A Barcellona con Kumbulla: «Incredibile aver battuto il Real Madrid. La Conference con la Roma…»

by Giacomo Brunetti

Da quando è arrivato ha saltato soltanto una partita: Marash Kumbulla ha ritrovato continuità all’Espanyol dopo un anno e mezzo di problemi fisici. Attualmente in prestito secco alla Roma, sta facendo benissimo e le sue prestazioni sono fondamentali nella lotta alla salvezza. Lo abbiamo incontrato nel cuore del RCDE Stadium, il gioiello da 40mila posti che fa da casa alla società di Barcellona. «Sono veramente contento di essere venuto all’Espanyol. Avevo bisogno di giocare dopo un problema al ginocchio, quindi ho deciso di trovare un’opportunità dove poter avere continuità: mi hanno chiamato il mister e il direttore, mi hanno fatto capire che avrei avuto buone chance di giocare, e in un giorno e mezzo ero qui», ci spiega relativamente alla scelta di volare in Spagna in questa tappa della sua carriera.

«Ero già stato in questo stadio e nel centro sportivo con la Nazionale», racconta il difensore albanese, «il nostro impianto è stupendo: quando giochiamo in casa c’è una spinta in più, è all’avanguardia e per un calciatore avere delle strutture funzionali, oltre che belle, è importante». Andando nel concreto, cosa porta in più una struttura ai calciatori: «Hai più tempo per fare trattamenti, andare in palestra, fare le vasche calde e fredde, la sauna: sono piccole cose che fanno sì che il gruppo rimanga più unito, dato che trascorre maggior tempo insieme. E di conseguenza, si vede anche in campo».

Un’esperienza fuori dalla zona di comfort

Nonostante il derby cittadino con il Barcellona e l’ingombro di un club tanto enorme così vicino, l’Espanyol ha un grande seguito e tantissimi abbonati, con vari sold-out e un tifo caloroso: «Deve convivere con il Barcellona, che è un vicino rumoroso. Nonostante tutto, credo che nell’Espanyol si rispecchino i veri abitanti di alcune zone della città. Sicuramente non è una società che vive di flussi turistici, infatti l’attaccamento è forte: ci sono tantissimi abbonati, è pieno, vengono ogni settimana e hanno questa squadra nel cuore. Quello che sento spesso dire è che ‘l’Espanyol è un sentimento’».

La sua scelta di partire lo ha allontanato dai riflettori della Serie A, il campionato che lo ha cresciuto tra Verona, Roma e Sassuolo: «Quella all’estero è un’esperienza che consiglio. Ti allontani dalla zona di comfort. Ho notato ad esempio che in Spagna, prima della partita, in pullman i calciatori cantano le canzoni. Sono piccolezze che dimostrano come qui il calcio si viva in modo più allegro e con meno pensieri. Questa minore pesantezza ti aiuta a fare meglio e soprattutto se sei giovane, ti alleggerisce alcuni aspetti».

Una storia di immigrazione

Per lui, nato in Italia da genitori albanesi emigrati in Italia alla fine degli anni ’90, essere riuscito a farcela è doppiamente un motivo di orgoglio. La storia della sua famiglia parla chiaro: «Mio padre Lin è venuto in Italia circa 30 anni fa e si è stabilito a Peschiera. Poi arrivarono mia mamma e i miei fratelli». Si sono dati da fare: arrivati come muratori, adesso conducono un’impresa edile e un ristorante a Peschiera del Garda. «Siamo cresciuti qui e siamo tutti orgogliosi del percorso: i miei fratelli stanno studiando o lavorando seguendo la loro strada, ci stiamo realizzando ognuno nel proprio campo», racconta Marash. Lui, che ha scelto la Nazionale albanese già durante le under, è sostenuto da tutto il suo Paese: «In Albania il campionato più visto è la Serie A. Ci sono tantissimi tifosi di Juventus, Milan, Inter e via dicendo. Essere nato in Italia da genitori albanesi, arrivando in Serie A ho reso molte persone felici e orgogliose, anche altri connazionali nati in Italia come me che possono rivedersi nel mio percorso. Siamo un popolo molto patriottico, quindi quando c’è la Nazionale si ferma il mondo. Tutti gli albanesi mi sono stati vicini, ad esempio, quando ho scelto l’Albania. Immagina di entrare nella tua squadra dei sogni e viverla davvero».

La sua storia di vita, oltre quella che calcistica, inizia a Verona. Nato sponda Hellas, «la mia crescita al Verona si è conclusa nel migliore dei modi: salvezza in Serie A, dopo essere riusciti a salire dalla B. Io ci ho sempre creduto, sono voluto arrivare, e grazie a Jurić mi è stata data questa opportunità. Lui è stato come un secondo padre: apprezzo le persone concrete e vere, magari anche un po’ rudi, ma che ti dicono la verità in faccia. Verona per me rappresenta casa, quando posso torno due o tre giorni perché lì abita la mia famiglia. Ormai sono 5 anni che sono lontano, ma ogni volta che torno mi sembra sempre uguale. Alla fine della mia carriera, rimarrò lì».

