di Norberto Betuncal
Mia madre è il capo. Non si discute. Me lo ha sempre detto: «Beto, se vai male a scuola, ci metto un secondo a toglierti il calcio». E siccome io a scuola non avevo né bei voti, né un buon comportamento, ha più volte chiamato i miei allenatori per avvisarli che non sarei più andato.
Ma io avevo un piano. L’unico piano della mia vita. Il piano Beto: diventare calciatore.
Il giorno in cui le dissi «Mamma, io non andrò all’Università. Io vado ad allenarmi perché sarò un giocatore di calcio», credo abbia avuto un mancamento. Non ha dormito per una settimana. All’epoca lavoravo al KFC, dentro il centro commerciale di Alcabideche: stavo principalmente in cassa. Ogni volta che tornavo da scuola e stavo troppo in doccia, mia madre bussava alla porta urlando «Beto, guarda che le bollette le pago io! Muoviti!». Ripeteva a me e alle mie sorelle che era lei a lavorare, che noi ancora studiavamo e che la luce e l’acqua avevano un costo. Con il mio primo stipendio, sono andato da lei mettendo i soldi sul tavolo: «Don’t worry, da oggi anche io do il mio contributo. Adesso vado a farmi una bella doccia».
Sono andato al KFC perché volevo prendere la patente con i miei soldi. Mi divertivo una cifra. Qualcuno pensa che la mia storia sia stata difficile perché ho dovuto lavorare, ma per noi era normale. Anzi, mi sono fatto certe risate, specialmente quando nella cassa accanto alla mia c’era mio cugino. Ora sto realizzando il mio sogno, è vero, ma il percorso fuori dal campo non è stato difficile. Era una bella vita anche quella: sveglia presto, dritto al KFC, poi di corsa ad allenarsi e dritto a dormire. Non era un castigo, ero felice. Mettere sul tavolo i soldi a fine mese per aiutare la mia famiglia mi rendeva orgoglioso. Pagare le bollette al posto di mia madre era come segnare un gol.
Alcuni clienti venivano solo perché c’ero io. Conoscevo i loro gusti. Arrivavano a ordinare e gli chiedevo: «Il solito? Vai pure a sedere che te lo porto». Accadevano certe situazioni da morire dal ridere. Fortunatamente sono sempre stato magro, adesso difficilmente mangio ai fast food. Ci ho mangiato troppe volte da ragazzo! Il metabolismo mi aiutava. Capitava che scambiassimo il nostro pranzo con i commessi di McDonald’s, giusto per variare.
La mia storia è passata da lì, dal secondo piano del centro commerciale di Alcabideche. Ma è cambiata l’estate in cui mi hanno scartato al Benfica, qualche anno prima. A scuola non andavo bene, mia madre era arrabbiatissima. Mi aveva tolto il calcio. Le ho detto: «Ti prego, fammi tornare. Ti prometto che mi comporterò bene a scuola». Ma non fu così. E infatti andai in un’altra squadra, ma poco dopo lei mi impedì di continuare. Ero esuberante, combinavo un casino dietro l’altro. Quell’estate nella mia testa avevo abbandonato il pallone. Non funzionava niente, non andava bene nulla. Un giorno sono andato in spiaggia con i miei amici e ho incontrato Fernando Lopes, il presidente del Tires, la squadra in cui avevo iniziato a giocare. Era sotto l’ombrellone con la moglie. Mi disse: «Ciao Beto, vieni qui che devo parlarti». I miei amici proseguirono la loro camminata, sua moglie ci lasciò da soli. Mi fece sedere sulla sdraio e iniziò a catechizzarmi: «Beto, ma cosa diavolo stai combinando? Ma come ti stai comportando? Tu sei forte, ma devi essere un uomo». Passò un’ora, forse un’ora e mezzo, a spiegarmi tutto ciò che stavo sbagliando, concludendo: «Hai sbagliato ad andare al Benfica». Mi avevano scartato, avevo 12 anni. «Fai una cosa: torna da noi. Ma devi comportarti bene. Ricordati una cosa: al Tires ci interessa che tu e i tuoi compagni sappiate giocare bene a calcio, ma ci importa di più che voi diventiate uomini veri». Ora sono un ragazzo tranquillo, ma un tempo quando qualcosa non mi andava a genio, sbroccavo. Dovevo partire da lì.
