Abbiamo incontrato Claudio Marchisio a Brandizzo, in provincia di Torino. A un anno e mezzo dal ritiro, e 35 anni da poco compiuti, l’ex centrocampista ci ha spiegato cosa significhi per uno sportivo esporsi su temi mondiali, prendere posizione, e ci ha svelato alcuni retroscena della sua carriera. Abbiamo realizzato questo video insieme a lui.
FUTSAL – «Ci troviamo in un nuovo palazzetto, quello della L84. Una nuova realtà di calcio a 5. Mi ha preso subito, da fuori pensavo che sarebbe stato semplice, avendo giocato ad alti livelli. E invece c’è tanto lavoro dietro: tanta tecnica, tanto movimento, è uno sport faticoso e divertente, la partita non si ferma mai. Ci possono essere cambi di risultato velocissimi, siamo nel clou della stagione e spero che riusciremo a salire in A1. Si punta a vincere, c’è una grande struttura. Dietro c’è una famiglia che ha costruito non solo la squadra, ma anche uno dei settori giovanili più importanti d’Italia. L84 collabora con la Juventus per insegnare il calcio a 5 ai piccoli. Neymar, Douglas Costa, sono arrivati da questo sport. Stanno iniziando a portare la tecnica di base del futsal nel calcio a 11, e viceversa. Sono due sport che sembrano uguali, ma non è così. Si vive di tanti 1 contro 1, quelli che ci entusiasmano nel calcio a 11: qui è sempre così, anche per il portiere».
INFORTUNIO – «Ho imparato che la squadra è importante, ma nei momenti di infortunio fa tantissimo l’aria di casa tua. La famiglia, gli amici. Da infortunato, anche quando vai al campo, viaggi a una velocità diversa. Sì, sei con loro nello spogliatoio, ma vanno a una velocità diversa: fisica e mentale. Devono preparare la prossima partita. Tu hai un percorso più lento, sei sul lettino e poi fai la seconda parte in palestra. Non vivi quei momenti di squadra. Soprattutto in questo periodo, dov’è ancora più difficile muoversi, trovare la serenità a casa, quando sei giù perché il rientro in campo lo vedi lontano, è fondamentale. Chi è a casa con te vive alla tua velocità e può aiutarti a superare l’ostacolo».
JUVENTUS – «Vivo con dei mal di pancia in più, la guardo in tv e non allo stadio. La vivo con la passione che avevo da giocatore. Vedere da fuori certi momenti, soprattutto quest’anno con alcuni intoppi, non è facile. Quando eri calciatore, anche se perdevi, la scaricavi nello spogliatoio o in campo. Adesso sono un tifoso. La pandemia mi ha aiutato a fare questo stacco dalla carriera professionistica. I primi mesi ero pronto, avevo preso una decisione ponderata, ma cercavo sempre un po’ il campo, anche solo girando in macchina. E mi tornava la voglia. La pandemia mi ha aiutato a staccare totalmente da quello e stare 100% sulle mie attività».
ATTACCAMENTO ALLA MAGLIA – «Fai il tuo percorso da bambino nella tua squadra del cuore. Hai quel sogno. E alla fine lo raggiungi. Sembra incredibile, fino a quando non ci arrivi non ci credi. Vedi ragazzi che hanno talento come te, ma si fermano per infortuni o problemi familiari. E invece tu ce la fai. Quando sei lì e raggiungi questo sogno, devi contare che ci sono talmente tanti anni di sacrifici dietro – non ho mai fatto un weekend fuori, fino a quando non ho avuto la macchina, oppure ho perso tutte le uscite in bici da bambino – e anche nelle difficoltà ti senti attaccato. Quello che hai fatto lo hai conquistato e non vuoi più lasciarlo. In alcuni momenti potevo scegliere di andare via, specialmente nei due anni del 7° posto, alcune squadre straniere mi proponevano contratti. Erano stati anni pesanti: non avevo mai vinto niente, c’erano Buffon, Nedved, Del Piero, gente che aveva vinto Mondiali e Champions. Avevano dei mal di pancia tremendi a fine partita, e anche io: non amavo perdere con la mia squadra del cuore. Non nascondo che dicevo: ‘Ma io adesso voglio vincere, voglio qualcosa di più’. Per fortuna l’anno dopo arrivò Conte. Mi ero fatto questa promessa: volevo diventare un giocatore della Juventus. Ho avuto la fortuna di vincere tanto e non posso che esserne orgoglioso. Se guardo la Juventus, ho il sorriso per quello che mi ha regalato».
