per ogni ragazzo che scende in campo in A, italiana o estera che sia, hai alti e bassi. Ma andare via di casa per la prima volta non è stato pesante, me lo immaginavo peggio».

 

«L’esordio in Europa League? Mi ricordo il freddo… e che in campo c’era con me Calafiori»

A neanche 18 anni, Filippo inizia ad entrare in orbita prima squadra. Alla guida di quella Roma c’è Paulo Fonseca. Con il portoghese, il centrocampista classe 2002 gioca la sua prima partita da professionista. È il 26 novembre 2020, il 4° match della fase a gironi di Europa League. Si gioca in Romania, contro il Cluj: «Faceva freddissimo. Quella è la prima cosa che mi ricordo. E infatti non andavamo a scaldarci tutti insieme. Ricordo che il mister aveva già fatto 4 cambi quando chiamò Pedro per il riscaldamento. Pensai: ‘Va bene, sarà per la prossima’. Passano giusto 2-3 minuti e lo fa risiedere, così si gira verso di me e mi fa: ‘Vatti a scaldare’. Là ho capito: ‘Oddio, ora mi fa entrare’. Ha iniziato a battermi fortissimo il cuore. C’era un freddo assurdo, della partita mi ricordo a malapena che respiravo. Un po’ per il freddo, un po’ per l’emozione. Quando sono entrato in campo, ero commosso. Era un sogno che si avverava… e poi in campo, con me, c’era anche Calafiori: con lui ho fatto il percorso dal 1° giorno. Trovarmi lì, con un amico, è stato indescrivibile».

In quella stagione, Filippo gioca contro il CSKA Sofia nell’ultima partita della fase a gironi di EL e rimane stabilmente in prima squadra alternandosi giusto con la Primavera, di cui è capitano. È cresciuto insieme a Calafiori, Zalewski, tutti ragazzi che hanno debuttato in quegli anni prima di separare le loro strade: «Con Riccardo e Nicola abbiamo un’amicizia fraterna. Ogni giornata con loro era speciale. Facciamo un po’ di difficoltà a vederci ora, anche perché siamo tutti lontani ma era come stare in famiglia, davvero».

 

«Sono il mio primo tifoso, ma anche il mio primo critico: qualcosa sicuramente mi è mancato»

Prima con Fonseca, poi con Mourinho: Tripi si è affacciato al mondo dei grandi. Lo ha assaporato senza poi riuscire a confermarsi alla Roma: «Fonseca lo ringrazierò a vita per avermi fatto esordire. Ero ancora piccolo, stavo molto in Primavera. Mentre con Mourinho ho vissuto davvero la prima squadra. Mou con me è sempre stato sincero, nel bene e nel male. Mi ha aiutato molto. Una volta, in una trasferta europea, nonostante avesse raggiunto il limite massimo di panchinari, mi disse: ‘Voglio che vieni e che stai con la squadra’. Era un modo per farmi crescere vivendo lo spogliatoio, l’hotel. Sono tutte cose importanti per un giovane, affatto scontate. Tutti e due mi hanno dato tanto: uno è un top in Italia ora, l’altro è uno dei migliori al mondo… c’è poco da criticare».

Nel dicembre del 2022 ha deciso di trasferirsi al Mura. Un percorso che, nolente o dolente, ha – per esempio – fatto lo stesso Calafiori, andato al Basilea e tornato in Italia solo lo scorso anno al Bologna. «Sono venuto qui perché mi interessava il progetto che avevano su di me: penso sia stata la scelta giusta, non ho avuto ripensamenti. Lasciare la Roma dopo 12 anni di settore giovanile e tanta esperienza in prima squadra, non è stato facile. Sicuramente. Ma era molta di più la voglia di giocare: era quella la mia priorità, più che rimanere nella zona di comfort ma senza avere minuti».

A 20 anni lasciare tutto, casa, famiglia, squadra del cuore, non è semplice. Ma Filippo ne parla con grande consapevolezza: «Sono il mio primo tifoso, credo molto in me stesso, ma sono anche il mio primo critico: sicuramente qualcosa mi è mancato alla Roma. Se sono dovuto andare via, questo significa. Penso che inconsciamente il mio ‘errore’ sia stato vedermi ancora come il ragazzo uscito dalla Primavera. Qui al Mura, alla stessa età, dopo appena due giorni, mi vedevo come un giocatore al centro del progetto, titolare, nonostante l’età e la poca esperienza».

