Ben Kone parla come se fosse Natale tutti i giorni. Lo fa con l’energia di vuole afferrare i suoi sogni a mani nude. «Il destino me lo creo da solo». Lui che il regalo più bello l’ha ricevuto sette anni fa, in Costa d’Avorio, con una gamba ingessata e due occhi incazzati: «Mi ero appena fatto male giocando in strada con gli amici, a piedi scalzi. Avevo 14 anni e ho rischiato di perdere la gamba sinistra per un’infezione». La cicatrice è ancora visibile, come una sorta di macchia: «Vedi, no? La pelle è stata ‘mangiata’ dal pus. Mi ricorda che sono stato a un passo dal non giocare più a pallone». Il suo sogno.
Il viaggio dalla Costa d’Avorio
Realizzato grazie alla madre. «Era il 2015, non la vedevo da quasi cinque anni. Aveva preso un’aereo quando ero piccolo per lavorare in Italia con mio zio e non era più tornata. ‘Tra qualche anno torno e ti porto con me’, diceva. Faceva la badante. Quando ha saputo che mi ero fatto male in modo serio ha mollato tutto per portarmi le medicine. Ha perso il lavoro, la casa, la sicurezza, ma non le importava nulla. Quando l’ho vista parcheggiare l’auto sotto casa ho iniziato a saltellare con il gesso». Il 25 dicembre 2015 Ben sbarca a Fiumicino con sua madre e sua sorella: «Non ci credevo. Durante la fila per il controllo passaporti ho pensato ‘ecco, ora ci rimandano indietro’. Non parlavo italiano, ma dopo un paio di mesi avevo già trovato una squadra. Avevo ancora piccoli problemi alla gamba, ma non me ne importava nulla. Volevo solo giocare».
«Mai dimenticare le origini»
Il viaggio di Ben Kone inizia così e prosegue oggi a Frosinone, un paio di gol in 10 partite tra campionato e Coppa Italia, centrocampista di qualità con un bel mancino. «L’ho studiato guardando Messi e Maradona! Qui sto da Dio, e poi sono a un’ora da casa». Ben si presenta al Benito Stirpe con due occhiali tondi alla Harry Potter, il sorriso di chi ha tanto da raccontare e una spavalderia genuina, tipica del ventiduenne che vuole prendersi il mondo un po’ alla volta, ma non troppo in silenzio. L’accento romano lo accompagna per tutta la chiacchierata, realizzata sulle panchine dello Stirpe mentre il campo viene innaffiato. «Mai dimenticare le origini però, da dove si viene. La famiglia, il passato, le difficoltà».
Dalla Vigor Perconti al Torino
Il campo base si chiama Vigor Perconti: «La prima squadra con cui ho provato è stata il Certosa, ma non riuscirono a tesserarmi per problemi burocratici. Tra l’altro non sapevo cosa fosse il freddo. Il primo allenamento fu una botta tremenda». Kone è un centrocampista, ma alla Vigor inizia da attaccante: «L’anno in cui abbiamo vinto il campionato Allievi ho segnato 26 gol, di cui tre in finale. Uno di questi da metà campo. Con me c’era Fabiano Parisi, oggi all’Empoli, uno per cui avrei scommesso soldi sul fatto che avrebbe giocato in Serie A». Kone, fin qui, ci è riuscito una sola volta, Napoli-Torino 1-0 al Maradona. Tuttora è in prestito dai granata, la squadra con cui ha firmato il primo contratto da professionista: «Nel 2017 mi voleva anche la Lazio. Giocai il torneo Arco di Trento con la Primavera, ma scelsi il Torino. Il mio agente, Paolo Paloni, un altro degli angeli custodi incontrati nella mia vita, mi disse di staccarmi dalla famiglia per crescere meglio. ‘Vai in un’altra città, impara a stare da solo, a cucinare, a badare alla casa, così crescerai più forte e più in fretta’. Aveva ragione».