SCUDETTI – «Per quello che ha vinto la Juventus, ho vinto una piccola parte. Ma anche se fosse stato solo uno, sarei felice come adesso. Quando abbiamo iniziato questo percorso non ci saremmo mai immaginati di arrivare alle vittorie, ai record, ai recuperi di punti, ai pochi gol subiti. Non ci sono solo i trofei. Il bello di rivedere le foto di fine anno, quando alzi un trofeo, è che ricordi cosa c’è stato prima attraverso i sorrisi. Quando arrivi ad alzare la coppa è come se sgonfiassi la tensione di cosa hai fatto durante l’anno».
CALCIATORE TIFOSO – «Non solo nello sport, ma nella vita, il problema è culturale. Soprattutto nella vita dei giovani: se siamo responsabili delle nostre parole, sappiamo che ricadono sui più giovani. Leggevo in occasione del compleanno di Pogba una cosa interessante. Ha detto: ‘Non pensavo di arrivare in Italia e trovare un razzismo così importante’. Ha raccontato di quando, a Firenze, un padre con il figlio lo insultava. La sua risposta: regalare la maglia al bambino. Sono convinto che quel bambino, quando è arrivato a casa, non si rivedeva in suo padre, ma in Pogba. Avrà guardato quella maglietta della Fiorentina, ma vale per qualsiasi altra squadra, con ammirazione. Come quando siamo in campo e inveiscono contro un ragazzo di colore che ci segna contro. E magari quel ragazzo è talmente forte che l’estate viene nella tua squadra e la stessa persona che lo offendeva, adesso esulta ai suoi gol ed è il suo primo tifoso. C’è un problema di razzismo reale, ma una parte è ignoranza di questa passione che si trasforma in atteggiamento tossico».
MCKENNIE – «Fondamentale che arrivino ragazzi come lui dall’estero per insegnare a noi questa apertura mentale, questa voglia non per forza di essere d’accordo con quello che dicono, ma di essere curiosi e andare a capire il perché, aprendo la mente. Inoltre, bisogna abbattere le barriere: uno sportivo non deve pensare solo al suo rettangolo di gioco. Questa possibilità va sfruttata, devo portare le mie idee nel mondo dello sport, ci sono barriere che stanno diventando sempre più alte. Non si può legare il pensiero di una persona solo alle prestazioni: giochi bene, puoi dire quello che vuoi; giochi male, non sono d’accordo con te. Non va bene. Vale la stessa regola del razzismo: non ha senso».
UTILIZZARE VISIBILITÀ – «Quando ero bambino e ascoltavo Del Piero in televisione, mi insegnava qualcosa. Sono cresciuto così perché a casa mi hanno insegnato ad ascoltare. Lo sportivo ha delle responsabilità in campo e fuori, ed è giusto che siamo noi a decidere cos’è giusto e cosa è sbagliato. Le persone che diventiamo, lo dobbiamo prima di tutto ai nostri genitori».
IBRAvsLEBRON – «Ognuno di noi ha il proprio carattere e le proprie idee. C’è chi è predisposto a parlare di altro, perché non ha paura ed è normale. Oppure c’è chi come Ibra che vuole concentrarsi solo sul campo perché il suo obiettivo è solo quello, dopo vedremo cosa ci sarà. Non c’è un giusto e uno sbagliato. Bisogna sempre vedere chi si è e cosa si vuole lasciare come segno, non soltanto grazie al proprio talento ma ai fatti. Ibra, per quanto è grande come sportivo, a volte cade in qualcosa sul campo. Ma è anche il suo carattere».
EDITORIALE SU SILVIA ROMANO – «Ho avuto la fortuna di conoscere la sorella di Silvia Romano a Milano. Le ho detto: ‘Come fai a essere così serena che non sai dov’è tua sorella?’. E lei giustamente mi ha risposto: ‘Il mio pensiero è sempre lì ma devo assolutamente andare avanti con la mia vita’. Aveva una forza incredibile. Nel ragionare e scrivere sull’evento, quell’incontro è stato importante».
