a cura di Giacomo Brunetti, inviato a Firenze
Lucas Beltrán si racconta: «Palladino in estate mi ha parlato chiaro. Il pranzo con Messi e le pazzie in Argentina…»
Lucas Beltrán parla un italiano praticamente perfetto. Dopo che Raffaele Palladino lo ha spostato quasi definitivamente sulla trequarti, l’argentino ha trovato continuità e al termine di un periodo in cui il minutaggio scarseggiava, in autunno è diventato protagonista con la Fiorentina. Da metà ottobre è sceso in campo in tutte le partite disputate dalla sua squadra, segnando 4 gol e servendo 6 assist. La continuità è arrivata proprio negli ultimi mesi: «Sono una persona molto tranquilla, mi alleno sempre al massimo delle mie potenzialità perché durante il periodo in cui non giocavo molto, ho pensato: se mi alleno forte, quando arriverà il mio turno non subirò la mancanza di condizione o non avrò bisogno di adattamento».
Nonostante i tanti acquisti e un ruolo non centrale in estate, Beltrán ha avuto la sua rivincita, sapendo che solo attraverso il lavoro avrebbe potuto dimostrare il proprio valore: «Se non lascio tutto dentro al campo in allenamento, vado a casa triste. È una sensazione negativa che mi porto dietro da sempre», ci racconta negli studi del Viola Park. Ne ha parlato anche con Palladino, che glielo ha riconosciuto: «Quando ho avuto la mia occasione e ho trovato subito spazio e continuità, il mister me lo ha detto: ‘Questo è perché ti alleni così’. Penso che abbia ragione». È stato proprio il suo attuale allenatore a ottimizzare il cambio di posizione: «Il primo giorno in cui ho incontrato il mister, ero appena tornato dalle Olimpiadi. Ci siamo messi a parlare ed è stato subito chiaro: ‘Lucas, io ti vedo sia punta che trequartista’. Gli ho risposto che non c’erano problemi: ‘Quello che serve alla squadra, io ci sono’».
Un dialogo che ha portato Beltrán a diventare quello di oggi: «Abbiamo provato una partita da punta, non ho fatto bene. Poi mi ha messo trequartista, ho fatto un po’ meglio. A quel punto mi ha lasciato lì e mi trovo bene. Anche perché abbiamo tanta qualità in attacco, specialmente quando c’è Moise: ti giri, guardi davanti e c’è lui, è più facile». Il rapporto con Kean è uno dei più importanti, specialmente in campo. I due si completano: «Kean lavora tantissimo dopo l’allenamento, ci fermiamo spesso a calciare: chiamiamo un portiere e continuiamo ad allenarci. Facciamo cose che l’altro non fa, siamo complementari. Durante le partite ci parliamo molto: mi dice dove mettermi, come posizionarmi, ci confrontiamo. Anche sui movimenti da fare. In allenamento pure, parliamo di calcio e di come possiamo far male agli avversari. Se creiamo questa connessione, è più facile». Un personaggio anche fuori dal campo: «L’album di Moise l’ho sentito e mi piace. Glielo mettiamo nello spogliatoio per scherzare, ma lui non vuole cantarlo! Griddy? No no, lo sa fare solo lui!».
La concorrenza non lo spaventa. Beltrán parte da un assunto semplice, ma efficace: «I nuovi acquisti sono arrivati per darci una mano, non è che sono di un’altra squadra! Sono miei compagni, proprio come quelli che c’erano prima. Se tutti pensiamo ad allenarci per la squadra, il livello si alza: dev’essere il nostro impegno». A partire dalla fiducia nell’allenatore: «Palladino è una grande persona, gli piace insegnarci la tattica dipendendo dalla partita che affronteremo, con movimento diversi. In allenamento andiamo forte, lo staff è molto bravo e si completa. Abbiamo tutto per fare bene: dalle palle inattive agli schemi sulle rimesse laterali».
Lucas si dimostra veramente innamorato della città che lo ha accolto. Lui, che le origini italiane le ha anche nel sangue: uno dei suoi bisnonni era piemontese, «ma non ho mai visitato il paese in cui viveva». Proprio grazie a questa connessione familiare, «ho ricevuto la chiamata da parte della Nazionale italiana. Mi sono arrivate nello stesso giorno la convocazione dell’Argentina e quella dell’Italia. Ma io mi sento argentino e non ho avuto alcun dubbio. Anche perché penso che ci sono tanti talenti italiani che possono far bene e sarebbe stato irrispettoso: mi metto al loro posto, se un ragazzo nella mia posizione fosse venuto a giocare per l’Argentina, mi avrebbe dato fastidio. Quindi credo che non sarebbe stato giusto, proprio perché io mi sento completamente argentino». Idee chiare e un discorso che gli fa onore: «Mi aspettavo la convocazione dell’Italia. Due mesi prima mi avevano contattato per sapere se avessi davvero la cittadinanza italiana, quindi appena ho detto che era arrivato il passaporto, mi immaginavo la convocazione. In quel momento mi ha chiamato anche l’Argentina e non ho avuto dubbi. Anche se l’Argentina non mi chiama, la aspetto: non cambio idea per sfruttare l’occasione».
