C’è un allenatore italiano che sta riscrivendo la geografia del calcio

by Alessandro Lunari

Nell’ultima sosta per le Nazionali c’è un Paese che ha scritto una nuova pagina di storia del calcio. No, non in Europa. Bisogna spostarsi nel bel mezzo dell’Oceano Indiano. Tre piccole isole e una popolazione di appena 800mila abitanti: quelle sono le Isole Comore.

La loro Nazionale si è appena qualificata per la seconda volta nella storia alla Coppa d’Africa vincendo il proprio girone, davanti alla Tunisia di Rafia del Lecce, al Gambia di Barrow e al Madagascar. C’è spazio anche per un po’ di orgoglio italiano: alla guida delle Comore, infatti, c’è Stefano Cusin. L’allenatore che sta riscrivendo la geografia del calcio. E sì, ha allenato anche Luca Toni. Ma ci arriveremo.

 

«Ho girato Germania, Francia, Portogallo per convincere i miei giocatori»

Stefano siede sulla panchina delle Isole Comore dall’ottobre 2023. C’era praticamente una Nazionale da costruire. Letteralmente: «Dopo la firma del contratto, al primo raduno in Francia ad ottobre non si è presentato nessuno. C’è stato uno sciopero dei calciatori. Un inizio tremendo. Di lì a breve avremmo avuto una gara ufficiale contro Capo Verde e così in 48 ore abbiamo chiamato dei ragazzini sparsi per la Francia di nazionalità comoriana, altrimenti saremmo stati penalizzati».

Da lì, però, le cose iniziano ad andare per il verso giusto: «Loro venivano da una mancata qualificazione in Coppa d’Africa. C’era sfiducia, ma contro Capo Verde siamo riusciti a vincere. Così ho chiamato i giocatori più esperti: ‘Abbiamo bisogno di tutti. Le qualificazioni per il Mondiale iniziano a novembre’. La Federazione non era molto propensa a questo giro di telefonate perché tutti c’erano rimasti male. Le cose, però, sono cambiate. Abbiamo subito vinto le prime due gare contro la Repubblica Centrafricana e il Ghana e piano piano ho cercato di migliorare la squadra inserendo calciatori nuovi».

Allenatore e talent scout. Cusin ha iniziato una vera e propria opera di convincimento: «Sono andato in Germania per convincere Maolida, che era all’Hertha Berlino. Poi in Portogallo per Youssouf, ex St. Étienne e ora al Famalicão. Molti dei nostri calciatori hanno doppio passaporto, ma non erano mai venuti in Nazionale perché temevano la scarsa organizzazione e gli impegni in Coppa d’Africa. Fin dal primo giorno, però, ho detto: ‘Pensiamo da grande squadra. Ancora non lo siamo, ma la mentalità deve essere questa. Il Senegal che gioca in casa col Ghana di cosa si preoccupa? Di nulla, solo di vincere. Noi dobbiamo fare lo stesso». Detto, fatto. Il pass per la prossima Coppa d’Africa c’è già.

Per arrivare a selezionare il gruppo più forte da convocare, Stefano è stato aiutato da tutti i comoriani. E no, non è uno scherzo: «Le Isole Comore sono un Paese piccolo, di meno di un milione di abitanti. Fra di loro si conoscono tutti. Quando ho preso la squadra, i dirigenti e i tifosi mi hanno fatto delle vere e proprie liste con tutti i nomi dei calciatori da prendere. C’era chi mi scriveva perfino su Instagram: ‘Ti prego mister, devi prendere questo. Convincilo’. Veniva fuori un 11 pazzesco. Sono riuscito a prenderne 7 per ora. Il prossimo? Said del Lens. Andrò a trovarlo a breve. Prima le grandi Nazionali, come Nigeria, Camerun e Senegal, erano le uniche con calciatori in Europa: ora è diverso. È cambiato tutto. Se avessimo giocato con solo i giocatori nati e cresciuti nelle Comore, non saremmo arrivati in Coppa d’Africa. Invece ora sì».