ITALIA IN EUROPA – «In Italia cambiamo troppo in fretta opinione e pensiero. Fino ai gironi la Juventus era passata facilmente: è vero che negli ultimi anni è mancata spesso la cavalcata in Champions, ma bisogna sempre vedere come arrivi e chi c’è dall’altra parte. Non so perché la Juventus, in un ciclo così vincente, non sia riuscita a vincere una Champions. Questo è il rammarico più grande. Quello che abbiamo visto è che l’Atalanta è riuscita a portare un gioco totalmente diverso in Europa, è uscita con il Real Madrid e all’andata la partita è stata rovinata dall’espulsione. Ha continuato a giocare con intensità anche in 10. Questo è quello che manca, lo vediamo nelle inglesi e nelle tedesche, o nel PSG, o nelle spagnole anche se sono leggermente più indietro su questo aspetto. L’intensità è differente, l’ho constatato anche nei giocatori che arrivavano da fuori, come Evra. Mi diceva: ‘In Inghilterra ci allenavamo con meno tempo ma con maggiore intensità, qui lavoriamo più tempo a ritmi diversi, e le gare sono diverse’. Quell’aspetto lì è da analizzare, lo abbiamo visto anche quest’anno quando le nostre squadre sono uscite».
APPROCCIO ALLA GARA – «Per me è sempre stato serio, sono cresciuto così. La prima volta che sono arrivato in Prima Squadra c’erano Fabio Capello e il vice Italo Galbiati. Non c’erano neanche le cuffiette per ascoltare la musica, nemmeno le casse. Si arrivava tutti concentrati: chi chiudeva gli occhi, chi parlava con l’altro di cosa fare in campo. Ho vissuto l’evoluzione e all’inizio per me era inconcepibile vedere un ragazzo che chiudeva gli occhi e ballava per concentrarsi. Era quasi sbagliato. Con il passare del tempo vedevo che quando scendeva in campo andava alla grande. Se gli toglievi quello spazio, era quasi nervoso. Il suo era un mezzo per scaricare e concentrarsi. Io ascoltavo la musica solo in pullman, allo stadio ascoltavo il rumore dei tifosi. Successivamente ho messo il rock fino allo spogliatoio, dove non c’era più il rumore e non c’erano le telecamere. ‘Bene, ora inizia la partita’, e staccavo la musica».
SENTIRSI SOLO – «Mai, sono una persona curiosa. A 20 anni ha voglia di stare con i ragazzi della tua età, ma ti piace ascoltare il capitano. Che ti può dare non soltanto esperienza in campo, ma anche nella vita. A 30 anni fai fatica a scherzare con i ventenni, perché ti rubano il telefono a tavola e dici: ‘Basta, sono 15 anni che mi fanno questi scherzi’ (ride, ndr). Ma è giusto cercarci sinergia, lo spogliatoio nasce dalle esperienze. Penso adesso a Buffon con Fagioli, quante ne hanno da raccontarsene».
BUFFON – «Sicuramente è uno di quelli che mi ha dato tantissimo, non è semplice per un portiere. I portieri li vediamo come quelli più matti, perché vivono la giornata in maniera diversa. Hanno il loro allenatore, nel loro gruppetto. Fanno i loro esercizi. Creano un loro nucleo. Essere capitano ma vivendo la giornata diversamente non è semplice. Devi rimanere collegato con le altre teste. Lui vedeva quando il gruppo iniziava a sfaldarsi o non era concentrato. Ti chiamava e diceva: ‘Dobbiamo parlare’. Aveva questa grande capacità».
INIESTA – «La foto insieme a lui ha una storia particolare. L’ha scattata sua moglie. Ero sul lettino con mia moglie mio figlio era piccolissimo. Le dicevo: ‘Amore c’è Iniesta, devo andare a chiedergli una foto’. E lei mi rispose: ‘Ma lo sai quanto a volte rompe a te che sei in vacanza e te la chiedono, lascialo stare’. Però dai, era Iniesta, non potevo perdere l’occasione. Alla fine è venuto lui a chiederla a me. Quando me l’ha chiesta, gli ho detto: ‘No guarda che sono io che voglio la foto con te’. Per me lui è stato tra i più grandi, almeno per quando ho giocato io. Non ha vinto il Pallone d’Oro, ma ha giocato nel periodo di due/tre mostri. Se per me Federer è il tennis, Iniesta è il centrocampista. Non teneva mai fermo il pallone».
