Ho passato tutta la vita ad immaginare il mio futuro. E per quanto mi sforzassi di pensarlo diversamente, la mente cominciava a rotolare di fianco ad un pallone, schivando gli ostacoli del destino, superando avversari e sfidando intemperie. Giorno e notte, notte e giorno. Seduto sul pullman, il mio sguardo si perdeva distratto tra le rughe del marciapiede intento a scovare una lattina, una cartaccia arrotolata, un tappo di bottiglia. Ed ecco quel formicolio alle gambe, quella voglia irrefrenabile di prendere a calci ogni cosa, di correre fino a sentire pulsare la gola.
Prima di andare a dormire le immagini più belle mi sfrecciavano davanti al viso, impossibili da catturare. Erano i miei sogni che si materializzavano: una scivolata a spazzare l’area a pochi secondi dalla fine, quando il fango si accumula sui pantaloncini e sul cuore, rendendo tutto così maledettamente pesante; un gol all’ultima partita di campionato seguito dalla corsa sfrenata tra le braccia dei compagni; un saluto agli amici di una vita nello spogliatoio, le quattro mura che rinchiudono l’essenza di chi ama il calcio veramente, anni luce dai contratti milionari e dalle ville con piscina e ragazze da manicomio.
Ieri non ho potuto fare altro che assistere alla battaglia dei miei compagni seduto sui gradoni del nostro campo di periferia. Forse loro non lo sanno, ma c’ero anche io là in mezzo. Urlavo parole di incitamento mentre mi mordevo le labbra bestemmiando contro il fato. Io meritavo di essere là dentro. Maledizione.
Ho paura di non poter più tornare a fare ciò mi ha sempre reso libero: sfidare i miei limiti inseguendo un pallone. Il calcio mi sta facendo male, ma io non mollo.
Fedele e innamorato, per sempre.