 

Il personale giro del mondo di Cusin: dal Canada alla Palestina fino ad arrivare alle Comore

La storia di Stefano Cusin parte dal Canada. Nasce a Montréal da genitori italiani e trascorre la sua infanzia in Francia, prima di rientrare nel nostro Paese: «Molto spesso in casa si parlava italiano. Tutte le estati venivamo in Italia per tre mesi. Ho sempre tenuto vivo questo filo diretto con la Francia: da lì ho preso il fairplay per lo sport, la tecnica, la formazione. Sono cresciuto nelle case popolari in mezzo a italiani, spagnoli, marocchini, tunisini. Questa multietnicità mi ha permesso di capire che non ci sono differenze fra gli uomini. Sono cresciuto nella solidarietà e nello scambio: è stato decisivo per avere una visione del mondo diversa. Dall’Italia, invece, ho preso il rigore tattico, la passione per il lavoro. In fatto di calcio siamo ancora avanti».

I primi incarichi di Stefano arrivano proprio in Italia fra Montevarchi e Arezzo: «Ho iniziato ad allenare nelle categorie giovanili, ho fatto tutta la trafila. Poi mi sono reso conto che non sarei mai riuscito a compiere lo step decisivo: allenare una Primavera di una squadra di Serie A. Tutti quei ruoli venivano dati ad ex calciatori, così sono andato all’estero. L’Italia rimane casa mia: ho la famiglia e gli stessi amici da 35 anni. Purtroppo, però, ci sono molti preconcetti: se uno finora non ha allenato qui o non è arrivato a giocare in Serie A, si pensa non sia in grado. Poi Farioli va all’Ajax, De Zerbi in Francia, Rossi porta l’Ungheria agli Europei. Sono prove. Qualche anno fa mi dispiaceva non avere un’opportunità, mentre ora senza rimpianti posso dire di essere felice di vedere un mondo fuori, tutto da vivere e conoscere».

Il viaggio di Stefano inizia dal Camerun. È il 2003 e l’opportunità nasce a caso grazie ad un amico: «Un giorno mi fa: ‘Dobbiamo trovare un collegamento con l’Africa per il Torneo di Viareggio’. Entriamo in contatto con un agente camerunense, fratello del vicepresidente della loro Federazione. Mi invitano a fare una selezione dei loro giovani. È stato un successo: la squadra che ho scelto ha vinto la Coppa d’Africa U17 ed è poi andata al Mondiale. Da quel momento, mi hanno proposto di iniziare come tecnico dell’U20. Io allenavo in Italia, ero un imprenditore nel settore della ristorazione, ma dovevo cogliere quell’opportunità. Mi dicevo: ‘Ho 35 anni, o ora o mai più. Sarò sempre in tempo per riaprire la mia attività, questo è un treno da prendere’».

Stefano parte, nonostante la famiglia e un bambino piccolo: «Ricordo che c’era il mio povero suocero che mi diceva: ‘Ma tu sei sicuro? Hai un figlio. Tutti gli africani vengono in Italia a lavorare, come fai tu ad andare lì e a guadagnare?’. Ma io ero fermo, sentivo fosse la mia strada». Da quel momento inizia davvero il giro del mondo di Cusin. Il Camerun è solo il primo di 15 diversi Paesi.

 

«Vi racconto come sono diventato il vice di Zenga. Tutto grazie a un’amichevole»

Stefano rimane in Africa fino al 2008. Dal Camerun passa anche alla Repubblica del Congo. Poi torna in Europa, al Botev Plovdiv, squadra ai tempi della Serie A bulgara: «Mi sono accorto da subito che fosse una sfida difficile. Durante la preparazione in Italia, un giorno, mi chiama il Presidente: ‘Ho parlato con i giocatori, sono molto contenti di te’. E io: ‘No, aspetti. Ma come? Lei deve chiamare me per sapere se io sono contento di loro’. Già da lì dovevo capire. Il Presidente era innamorato di alcuni calciatori. Quando non li schieravo, mi chiamava: ‘Ti prego, dai loro un’opportunità’». E le difficoltà non erano solo in campo: «La cosa più complicata era la parte economica: dopo 4 mesi, avevo preso solo lo stipendio di una mensilità. Non potevo continuare».