CENTROCAMPISTA – «Ti aiuta a guardarti intorno. Sono diventato un centrocampista completo proprio perché prima gli allenatori mi hanno cambiato tanti ruoli. La capacità di adattarmi a tanti ruoli l’ho messa nel pentolone delle mie qualità. Ho sempre cercato, attraverso le mie caratteristiche, di dare un plus alla squadra e raggiungere prestazioni di livello. Ho fatto il terzino, l’esterno, la seconda punta, il box to box».
BERNARDESCHI – «L’essere duttile può penalizzarlo. Ma a un certo punto della carriera, sia tu che il tuo allenatore dovete capire qual è il vero ruolo. Non può, ogni allenatore, cambiare la posizione. Devi guardare anche la crescita. Prendo l’esempio di Bentancur, portato davanti alla difesa per mancanza di elementi o altri fattori, e per me è stato un errore: troppo presto. Lui ha bisogno di ritmo, ha velocità, doveva continuare a fare il percorso da mezz’ala per arrivare a segnare quei gol in più che non ha mai fatto. Un percorso che lo avrebbe portato in futuro a coprire pure un ruolo davanti alla difesa. Sarebbe cresciuto in maniera più ampia se non avesse cambiato».
JUVENTUS – «La Juventus degli ultimi anni ha una rosa più ampia, hai capacità di poter cambiare a gara in corso. Rimango dell’idea che bisogna avere una base fissa, le tue partite devono essere quelle con la tua identità. Cambiare in corsa, soprattutto in questo periodo, ci sta. Ho sempre amato il centrocampo a tre, ma probabilmente perché mi rispecchio nella mia carriera. Ho sempre amato il centrocampista che potesse coprire più spazi con un uomo in meno per averne uno più avanti. Quest’anno la Juve non ha mai avuto Dybala, probabilmente avrebbe cambiato modulo. Guardiamo il lato positivo: ci sono giovani che stanno crescendo bene, tra McKennie e Chiesa, che mi ha impressionato per la perseveranza di dare il massimo in ogni gara. Sono 9 anni che la Juventus vince, un anno di transizione ci sta, ma non parliamo di una stagione fallimentare».
CRISTIANO RONALDO – «Il Real ha perso molto senza lui, al suo posto non è arrivato nessuno. Neanche come personalità o peso specifico. Hazard non ci è riuscito. Ronaldo alla Juventus ha portato la sua grandissima vena di gol, lo abbiamo visto il primo anno quando ha ribaltato l’Atletico, che notoriamente non concede tanti gol. Negli anni di Ronaldo si è tralasciato dietro qualcosa: acquisti che dovevano essere importanti ma non lo sono stati, lo zoccolo duro si avvicina al ritiro e i giovani non sono riusciti a creare un nuova base».
TOP-11 TRA COMPAGNI E AVVERSARI – «Buffon; a destra Alves, centrali Chiellini e Ramos, a sinistra Maldini; davanti alla difesa Pirlo, centrocampisti Iniesta e Pogba; davanti Cristiano, Messi e Benzema».
BENZEMA – «Era vicino alla Juventus, l’anno di Ciro Ferrara. Non aveva fatto bene al Real ma purtroppo non arrivò. C’era la possibilità».
RISTORATORE – «Stiamo aprendo il quarto ristorante, ‘Legami’, a Bergamo. Abbiamo avuto paura per la riapertura a Roma. Come ristorante, aprire e chiudere così è complicato. Ogni città vive una sua storia. Roma, Firenze, Venezia: le città d’arte sono state le più colpite. Quando abbiamo riaperto, a Roma ero da solo davanti alla Fontana di Trevi. Non c’era nessuno, impressionante. C’è chi non ha mai riaperto perché non vuole rischiare. Siamo contenti del nostro percorso, vogliamo continuare la crescita e dare una mano in altre città con nuovi posti di lavoro. Da 5 anni la nostra professionalità ci sta dando soddisfazione con le persone. Ringrazio tanti bergamaschi che mi hanno scritto e non vedono l’ora. In ogni punto cerchiamo di portare dipendenti locali. Spero nella riapertura di tutte le attività».
CANCELLARE UNA PAROLA – «Cancellerei un coro: ‘Buu’; che sentiamo negli stadi. Lo vivevo, l’ho visto quando sia pesante per i miei compagni. Non è una parola, ma è pesante. Sono macigni che ti cadono addosso. Si potesse cancellare, sarebbe un buon inizio».