Filippo non ne parla con tristezza, era pronto. Se mai ci si possa sentir pronti a lasciare il posto in cui si è cresciuti: «Quando giochi a calcio, metti in conto di dover lasciare casa prima o poi. Ma soprattutto non è stata una sorpresa: erano mesi che non giocavo. Venivo da due stagioni con la Primavera dove le avevo praticamente giocate tutte. Passare da tutto a niente è stato difficile, avevo voglia di dimostrare chi fossi. E alla fine questo desiderio ha prevalso sul resto. Certo, ho provato tristezza nel lasciare la famiglia, gli amici, la mia ragazza o le nonne… ma penso che quello non sarà mai facile. Neanche se mi trasferissi a Frosinone che sta lì dietro».

 

I giovani in Italia: «Se uno è forte, gioca a prescindere. Camarda? È l’esempio perfetto dell’U23»

Tripi è solo uno dei moltissimi talenti italiani andati fuori per giocarsi le proprie chances. Analizza con grande lucidità la realtà con cui i giovani devono confrontarsi oggi e la domanda sul ruolo che occupano viene spontanea: «Il ruolo del giovane in Italia? In molti dicono che non li fanno giocare, ma per me, se c’è uno forte, gioca a prescindere. In una squadra grande o piccola che sia. La visione che hanno all’estero è diversa da quella presente in Italia: da noi il ragazzo viene bruciato o, al contrario, esaltato troppo velocemente. Qui se uno gioca una partita da 10 in pagella non cambia niente. Credo che questa differenza sia fondamentale. Serve continuità: e io qui la vedo. Non è questione di avere solo più chances, ma proprio continuità nel corso del tempo. E poi, il giovane viene subito visto al pari degli altri: magari fai anche 3 ottime partite, ma ciò non significa che ti sia tutto dovuto».

Negli ultimi anni, il trend in Italia sta cambiando. Piano piano anche i nostri giovani stanno riuscendo a ritagliarsi il proprio spazio e soprattutto sono nate le U23 – vedi Juventus, Milan e Atalanta – per dare ai ragazzi la possibilità di adattarsi a un calcio più vicino alla Serie A e colmare il gap con il campionato Primavera: «Il salto fra Primavera e prima squadra è grande. All’inizio è stata tosta, avevo appena 18 anni. Poi passa il tempo e ti abitui. Alla lunga non ho sofferto troppo il cambio di ritmo, ma penso che le squadre U23 siano un’ottima idea. Anche se io personalmente ci manderei proprio i giovani: dai 21, 22 anni è meglio andare fuori. Camarda è l’esempio perfetto: è giovanissimo e sta lì. È giusto che ci sia! Se tu hai un ragazzo forte, lo mandi in U23 ed è perfetto, così può diventare pronto per la prima squadra».

Filippo è arrivato in prima squadra, ha esordito, ma non è riuscito a rimanerci. Non è un rimpianto, lo dice lui stesso: «Tornando indietro con la testa di adesso farei alcune cose diversamente. Quando entri a 18 anni in uno spogliatoio del genere, sei sempre in punta di piedi. Anche magari nella maniera in cui ti comporti con i senatori. Forse la cosa che posso dire ai giovani è: ‘Buttatevi. Fate ciò che volete, dite ciò che pensate. Sempre con rispetto’. Non ho rimorsi, con la mentalità di ora sarebbe stato più facile. Tutto qua.

La prima volta che mi sono allenato nella Roma avevo 17 anni. Ricordo che ai tempi mandavano le comunicazioni nel gruppo della Primavera: leggere il mio nome la prima volta è stata un’emozione forte. I compagni più forti? Dzeko, assolutamente. Un altro livello. Poi Dybala. Se devo scegliere due fenomeni, dico loro. Oppure Pellegrini: era un esempio per noi perché ha fatto il nostro stesso percorso fra vivaio e prima squadra».

 

«Ero in campo per l’addio di Totti e fra i 10mila tifosi per l’annuncio di Dybala. Lui neanche mi credeva»

Il rapporto di Filippo con la sua Roma è viscerale. Un po’ come tanti cresciuti e passati di lì. Per questo motivo, un evento storico come la presentazione di Paulo Dybala non se l’è voluto proprio perdere. Nonostante fosse già un suo compagno di squadra: «Mi ricordo che il giorno prima nello spogliatoio si parlava tanto di questa presentazione al Colosseo Quadrato. Così ho detto a Paulo: ‘Guarda che vengo anche io’. Lui non ci credeva, anzi si era proprio messo a ridere. Ma io ero serio. Il padre della mia ragazza è super tifoso ed abita lì dietro, così quella sera ho detto: ‘Va bene, andiamoci veramente’. Eravamo io, gli amici, e altre 10mila persone: quelle sono le cose che rendono i tifosi romanisti unici. E starci dentro è stato veramente bello».