Col tempo, il Botev Plovdiv ha avuto diversi problemi tanto da fallire e scomparire. Nella sua breve avventura, però, alla guida dei bulgari, Stefano fa un incontro che gli cambia la carriera. In un’amichevole estiva del 2008 sfida il Catania di Walter Zenga: «Lo conoscevo solo di nome, non personalmente. Uno degli organizzatori del match fu profetico, mi disse: ‘Guarda che Walter non ha il secondo. Per me, uno come te può piacergli parecchio. Chissà che da un incontro casuale non possa nascere un’opportunità?’. Io mi misi a ridere: ‘Con tutti i giocatori che conosce in A, viene a cercare me? Che senso avrebbe?!’. Poi abbiamo giocato quest’amichevole. A fine match, ci salutiamo ed iniziamo a parlare di calci piazzati, possessi, tutte robe di campo. A un certo punto, arriva il team manager del Catania: ‘Walter, da quanti anni conosci Cusin?’. E lui: ‘Da oggi, in realtà’. E ancora: ‘No perché state parlando come due vecchi amici che si conoscono da sempre’. Ci guardiamo attorno, non c’era più nessuno. Erano andati via i tifosi e anche i calciatori. Così lui mi lascia il numero, ma lì per lì non succede niente».

Dopo l’avventura in Bulgaria, infatti, Cusin va all’Al-Ittihad Tripoli, in Libia. La società appartiene a uno dei figli di Gheddafi. Vince subito il campionato. Lì arriva la chiamata di Zenga per congratularsi: «La Gazzetta dello Sport aveva fatto un articolo sul mio trionfo. Walter così è stato uno dei primi a farsi sentire: ‘Bravo, grande! Hai fatto una roba pazzesca». Dopo l’esonero dal Palermo, Zenga riceve un’offerta dall’Al-Nassr. Il primo che cerca è Cusin: «Mi ha chiamato dicendomi: ‘Stefano, a me serve un vero allenatore accanto, non un vice. Tu hai appena vinto con gli arabi, mi serbe una persona che conosca la loro cultura e il loro carattere. Mi piacerebbe averti con me’. E io: ‘Certo, non riesco manco a credere che tu possa proporre a me questa cosa. Non sono nessuno. Conosci almeno 20mila persone che potrebbero farlo al posto mio. Ma lui, fermo: ‘A me non serve un amico che mi faccia compagnia la sera, ma un allenatore che conosca l’estero e non abbia paura di niente. Tu sei la persona giusta’».

Da lì, è nata un’amicizia e una collaborazione lunga 7 anni fra Arabia ed Emirati Arabi Uniti: «Di tutti i Paesi del Golfo, l’Arabia era quello che aveva già le basi per il calcio, a differenza di Qatar, Bahrain e gli altri. Ci sono milioni di abitanti, senza bar o discoteche. E loro sono dei grandi atleti: c’è una buona base di calciatori. E il tifo è sentitissimo: a volte alle 2-3 di notte, ci aspettavano in aeroporto 2-3mila tifosi. Quando giocavi in casa, 30mila persone c’erano quasi sempre. Così come i soldi: già ai tempi i calciatori venivano pagati 2-3 milioni. Ora hanno aggiunto grandissimi mezzi per portare i vari Ronaldo, Neymar, o allenatori e dirigenti di livello, come Teti. Hanno capito qual è la chiave. Però da lì ad arrivare a competere con l’Europa, ce ne vuole. Quando sento dire che dovrebbero giocare la nostra Champions League, penso: ‘Poverini, meglio di no’».

Con Zenga, Cusin arriva anche in Inghilterra, nella breve parentesi al Wolverhampton nel 2016/17: «Quello è il rimpianto più grande. Ma bisogna essere realisti: a giugno era cambiata la proprietà. La preparazione estiva era stata fatta con lo stesso allenatore e poi sono iniziati ad arrivare tanti giocatori nuovi. A 5 giorni dall’inizio della Championship, decidono di cambiare mister e chiamano Zenga. Io nel frattempo avevo appena messo piede in Corsica per una vacanza con la mia famiglia. Mi chiama Walter: ‘Guarda io sono già qui, domani sera fatti trovare a Birmingham. Ci sarà una macchina che ti porterà a firmare il contratto’. Lunedì primo allenamento, sabato prima partita».

Un inizio positivo, ma poi il crollo: «In Championship giochi ogni tre giorni. Se la squadra non è stata allestita bene, fisicamente non riesci a recuperare. Idem nelle soste nazionali dove vanno via in 15. Siamo partiti bene, c’era grande voglia di rivalsa. Poi abbiamo inserito i nuovi arrivi: c’era chi era fuori condizione, chi non era al livello degli altri. Non siamo riusciti a trovare i risultati. Eravamo al posto giusto al momento sbagliato: c’erano gli elementi per far bene, la proprietà era seria e l’anno successivo ha investito tanto per vincere il campionato. Sono state sbagliate le tempistiche». Rammarico.