La prima volta con la Nazionale ha incontrato il suo idolo, Lionel Messi: «Mi vergognavo troppo. Per me lui è l’idolo massimo. A tavola mi hanno messo accanto a lui, qualunque cosa facessi avevo paura che mi guardasse, mi muovevo per non essere giudicato. Ma in realtà era tranquillissimo, attento a cosa dicevo. Mi ha chiesto come stessi, del River, di come andasse in famiglia: è un ragazzo tranquillo, ma la prima parola che gli rivolgi… è difficile!». Sicuramente non dev’essere stato facile. Come quando ha scelto la Fiorentina per il salto in Europa dal Sudamerica. Una scelta fondamentale per ogni talento che parte in cerca di fortuna in uno dei top-5 campionati. E che ha riguardato anche un caro amico di famiglia: Paulo Dybala, che Lucas conosce letteralmente da una vita: «Abbiamo ospitato Dybala a casa mia perché giocava nelle giovanili insieme a mio fratello. Lui arriva da un paese vicino alla mia città, quindi invece di fargli fare avanti e indietro sempre, è rimasto da noi per qualche giorno. Quando ero nelle giovanili, lui era in prima squadra, in quella della mia città: lo vedevo come un grande, come un idolo». Nei giorni più caldi del trasferimento in Italia, «prima di venire alla Fiorentina, Paulo mi ha chiamato: ‘Mourinho mi ha detto che ti vuole alla Roma’. Mi aveva già chiamato il direttore sportivo giallorosso, ma io avevo parlato prima con la Fiorentina e i suoi dirigenti. Quando Dybala mi ha contattato, erano i giorni decisivi. Mi ha chiesto cosa ne pensassi, ci siamo confrontati. L’ho richiamato per dirgli che avevo dato la mia parola alla Fiorentina, che si era mossa prima e che la sentivo più convinta: so che si stavano mettendo d’accordo con il River Plate. La Fiorentina appunto era più decisa, la Roma meno: spiegai a Paulo che preferivo una società che mi volesse davvero perché era un passo importante della mia carriera». Abbiamo letto che anche il Real Madrid lo voleva, ma lui ha rifiutato: «No, non è vero. Ho letto anche io questa notizia, ma non so da dove saltasse fuori. Poi come si farebbe a rifiutare il Real Madrid?».
Una scelta che lo ha messo davanti a un bivio, come quando da ragazzo su di lui piombarono sia il River Plate che il Boca Juniors: «Mio fratello mi disse: ‘Se vai al Boca, non verrò mai più a vedere una tua partita’. Gli dissi: ‘Ma secondo te posso firmare per il Boca?’». E da lì è nata la sua stella: «Ho esordito in prima squadra la settimana precedente a quel Superclásico, quello giocato a Madrid, in finale di Copa Libertadores… Avevano lanciato diversi giovani in vista di quella partita. Il mercoledì la squadra partiva per Madrid, ma io sono rimasto a Buenos Aires perché non ero nella lista per la coppa. Da ragazzo andavo in curva, abitavo nel convitto insieme ai ragazzi che arrivavano da fuori. Quando ero lì, non me ne perdevo una». Il tifo in Argentina è una cosa seria: «Ho visto persone vendere cose per poter andare allo stadio. Vendere televisioni o macchine, tutto per una partita. E questo ti fa capire quanto sia pazza la gente là. Ho saputo di amici che hanno visto negarsi il permesso da lavoro per andare in trasferta, ma fregarsene e andare comunque: poi quello che sarebbe successo a lavoro lo avrebbero visto in un secondo momento!».
Un ambiente carico di adrenalina, che per certi versi gli ricorda quello di Firenze: «L’ambiente dello stadio argentino non lo trovi in un altro luogo nel mondo. Qualunque stadio è pieno, la gente è in piedi a cantare. Se perdi continuano a cantare. In Italia devo dire che proprio a Firenze respiro alcuni momenti che mi ricordano quelli che ho vissuto in Argentina. Non vedo l’ora che ci sia la curva più vicina al Franchi. La gente è incredibile: una volta mi si è avvicinato un tifoso per regalarmi la sua sciarpa, mi ha detto che era l’unica che aveva ma che ci teneva a darmela. Mi ha fatto emozionare, quindi l’ho appesa in salotto e ogni volta che entro in casa, la vedo».