L’infortunio e le lacrime
Ora sua madre è più tranquilla però. Ben ha una figlia nata da poco, Cataleya, e una compagna che l’ha seguito da Cosenza. Un’altra tappa importante: «Lavorava alla Vodafone, fu un colpo di fulmine. Andai al negozio per farmi montare la fibra e ora è la madre di mia figlia. Quando ho lasciato la Calabria le ho detto di venire con me, e così è stato». Ben arriva al Gigi Marulla nel 2019 dopo aver vinto Coppa Italia e Supercoppa Primavera con il Toro: «Gioco tre partite, sforno un assist, ma in allenamento mi rompo menisco e crociato. Non pensavo fosse così grave, ingenuamente pensavo di dover star fermo un mese, ma quando mi hanno detto che i mesi sarebbero stati sei mi è crollato il mondo addosso. Ho pensato ‘ecco, non tornerò mai più come prima’. Ho pianto da solo in un ospedale di Cosenza, come un bambino. Per fortuna nessuno mi ha mollato, e grazie allo stop dei campionati a causa della pandemia riesco a giocare le ultime partite». A fine stagione Ben resta a Cosenza: «Dovevo qualcosa alla città». Risultato: 26 presenze e un gol in Serie B prima del gran ritorno al Torino.
«Esordio a Napoli, proprio io»
Il 17 ottobre 2021 debutta in Serie A contro il Napoli. «Io, capito? Al Maradona. Da piccolo guardavo i video di Diego e mi emozionavo. Entro a freddo dopo 8’ per l’infortunio di Mandragora, ma dopo dieci minuti causo il rigore per un fallo su Di Lorenzo. Non avevo visto il taglio, era scappato via». Lieto fine. «Devo una cena a Vanja Milinkovic, che parò il destro di Insigne dopo le mie preghiere. Nel tunnel Juric mi ha fatto i complimenti. Un martello come Mihajlovic. Persone che ti entrano nella testa. Devo molto anche a Belotti. A fine allenamento mi prendeva sempre da parte per spiegarmi qualche trucchetto. ‘Pensa meno prima di dare il pallone, non tenerla troppo tra i piedi’. Mi ha aiutato molto».
Frosinone isola felice
Il presente dice Frosinone, primo insieme al Genoa con 21 punti: «Grosso mi sta dando fiducia. Ogni tanto racconta del famoso rigore del 2006, ma non lo fa per sottolineare che c’era o per far emergere ‘l’io’, piuttosto per farti capire il senso del lavoro. Per arrivarci ha sacrificato molto ed è stato ripagato». Un compagno speciale è Lucioni: «Mi ha soprannominato ‘microfono’ per via dei miei capelli». Una sorta di spazzola scura: «Ogni tanto mi dà una botta in testa scherzando con ‘prova, prova’. Stiamo bene, siamo forti, la squadra c’è. Anche a Torino era così, con mister Coppitelli. Ricordo ancora quando gli dissi che ero un centrocampista. Lì è cambiata la mia storia. Se avessi continuato in attacco chissà dove sarei ora».
Step by step fino alla Champions
L’ultima curiosità è sui tatuaggi: «Sul braccio destro c’è il nome di un fratello mai conosciuto, Ismael. È morto nel 1994, pochi giorni dopo la nascita. Sul braccio destro, invece, c’è il nome di mia figlia, mentre sulla coscia c’è una pantera. Il mio animale preferito. Ho imparato che per ottenere qualcosa bisogna combattere. Io sono partito dall’Africa senza parlare una parola di italiano, ora gioco da professionista in Serie B. Da noi si dice ‘aiutati che Dio ti aiuta’. Ci credo molto». Anche nel destino: «L’importante è non bruciare le tappe. Se ci credi, arrivi. Non importa quanto ci metti. Il mio sogno, ad esempio, è giocare in Champions. Ci lavoro da quando sono nato». E quando lo dice per lui è di nuovo Natale.