 

Le altre tappe del viaggio: l’apartheid in Sudafrica, l’ospitalità della Palestina, l’Iran e il Sudan del Sud

Dopo l’avventura al Wolverhampton, Cusin vola in Sudafrica per allenare i Black Leopards: «Non mi sono trovato per niente bene: credo sia l’unica esperienza negativa. Il Paese non ha ancora superato l’apartheid. Io abitavo in una cittadina che ancora soffre le differenze sociali. Ho avuto difficoltà con il clima, ma soprattutto con la società e il campionato. Avevo un contratto di tre anni, ma dopo pochi mesi sono andato via».

Cusin lascia l’incarico e torna in Europa, a Cipro. Per un anno allena l’Ermīs Aradippou. Una stagione dopo, nel 2019, è all’Ahli Al-Khalil, a Hebron in Palestina. C’era già stato fra il 2014 e il 2015: «L’occasione di andare in Palestina è nata per caso. A dicembre, in realtà, Zenga mi aveva mandato a vedere Parma-Cagliari, perché saremmo dovuti entrare in corsa con i sardi. Ero preparato per questo, ma Walter non trovò l’accordo: ‘A questo punto, piuttosto che trovare squadra a gennaio, ripartiamo da giugno’. Lì l’ho fermato: ‘Io voglio allenare, fare esperienza e viaggiare. Se ho un’offerta, ti dispiace se vado?’. E lui: ‘No, anzi’. E a inizio gennaio mi arriva la chiamata dalla Palestina».

Ai tempi, come purtroppo ancora oggi, quella zona del nostro pianeta era già ricca di tensioni: «Quando ho detto alla mia famiglia che sarei andato in Palestina, non l’hanno presa bene. Avevano paura. Mi aveva convinto il Presidente dell’Ahli Al-Khalil: mi ha raccontato la loro storia, come club e come popolo. Inserimmo una clausola: se non mi fossi trovato bene, avrei potuto lasciare. Però come spesso accade nella vita, le situazioni un po’ precluse poi si rilevano le migliori. Ho trovato un ambiente che a livello umano era incredibile: quando andavamo in trasferta, i tifosi di casa intonavano cori verso me e il mio staff per ringraziarci. Non ho mai ritrovato un senso di ospitalità del genere in vita mia. È stata un’esperienza umana e sportiva straordinaria: presi la squadra terzultima in Serie A e al 2° anno vincemmo tutto».

Dopo la Palestina, Cusin accetta lo Shahr Khodro, squadra della Serie A iraniana: «Quando sono arrivato in Iran, il Paese era sull’orlo della guerra. In aeroporto sono stato fermato dalla polizia: per due giorni sono rimasto chiuso in una stanza in attesa della verifica dei miei documenti. Credevano fossi una spia». Surreale. Prima del COVID, Stefano riesce a dare la propria impronta: «Siamo riusciti a qualificarci alla fase a gironi della Champions League asiatica. Tutta la fase precedente l’avevamo giocata in trasferta perché l’AFC aveva bannato il nostro campo. Purtroppo con la pandemia, la società è fallita e a fine stagione sono rientrato».

Rientrato, si fa per dire. Nel corso degli anni, Cusin è sempre tornato a casa sua, in Toscana, per stare con la propria famiglia. A volte lo hanno seguito, altre no. Come quando nel 2021 ha deciso di accettare l’incarico di allenatore della Nazionale del Sudan del Sud, fino a poco tempo prima in mezzo a una vera e propria guerra civile: «I Paesi poveri, con tanti problemi, riversano tutte le loro speranze nello sport. Quando lì vincevi una partita era un evento straordinario. Quel Paese non aveva niente: per giocare a calcio c’era solo un campetto senza tribune in erba sintetica. Lo stadio era in costruzione. Immaginate: un Paese grande due volte l’Italia, con 11 Stati dentro e 11 campionati diversi. Non potevi neanche andare a vedere le partite liberamente perché in alcune zone c’era la guerra. È stata un’esperienza complicata, ma formativa. Mi appassionava andare in giro a cercare calciatori, provarli, creare una squadra da zero: abbiamo vinto il 40% delle partite. È un dato rilevante, considerando che fino a poco tempo prima, non esisteva nemmeno una Nazionale».

