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Andrea Pinamonti
Disconnettere WiFi e rendere le chiavi a Maurito. Promemoria per la giornata di domani.
Appena sono salito in Prima Squadra, Icardi mi ha preso sotto la sua ala, dicendomi che gli ricordavo se stesso arrivato a Genova, giovanissimo e perso tra le novità. Al mio primo anno fuori dal convitto non riuscivo a trovare un appartamento, così lui mi ha prestato una casa davanti alla sua per due settimane. E dato che ero proprio un pischello senza patente, ogni mattina mi accompagnava al campo e mi riportava indietro. Mi facevo scarrozzare. Ha visto qualcosa in me.
Devo ricordarmi di dire a tutti che anche in Trentino si gioca a calcio. Non è un posto così fuori dal mondo con montagne, laghi, mucche e alberi. Certo, il calcio non è lo sport principale. Si guarda allo sci, alla bicicletta. Non ci sono società professionistiche vicine, ora il Südtirol è andato in Serie B e ho seguito con piacere le ultime gare. Quando torno a casa e sto con i miei amici d’infanzia – a loro non interessa assolutamente niente del pallone – e giriamo, mi capita di vedere persone che giocano a calcetto. Però se da voi il giovedì si gioca a calcetto, da noi è più probabile andare a fare una passeggiata nei boschi.
Spoiler: io le detesto.
Comunque mi sento trentino, amo la mia terra, ma mi accorgo che non ne faccio più parte. Quando ci resto per più di una settimana, inizio a sentirmi fuoriluogo. A 14 anni sono andato a Milano, e la mia adolescenza l’ho vissuta lì. Cena, dopocena, resti fuori. Dalle mie parti alle 22.30 sono tutti a letto. Una vita molto spartana, le persone che incontri sono sempre le stesse. La differenza è abissale. La prima volta che sono arrivato a Milano mi è preso un colpo: tutto strano, tutto nuovo. Da me la metro e i treni mica esistono. Ma direi che è andata bene.
Me le segno da sempre, poi non le scelgo mai quando arrivo dal tatuatore. Sono un malato di frasi da salvare nelle note e le rileggo tutte, prima di ogni partita. Ce n’è una, in particolare, che mi gasa molto: «Impari a fare da solo quando non conti sugli altri, impari a prendere il volo se corri più forti degli altri». Mi scrivo tutte quelle che mi restano impresse, citazioni varie. «Il successo è passare da un fallimento all’altro senza perdere l’entusiasmo», e questa mi ha aiutato molto quando, dopo aver lasciato l’Inter, le cose non sono andate sempre per il verso giusto. Non rendevo come avrei voluto. Ma si guarda avanti. «I limiti come le paure sono spesso illusioni», guardo sempre in avanti e non mi accontento. Sono ambizioso, sta agli altri dire se ne ho le capacità. Ma io, in cuor mio, sono certo di voler toccare il punto più alto.
A dire il vero, prima di scendere in campo vado anche nella galleria delle immagini. Tra i preferiti ho salvato un video di un mio gol nel settore giovanile, in un derby contro il Milan. Giocavo 3 anni sotto età, entro a 5’ dalla fine e segno il 2-0, con tutta la panchina che si riversa in campo ad abbracciarmi.
Potevo essere un tennista. Tutto è iniziato come gioco, insieme al calcio. Sono sempre stato un ragazzo dinamico a cui piace fare sport. Il tennis mi ha insegnato tanto, apprezzo le persone che praticano uno sport singolo. Io non ci riuscirei: ho bisogno del gruppo. Essere da solo con il mio allenatore non mi piacerebbe. Potevo essere un tennista, ma fin da piccolo sognavo di più il calcio. A un certo punto ho dovuto decidere, e il mio maestro di tennis mi disse di pensarci bene, perché avrei potuto avere un futuro.
Il colloquio calcistico che non dimenticherò mai è il primo avuto con Mino. Mi rimarrà impresso per sempre. Quando ho scelto di cambiare agente, lui mi aveva contattato per una chiacchierata. Ci trovammo in un ristorante a Milano, c’erano anche i miei genitori. Bastò un’ora per cambiare la mia visione del calcio, la mia ottica era stata rivoluzionata. Ho impresse tutte le parole. Finita la cena dissi ai miei: «Voglio firmare per lui, è il numero uno». Poche parole, a volte con modi crudi, tanto che all’inizio i miei mi guardavano come a dire: «Ma sei davvero sicuro?». Più passavano i minuti, più anche loro si convincevano. Non aveva peli sulla lingua, ti stravolge tutto. Quando non giocavo a Frosinone, mi chiamava per dirmi di stare sereno. Era diretto e ti motivava con orgoglio e stimoli.
Dovrò ringraziarli eternamente per aver insistito nel volermi con loro. Il direttore Accardi, a fine chiacchierata, mi disse: «Adesso devi decidere tu, ma fammelo sapere entro oggi. La deadline è a mezzanotte». Gli ho scritto che avrei accettato 10 minuti prima della scadenza, alle 23:50, e non avrei potuto fare scelta migliore. Non che non fossi convinto, dopo le ultime dovevo scegliere bene. Non potevo sbagliare. E non potevo scegliere in modo migliore. Ho vissuto un annata da protagonista, punto di riferimento all’interno di un progetto. Lavorano bene, vogliono bene ai ragazzi, alle giovanili e alla femminile. Ti confronti con persone alla mano, vivi con serenità giorno dopo giorno. Ero rimasto all’Inter consapevole di non giocare, ma è stata una stagione produttiva perché ho imparato tanto. Solo all’inizio avevo paura di aver preso una decisione errata. Mi serviva venire a Empoli: è un posto che consiglierei a tutti. In nerazzurro ho fatto a sportellate con difensori fortissimi in allenamento e rubato con gli occhi a Lukaku, Lautaro e Sánchez.
Prima o poi devo farlo a tutti i costi. Zlatan è il mio idolo e rivedo in lui la figura di Mino. Un carattere fuori dal normale. Puoi solo imparare. Adesso a 40 anni, di cui 20 trascorsi ad alti livelli, potrebbe darmi tanti consigli tattici e tecnici. Gli chiederei come affrontare i momenti di sconforto, oppure i movimenti migliori. Ma non avrei dubbi: se mi chiedessero di scegliere un calciatore con cui andare a cena, sceglierei Ibra.