Il figlio di Fernando, Luís Lopes, era il mio allenatore. Fu subito chiaro: «Sei forte, dimostralo. Ma dimostra anche di saperti comportare». Mi mise subito in punizione, mandandomi nella squadra B. Solo che ne combinavo comunque di tutti i colori anche lì, quindi mi riportarono nella A. Luís cambiò la mia vita in due modi. Innanzitutto, si accorse che arrivavo davanti alla porta almeno cinque volte a partita, ma segnavo solo in una o due occasioni. Allora comprò un tubo di palline da tennis e iniziò a farmi calciare con quelle, in tutti i modi e da tutte le posizioni. Mi piace pensare che il primo gol che ho segnato in Serie A, contro la Sampdoria, sia stato grazie a quell’intuizione. Calcio d’angolo, spizzata di Samir e pallone da mettere dentro. Che poi anche lì l’ho colpita male, ma a differenza del passato è entrata dentro.
Inoltre, mi impose una punizione per mettere la testa a posto: avrei dovuto portare per tutta la stagione le borracce piene d’acqua. E riempirle ogni qualvolta si sarebbero svuotate. In una delle ultime partite dell’anno, lottavamo per la promozione. La squadra scese in campo per il riscaldamento e tutti si chiedevano: «Ma dov’è Beto? Dov’è finito?». Sono spuntato quasi a fine riscaldamento con le borracce: «Ma dove diavolo eri?», mi urlò il mister. «Ma ero a riempire le borracce!», anche loro si erano dimenticati che quello era il mio compito. E anche se per noi quella era una finale, io non mi ero sottratto. Prima l’acqua per i compagni, poi il riscaldamento. Li avevo presi alla lettera. Avevo svoltato.
La stagione successiva sono andato in Primavera. Sono entrato nello spogliatoio, avevo 16 anni. Mi sono cambiato e siamo andati a fare alcuni esercizi. Guardai i miei compagni e dissi: «Ragazzi, sappiate che io tra 5 anni sarò un calciatore professionista». Tutti mi risero in faccia. Tutti, tranne due: Basilio e Nino. Chiunque continuava a ridere dicendo «Beto ahahah, guarda che capita a uno su un milione». Tutti, tranne due: Basilio e Nino. Basilio è stato dapprima il mio allenatore, poi me lo sono ritrovato come compagno di squadra da grande. Può dire di aver visto davvero ogni mio gol. Nino, invece, viveva nel mio quartiere. Uno di quegli amici che mi sono portato dietro, ha sempre creduto in me.
Quel giorno dissi a un mio compagno di squadra: «Vieni qui, facciamo una scommessa. Io tra 5 anni sarò un calciatore professionista. Stringimi la mano. In palio non c’è niente, solo l’onore». Accettò.
Nel frattempo, continuavo a segnare. Cambiai squadra e andai all’Olímpico do Montijo. In quel momento, mollai il mio lavoro al KFC. Dovete sapere una cosa: mia mamma non sapeva che io fossi bravo a calcio. O meglio, non ci credeva. C’erano certe domeniche in cui tornavo a casa dalla partita e le dicevo: «Ho fatto due gol oggi». E lei rispondeva: «Ma figurati, me lo dici sempre, non scherzare». Ma quando le comunicai che sarei andato a Montijo, capì. Dovevo solo guadagnare dei soldi per farglielo digerire. Non potevo permettermi di non avere guadagni. Credevo nel calcio, ma per me non esisteva lasciare senza contributo la mia famiglia.
E qui mi prendo un momento per raccontarvi un episodio accaduto qualche anno prima.