 

«Il sogno? Giocare un Mondiale con una Nazionale africana. Con le Comore? Mai dire mai»

Il giro del mondo di Cusin per il momento si è fermato alla tappa Isole Comore. A gennaio giocherà la Coppa d’Africa, una competizione che negli anni ha sempre raccolto pochi consensi: «L’Africa è ricca di top player. Fino a pochi anni fa, la classifica dei migliori bomber della Premier League era piena di africani: ce n’erano 4 fra i primi 5. L’unico problema è che questo torneo si gioca a gennaio-febbraio. Ovviamente per le condizioni meteo: a giugno sarebbe impossibile perché nell’Africa Sub-Sahariana pioverebbe sempre. Capisco che le società europee non abbiano piacere perché per loro capita nel pieno della stagione, con match importanti e senza alcuni top player. Però credo che dopo la Coppa del Mondo e l’Europeo, la Coppa d’Africa sia il 3° torneo calcistico più seguito al mondo. È una grande competizione: ero presente a quella in Costa d’Avorio ed è stata uno spettacolo. Alto livello, stadi stupendi, organizzazione perfetta. E poi la gente è fenomenale: se il proprio attaccante sbaglia a porta vuota, loro ridono. Da noi si imprecherebbe».

Cusin sta riscrivendo la geografia del calcio. E nel suo ‘piccolo’ anche la storia di quello africano: «Sento di aiutarlo. Allenatori a cui ho fatto corsi anni fa ancora mi chiedono confronti ed esercitazioni. Giocatori che ho allenato, sono diventati dei professionisti e mi ringraziano ancora. Quella è la parte più gratificante. Quando uno come Youssouf, che gioca ne la Liga Portugal, dopo due partite mi dice: ‘Ho imparato più in 10 giorni con lei che nell’ultimo anno di campionato’, questo per me vale tutto. All’estero ti senti importante, sai di poter cambiare la vita delle persone. In Italia non sono sicuro che avrei questa sensazione».

Il suo presente si chiama Isole Comore. Un primo obiettivo l’ha già raggiunto, ora testa al prossimo: «Quando sono arrivato, dovevo ricostruire una Nazionale. Poi ho dato l’input: ‘Dobbiamo andare a giocare la Coppa d’Africa’. Ricostruzione non è sinonimo di risultati, ma noi ci siamo riusciti alla grande. Alla base di tutto ci sono sempre stati empatia e rapporto umano: senza quelli, non ci sono risultati. Se tu non hai rapporto con Presidente, ds, calciatori o collaboratori non riesci a raggiungere nulla. Il Mondiale? Da quando alleno, è sempre stato il mio sogno. Ho visto tanti allenatori stranieri alla guida della Nigeria o del Camerun ai Mondiali: era una cosa fantastica. Non so se con le Comore ci riusciremo: le prossime gare contro il Mali, la più forte del girone, saranno decisive. Ma sono sicuro che prima o poi lo realizzerò. Farlo con un Paesino di tre isolette sparse nell’Oceano Indiano, di 800mila abitanti, sarebbe un miracolo sportivo: credo possa essere una delle favole più belle mai scritte nello sport. E visto che il calcio è uno sport per sognatori… sogniamo».

Sentito? Obiettivo Mondiale. Quella Coppa vinta nel 2006 dal giocatore più talentuoso allenato in carriera da Cusin, Luca Toni. Erano i tempi dell’Al-Nasr: «Nonostante non fosse più giovanissimo, aveva un entusiasmo e una voglia pazzeschi. Giocavo sempre in coppia con lui a calcio-tennis, ma perdevamo. Lui se la prendeva con me, ma sbagliava tutto. Gli dicevo: ‘Ma come hai fatto a vincere il Mondiale?’. Ridevamo come matti. Aveva una mentalità incredibile: non a caso è tornato poi in Italia e col Verona è stato capocannoniere». Impressionante. Come il giro del mondo di Stefano, che ha ancora tappe da fare: «Vorrei allenare una squadra in A in Brasile o la Nazionale del Canada. O magari una big africana. Ho tantissimi progetti perché conosco il mondo, non mi spaventa niente». Chapeau.