Uno dei suoi amici nel calcio lo ha conosciuto proprio al River Plate, nelle giovanili: Julián Álvarez. Un legame che dura ancora oggi: «Lo conosco da quando ero bambino. Quando era al River Plate, la Fiorentina gli ha fatto un’offerta. Non hanno trovato l’accordo, ma è vero che c’è stata una trattativa. Non so quanto sia stata vicina a concludersi. La scorsa settimana è venuto a Firenze, gli ho fatto da guida turistica: l’ho portato a mangiare da Omero, un ristorante fiorentino, e poi siamo andati in centro a fare una passeggiata e prendere un gelato. Non c’è stato bisogno di incappucciarsi: pioveva, non c’era troppa gente e quindi eravamo tranquilli. E poi qui riconoscono di più me: certo, poi fanno uno più uno…». Crescere in una società come il River gli ha lasciato dei connotati che si porta dietro ancora oggi: «Marcelo Gallardo e il club mi hanno trasmesso una cultura di gioco, fin dal settore giovanile devi vincere giocando il pallone, facendo possesso palla e senza far uscire l’altra squadra, pressare sempre. Da quando sono arrivato al River, ho fatto mio questo aspetto e cerco di non perderlo. Mi aiuta tantissimo: mi è successo di segnare con pressione sul portiere, come l’anno scorso al Monza». Una voglia di dare tutto che si è portato fino a oggi, ma che gli è nata dentro: «Sì, da bambino mi chiamavano ‘torito’, ero cicciottello. Mi piaceva correre in mezzo al campo, senza fermarmi, e mi dicevano appunto che sembravo un toro».
Adesso la Fiorentina ha bisogno di lui. Lo ha riaccolto in estate dopo le Olimpiadi – «per un calciatore sono molto diverse da quelle degli altri atleti. Purtroppo non abiti nel villaggio olimpico e anche le partite sono sparse, noi ad esempio eravamo sempre fuori da Parigi. Non abbiamo fatto neanche la cerimonia di apertura: per i calciatori, è quasi come partecipare a un torneo classico» – e ha conosciuto nuovi compagni fondamentali: De Gea e Gosens. «David è una persona veramente top e non me lo aspettavo. È semplice, scherza con tutti, se qualcuno ha un problema arriva da te per parlare. È un leader silenzioso. Mi capita spesso di confrontarmi con lui, tratta tutti allo stesso modo, dal più esperto fino ai suoi compagni di reparto del 2006. Un grande uomo da cui imparare. Un fuoriclasse: ma chi è che appena arrivato para subito due rigori nella stessa partita?! E poi vedeste come si allena: ti viene da pensare che se lo fa lui, che è un campione, perché non dovresti farlo tu? Se vuoi arrivare a quel livello, quella è la strada». Anche l’arrivo di Robin Gosens gli ha dato qualcosa: «Non mi è capitato spesso in carriera di trovare compagni come lui. È bello avere una persona nel gruppo che ti dà sempre il suo punto di vista e dice le cose in faccia. Ti dice sempre la verità, non vuole dirti per forza una bella parola, ma è diretto e ha portato una mentalità vincente, uno step in più, pensa alla vittoria e ti contagia. Ti fa venire voglia di vincere. Ci parla molto prima delle partite. Sa che quando dobbiamo soffrire, dobbiamo farlo tutti insieme. E la stessa cosa quando invece dobbiamo attaccare».
È rimasto sorpreso anche da Pietro Comuzzo, difensore classe ’05 esploso in questa stagione: «Mi ero accorto che fosse forte perché vedo come si allena, ma non credevo che sarebbe arrivato a questo livello in così poco tempo. Ha fatto veramente il botto: si allena come un ragazzo di 30 anni, ma ne ha 19, e ha la mentalità giusta per crescere, è uno che ascolta e cerca di imparare tutti il tempo. È veramente forte».
La chiusura per Edoardo Bove, che Beltrán ha seguito durante l’ultima serata di Sanremo, citando il suo discorso: «È un argomento di cui non mi piace parlare per un motivo: credo che a lui non piaccia tanto ricordare quella sera e il periodo che sta passando. So solo che mi dispiace perché è una bella persona, ha solo un anno in meno di me e a volte mi chiedo se sarebbe potuto succedere a me. Abbiamo vissuto un momento di paura, l’importante è che ora lui stia bene e sia qui con noi, come ha detto a Sanremo si sente incompleto e lo percepiamo. Gli stiamo vicino, lo facciamo sorridere, e poi lui saprà trovare ciò che gli manca. Quando lo vediamo entrare in spogliatoio, lo abbracciamo».
Lucas Beltrán si vive questi mesi da protagonista, con l’obiettivo di trovare ancor più continuità e ritrovare la Nazionale.