Insieme alla squadra di futsal della mia scuola eravamo in Croazia per un torneo. Una bella esperienza. Se mi chiedete: «Ti manca la scuola? Vorresti tornarci?». Assolutamente no. Mi manca solo la ricreazione, quelli sì che erano minuti incredibili. Anche dopo, quando mi chiesero di andare all’università, fui chiaro: «A me non interessa farla tanto per fare se non ho un fine. Il mio obiettivo è diventare calciatore, non voglio studiare tanto per prendere un titolo». In Croazia condividevo la mia camera con un ragazzo, Rodrigo Lourenço. Avevo ricevuto una proposta del Gil Vicente, per andare nelle loro giovanili. Lui era entusiasta. Chiunque mi diceva: «Grande Beto, vai al Gil, complimenti». Ma no: «Non accetterò perché devo finire la scuola. Il calcio è un sogno, sì, ma prima devo mettere le basi per poterlo perseguire al 100%. Inoltre, cosa altrettanto importante, la mia famiglia. Non posso lasciarla per qualcosa che non è una sicurezza».
Tra l’altro, c’è un video di quel torneo su YouTube, caricato dalla scuola serba. Non mi sembra neanche tanto tempo fa, ma cos’è successo nel mentre…
Quando ho firmato con il Montijo, non potevo andare lì gratis lasciando il KFC. Al momento della firma, ho detto al presidente: «Io vengo, ma dovete darmi 400 euro». Ne prendevo 500-600 al mese al KFC, in base alle ore. Mi guardò malissimo: «Prima dimostra di meritarli».
Bene, Beto accetta la sfida.
Prima partita: tre gol.
Seconda partita: assist.
Terza partita: tre gol.
«Ok Beto, facciamo 350 al mese».
Se ci ripenso, mi sembra pazzesco. Era solo 3 anni prima di firmare con l’Udinese. Quanto è cambiata la mia vita in così poco tempo. Senza preavviso. In fondo era ciò che volevo: non ho mai avuto un piano B. Solo il piano Beto.
Non mi sono mai fatto illudere dai gol. Altrimenti è finita. Sapevo che se ne avessi segnati almeno 15, una squadra ancora più grande mi avrebbe voluto. Ne feci 21, quindi top.
Così arrivò il giorno della mia rivincita. Soltanto un anno e mezzo dopo quella scommessa, ero tra i professionisti. Destinazione Portimonense. I miei vecchi compagni furono onesti: mi scrissero tutti. «Beto, scusa, avevi ragione!». Ce l’avevo fatta. Ho scritto per primo soltanto a una persona: Nino. Uno dei due ragazzi che quel giorno non aveva scommesso. Che credeva in me. Era nel gruppo WhatsApp dei miei amici. Lo feci piangere, e lui fece piangere me.
Insomma, Beto ce l’aveva fatta. Ma non mi bastava. Pensai che se ne avessi segnati almeno 10, qualcuno si sarebbe nuovamente accorto di me. Ne segnai 11, quindi top. Ed è arrivata l’Udinese.
In Italia ho scoperto quanto sia bello vivere con questo calore dei tifosi. Sono veramente appassionati, gli stadi sono pieni. In trasferta ci seguono in tantissimi. Sono molto legato a loro. Mi piace vivere la mia vita serenamente. Mi chiedono foto ovunque: aeroporto, piazza, Lidl. Quando giochiamo alla Dacia Arena, sentiamo il calore in un modo pazzesco. Al KFC non ci sono più andato, anche se ce n’è uno vicino allo stadio.
A Udine ho incontrato il concetto di squadra. Nei periodi in cui non riesco a segnare, nessuno mi viene contro. Nessuno mi fischia: sento che mi vogliono bene, sanno che il mio momento arriverà. Ultimamente ho avuto dei problemi fisici e spesso sono partito dalla panchina. Contro l’Hellas Verona, ci serviva un gol. Padelli e Nestorovski prima della sostituzione mi hanno detto «Mi raccomando, devi segnare». Ero tranquillissimo: «Ragazzi, ci penso io». Me lo sentivo. Ho preso il posto di Success e quando ci siamo abbracciati a bordocampo, gli ho detto: «Tranquillo Isaac, I am coming. Io arrivo». Appena la palla è entrata sono corso verso la panchina ad abbracciarli, tutti e tre. Squadra.
