Dalla Liguria a Milano, da Milano a Stoccolma. Tutto quanto per amore. Partendo da Alassio, provincia di Savona, in piena estate 1987: «Lavoro in spiaggia, in un ristorante sulla scogliera. Arrivano due ragazze svedesi, una diventerà mia moglie. A fine estate lei torna in Svezia e i miei si trasferiscono a Milano, dove mio padre ha un’agenzia immobiliare. Però ci sentiamo, lei scende in Italia, viviamo quasi un anno e mezzo a Milano, poi ci trasferiamo a Stoccolma». A raccontarsi a Cronache è Oreste Pirro, che arriva in Svezia e si scontra con due ostacoli: «La lingua. Non conosco una parola di svedese. E poi c’è il clima. Fai conto che a Pasqua dell’86 passo da +20° in Liguria ai -27° qui, un trauma». Così combatte la nostalgia dell’Italia col calcio. Prende una squadra fondata anni prima e quasi sparita, quindi resetta tutto e riparte daccapo. Li allena lui: «Come al solito, gli italiani riesci a riunirli dietro una palla. È il modo più semplice», spiega.
Oreste Pirro e gli Azzurri Stockholm
Oreste non pensa due volte a lasciare la Liguria per amore. Stoccolma? Niente paura. «Inizio come cameriere in un ristorante del centro. Lo svedese lo imparo lavorando, oggi lo parlo perfettamente anche se si sente l’accento italiano. Da lì rimango nella ristorazione e nel calcio. Ho avuto un ristorante mio, ora importo prodotti – italiani, ovviamente – sia all’horeca che tramite uno shop. Frutta, verdura, salumi e formaggi. Ho fondato una ditta che si chiama Vivitaly, oggi è sponsor degli Azzurri», racconta a Cronache. Già, gli Azzurri: «Nascono nel 1971 grazie a degli italiani che erano qui a Stoccolma. Sai, la maggior parte degli italiani ha difficoltà ad adattarsi in Svezia, avere dei connazionali accanto incide parecchio. Hanno pensato di fondare una squadra per fare comunella, poi però il progetto è finito nel cassetto perché non c’erano più troppi partecipanti. Io e un mio amico siamo ripartiti per riunire più nostri connazionali possibile e, con la scusa del calcio, avere due/tre occasioni settimanali di incontro, per allenarci e scambiare quattro chiacchiere».
«Giochiamo per divertirci»
Nel 2007, quindi, Oreste riorganizza gli Azzurri Stockholm: «Io giocavo per una squadra di colombiani. Poi ho allenato le giovanili dell’Hammarby [il club di Serie A svedese di cui Ibrahimović è co-proprietario, N.d.A]. Un giorno io e un mio amico, Gaetano Garofalo, parliamo al vecchio presidente degli Azzurri. Si chiama Jimmy Basilico. Ripartiamo dall’ottava divisione. Oggi sono passati 15 anni, siamo in sesta. Abbiamo due squadre, fino a qualche anno fa erano addirittura tre. Abbiamo giocatori dai 18 ai 50 anni, ci abbiamo messo tanto impegno. Sai, mantenere una squadra in piedi non è facile. C’è uno staff dietro. Tutti paghiamo una quota, pure io. Abbiamo pochi sponsor, quei pochi che abbiamo ci pagano poco», continua Oreste a Cronache. E prosegue: «Le spese sono tante, l’affitto dei campi, il costo degli arbitri, le trasferte…». E a proposito di arbitri: «Ci arbitrano volentieri. Io sono categorico, esigo il fair play totale. L’unico che può gridare sono io. Quando si commette fallo, va ammesso. Del resto siamo in sesta divisione, giochiamo per divertirci. Anche se poi in campo siamo lì per vincere, mica per cazzeggiare…».
«Come potrei tradire gli Azzurri?»
La mission della squadra è chiara: «Gli Azzurri sono nati per dare una mano a chi arriva qui, come feci io anni fa. Chi arriva e non sa la lingua, chi magari cerca un lavoro, insomma, ci diamo tutti una mano. Abbiamo 15 nazionalità diverse. Ho visto dei giovani un po’ sbandati inserirsi grazie al calcio. Un ragazzo, in particolare, voleva smettere. Dopo una partita, si mette a piangere e mi fa: “Oreste, non dormo da tre giorni, non so cosa c’ho nella testa“. Siamo riusciti a convincerlo a rimanere, ora ha fatto amicizia con tutti. Gli ho detto di non pensare alle problematiche future, di godersi il momento. Io a questi ragazzi non faccio solo da allenatore, sono un amico, per alcuni anche un padre», dice Oreste a Cronache. E ancora: «Sono sampdoriano, sin da bambino. Qui a Stoccolma c’è un’altra squadra semi-italiana, si chiama Sampierdarenese. C’è un bel rapporto con loro. Si era pensato persino di mischiare i club, ma loro sono retrocessi in settima divisione. Mi hanno chiesto di allenarli, ma ho rifiutato. Gli Azzurri li ho creati io, come potrei tradirli?».
Contro l’Italia 1982…
In chiusura, una chicca. «Nel 1982 io gioco nell’Alassio, la squadra della mia città, da terzino. Quell’estate, l’Italia si prepara per il Mondiale e si allena proprio ad Alassio, che è gemellata con Vigo, dove inizia il nostro Mundial. Noi eravamo ragazzi. La Nazionale arriva, ci “ruba” il campo in erba e noi ci alleniamo sulla ghiaia. Poi giochiamo. Immagina noi contro i futuri campioni del Mondo. Li avevamo visti tutti in televisione. Zoff, Bearzot, Causio, Bruno Conti, Altobelli… Abbiamo perso 11-1, ma per l’Alassio ha segnato un mio amico, di nome Gualco, che poi ha giocato in Serie A con Genoa e soprattutto Cremonese». Ma il racconto di Oreste Pirro non si conclude qui: «Diversi anni fa, la Fiorentina viene a Stoccolma a giocare in Champions League contro l’AIK. Vado personalmente a prendere i viola all’aeroporto. Ero in macchina con Trapattoni, Cecchi Gori e Antognoni. A un certo punto gli dico: “Signor Antognoni, noi ci conosciamo già”. Mi dice: “Ma come?”. Rispondo: “Le dico solo una cosa, Alassio”. E gli mostro una foto. Si ricordava di quell’amichevole contro di noi. Si ricordava di Alassio. Voglio dire, un titolo mondiale mica lo vedi tutti i giorni…».