Da quando se n’è andato in Slovenia, Filippo non è ancora riuscito a tornare a casa sua, all’Olimpico: «Ancora non ce l’ho fatta ad andare a guardarmi una partita. Ci ho provato varie volte ma fra allenamenti, partite e giorni liberi non sono mai riuscito ad incastrare il tutto. Vorrei anche andare a vedere la Primavera, mi piace molto come mondo. Ogni anno ci sono 4-5 giovani molto forti. Magari quando tornerò per Natale riuscirò a fare entrambe le cose. Magari vado in Curva Sud… così tifo pure».

Un po’ come in occasione di quel Roma-Barcellona passato alla storia: «Probabilmente quello è il ricordo più bello che ho da tifoso della Roma. Da pelle d’oca, mi veniva da piangere. E poi i ritiri di Totti e De Rossi: lì di lacrime ne ho versate pure troppe. Ero uno dei ragazzini che teneva la maglietta di Totti al centro del campo quel 28 maggio 2017. In quello di DDR ero un po’ più grande: ero allo stadio con gli amici, è stata un’altra bella batosta. Purtroppo noi tifosi della Roma un po’ ci siamo abituati: pensate che la prima volta che sono andato con mio fratello allo stadio, lui è scoppiato a piangere. Era un Roma-Juventus, avevamo perso. Ho pensato: ‘Bello, ecco qui un altro tifoso della Roma. Siamo proprio fatti così’».

 

«Un anno prima di arrivare alla Roma, mi chiamò la Lazio. Ai miei dissi: ‘No, io non ci vado’»

Tradizione, appartenenza, romanismo: Filippo è tutto questo. Innamorato perso del giallo e del rosso, anche a distanza di anni. E pensare che la sua storia sarebbe potuta essere diametralmente opposta: «Giusto un anno prima di andare alla Roma, avevo ricevuto una chiamata dalla Lazio. I miei genitori mi avevano detto: ‘Pensaci, può essere un’opportunità’. Ma io categorico: ‘No, voglio giocare con i miei amici. Alla Lazio non ci vado, con la Roma sarebbe un’altra cosa’. E poi è successo veramente. Mi ricordo che il giorno del provino fossimo 60 bambini. C’erano Calafiori, Buttaro, Guerini, Zalewski. Mamma mia, Nicola era forte, forte!».

Ma non solo. Filippo è diventato capitano in Primavera, è cresciuto giocando con Calafiori, Zalewski, Bove, Cancellieri. Tutti sotto la guida di Alberto De Rossi: «La Primavera della Roma è fra le migliori al mondo. Ho avuto tanti allenatori speciali nel settore giovanile, ma Alberto De Rossi è un’istituzione: sono stato con lui per tre anni. Mi chiamava già quando ero in U17. Credo che la passione che ci mette sia ineguagliabile. È una persona d’oro, lo sento spesso anche per un consiglio o un appoggio».

Accanto a Filippo, c’è stata sempre la famiglia. Un punto di forza in più: «Molti genitori nel calcio sono esaltati per i figli. I miei per fortuna no: sono sempre stati di sostegno con una parola buona o anche una critica. Ma per loro è stato tutto normale, era semplicemente una cosa bella. Ero partito guardando giocare in giardino mio fratello e mio nonno. A 4 anni ero già nella squadra della mia scuola, con ragazzini di 6-7-8 anni. Avevo un obiettivo già da lì, per questo non ho mai pensato a un piano B. Anche in adolescenza, i miei amici uscivano, facevano serata, mentre io ero contento di stare a casa perché il giorno dopo avevo la partita. Poi diciamo che non è che mi piaccia così tanto andare a ballare! So di non aver avuto un’infanzia o adolescenza comune, ma ho sempre conciliato tutto senza farmi mancare nulla».

Oggi, in Slovenia, Filippo gioca e studia. Il calcio occupa a 360 gradi la sua vita: «Faccio l’Università di Scienze Motorie con indirizzo calcistico. Studio come si porta avanti una società, il ruolo del direttore sportivo, l’aspetto psicologico degli atleti, poi tanta anatomia e allenamenti. Il calcio è la mia vita, davvero. Il ricordo più bello per ora è sicuramente l’esordio in prima squadra: è una cosa insuperabile. Da una parte è stato molto bello, dall’altra mi sarebbe piaciuto fare di più». Ma mai dire mai. D’altronde, gli esempi di Dimarco, Calafiori ed Esposito sono una testimonianza più che concreta. E Tripi punta a quello.