Nessuno parla male di me. E anche se lo facessero, non lo vedrei. Non apro i messaggi su Instagram. A volte, però, mi arrivano le notifiche, e sono sempre messaggi positivi. Quando segno, mi scrivono i tifosi del Napoli, oppure della Juventus. Dicono «Grande Beto! Vieni da noi!». Guardo il telefono e rido: «Ma come? Con tutti gli attaccanti forti che avete, volete davvero Beto?».
Mi fa stare bene sentirmi apprezzato. Sono rimasto colpito da una coppia di anziani che ho incontrato mentre facevo la spesa alla Lidl. Mi osservavano con discrezione e la signora si è avvicinata: «Sei veramente Beto?». Le ho sorriso: «Sì, sono io. Posso fare qualcosa?». Non voleva una foto, neanche un autografo. Voleva solo conoscermi. «Non volevo disturbarti. Volevo soltanto dirti che sei un grande, e un bravo calciatore». Mi parlava come se fosse mia nonna: «Sarai un grande calciatore, voglio portarti buona fortuna. Noi siamo tifosi appassionati, sei uno di quelli che fa alzare in piedi lo stadio. Continua così, ci fai felici». Che bel momento.
Corro e non voglio fermarmi. Quando ho raggiunto i 33 chilometri orari di scatto, mi sono posto come obiettivo i 37. Darwin a Liverpool ha raggiunto i 38 chilometri orari. Attualmente non ci riuscirei. Ma non c’è un modo per allenare la velocità: corri, e basta. Preferisco essere veloce e ‘burro’, che intelligente ma lentissimo. Se sei veloce e ‘burro’, puoi cambiare di testa e imparare. Ma se sei lento… sei morto! Non ci arrivi. Quindi lasciatemi così, veloce e pazzo.
Veloce, come il mio idolo. Tutti i miei amici sanno che io amo Eto’o. Per me non è un semplice idolo: a tutti piacciono Messi e Ronaldo, io Eto’o proprio lo amo. Quando al parco giocavamo con il pallone, fingevamo di essere i grandi campioni. Tutti si ammazzavano per scegliere i migliori, io invece non ho mai avuto dubbi. «Raga, io vado in attacco. Sono Eto’o». In quegli anni sono diventato Beto’o. Avevo un quaderno in cui mi firmavo solo così. Non sono mai voluto essere qualcun altro. Lo sfondo del mio computer era Eto’o. Nella mia camera c’era Eto’o. Il mio numero di maglia era quello di Eto’o. Tutto il mio mondo era Samuel Eto’o.
La prima volta in cui ho saputo della sua esistenza, lo ignoravo. Non guardavo le partite da ragazzo, ma quando iniziai a fare le prime partite, un allenatore mi disse: «Tu devi prendere la numero 9, come Eto’o». E io: «Chi?». Pochi giorni dopo si giocava a Roma la finale di Champions League tra Barcellona e Manchester United. Volevo guardarla perché giocava questo Eto’o. Andai fuori dalla casa di uno dei miei migliori amici e la spiai dalla finestra. Si vedeva il televisore. A un certo punto vedo questo giocatore che punta, fa uno scatto, scarta tutti e segna. Esulta indicando il colore della pelle.
Ho l’illuminazione: «Io voglio essere come lui, nient’altro».
Da quel giorno l’ho seguito ovunque. Sono tifoso del Chelsea e quando è andato nei Blues, sono impazzito.
Lo scorso anno è venuto a sapere che sono un suo fan. Tramite il suo procuratore, mi ha invitato alla sua partita d’addio al calcio. Mi ero appena infortunato: volevo piangere. Perché se incontro Pelé, Ronaldo, o un altro grande del calcio, sicuramente gli chiedo la foto. Ma se incontro Samuel Eto’o, io mi metto a piangere.
Anche questo fa parte del piano Beto.