In Spagna tra fenomeni e grandi vittorie

Adesso in Spagna sta andando alla grande. L’impresa sicuramente è stata «battere il Real Madrid. Anche quando l’arbitro ha fischiato, non credevo fosse vero. È stata una partita di sofferenza, ma non potrebbe essere diverso. Abbiamo difeso tutti insieme. Ma il Real Madrid non muore mai, quindi davvero, non mi sembrava vero. Fino all’ultimo hanno premuto. Abbiamo trovato questo gol nel finale, in contropiede, anche perché se segni troppo presto… ti ribaltano. Come si è visto all’andata: abbiamo segnato al 75’ e… abbiamo perso!». Se deve citare un singolo, «un giocatore che mi ha sorpreso del Real, di cui si parla troppo poco, è Rodrygo. Magari risulta meno rispetto a Vinícius e Mbappé, però ha una rapidità nei primi passi che è impressionante. Da fuori non te ne rendi conto, soprattutto se guardi la partita in tv, ma dal vivo fa di quelle cose che magari altri non fanno. Lui risulta speciale in ciò che fa».

E poi, oltre a Lamine Yamal – «è di un’altra categoria, formidabile per la sua età» – un nome che tiene a farci è quello di «Dani Olmo, ogni volta che ci ho giocato contro o ci ha segnato oppure ha fatto assist, si è sempre reso pericoloso: l’ho incontrato anche in Nazionale, mi piace tantissimo per come sa muoversi». Fin da quando era un ragazzo che giocava nelle selezioni giovanili dell’Albania «ho incontrato tanti calciatori forti. Ricordo in u-15 c’era Kulusevski, all’epoca nella Macedonia del Nord. Faceva ciò che voleva: scartava tutti, metteva la palla in mezzo per l’attaccante, lo faceva segnare a porta vuota. Oppure Haaland: eravamo all’Europeo u-17, tutti nello stesso albergo, quindi mangiavamo agli stessi orari e ci vedevamo spesso. Avevo un mio compagno che giocava in Norvegia, mi disse: ‘Lo vedi quello? È fortissimo’. Aveva un fisico importante, era alto, ma non sembrava così forte. Poi ci ha fatto tre gol». Uno dei suoi preferiti però gioca a Bilbao: «Un calciatore de LaLiga di cui si parla poco è Sancet dell’Athletic Club. Ultimamente segna ogni partita, nell’ultima ha fatto un gol incredibile. Ha qualità, statura…».

Un talento con cui condivide lo spogliatoio in Nazionale è invece «Asllani, un calciatore con qualità incredibili: nei passaggi corti, in quelli lunghi va col destro e col sinistro allo stesso modo. Ne ho visti pochi così: batte gli angoli con entrambi i piedi e non noti la differenza. Ha solo bisogno di crescere ancora e trovare fiducia, avere costanza. È ovvio che all’Inter, in mezzo a tanti campioni, è difficile». 

Tutte le strade portano a Roma

Gli ultimi discorsi tornano con la mente e con il cuore a Roma. Ci è arrivato dal Verona, per circa 15 milioni, vincendo una Conference League e sfiorando in finale anche l’Europa League. Quattro anni indimenticabili: «In quelle annate lì in Europa con la Roma, quella della Conference vinta e quella della finale di Europa League, era impossibile non vincere. Ti spingevano, c’era un clima incredibile. C’era il magazziniere della Roma, si chiama Roberto, mi faceva troppo ridere perché ero in panchina, e lui si girava verso di noi e ci diceva: ‘Come si fa a non vincere con questo clima qui?’, perché era impossibile, era tutto sold-out». Il costo del cartellino non gli è pesato, «all’inizio ero giovane e non pensavo troppo a quello che succedeva, io volevo giocare, poi c’erano partite ogni tre giorni e non c’era tanto tempo per pensare». 

«Ora guardando indietro – ci spiega – ho preso molta consapevolezza di me stesso, sono maturato molto tatticamente, tecnicamente e fisicamente. Ho avuto questo infortunio che mi ha un po’ bloccato la crescita e adesso sono venuto qua per continuarla». La Conference League, la prima edizione di sempre, vinta proprio in Albania, è stata «una fatalità, eravamo in finale e si giocava proprio a Tirana, quindi non poteva che finire così! È stato uno dei momenti più belli della mia vita in generale, perché rappresenta un po’ la chiusura di un cerchio. Aver vinto la prima Conference League a Tirana, a casa mia, poi il giorno dopo a Roma vedere migliaia di persone festeggiare, è stato bellissimo».

Invece contro il Siviglia, «la seconda finale l’ho vissuta da fuori, proprio per l’infortunio, purtroppo è finita così. Ha fatto anche un po’ più male, sia perché non ero disponibile per giocare, ma anche perché abbiamo perso ai rigori… sappiamo tutti com’è andata, che non dovevamo manco andare ai rigori. Taylor e quella finale? Se n’è parlato per molto tempo nello spogliatoio… ormai è andata e non si può più fare niente». Festeggiamenti incredibili: «Mi viene anche in mente adesso, quando abbiamo festeggiato, io ho una foto che ho in mano un cartellone, ma non è per prendere in giro ma perché mi ha fatto troppo ridere, dove c’era scritto ‘Lazià tira-na brutta aria’, con Tirana scritto tutto attaccato. A me quel cartellone ha fatto morir dal ridere. E niente… i tifosi a Roma sono incredibili!».

Marash Kumbulla adesso si gode l’esperienza in Spagna.