Francesco Farioli, allenatore del Nizza, ha rilasciato un’intervista esclusiva a Cronache di spogliatoio.
Undici anni fa, nella sua tesi, aveva teorizzato l’importanza dell’estetica calcistica e del cambiamento nel ruolo del portiere. Undici anni dopo, possiamo dire che ci aveva visto giusto.
«Dal mio punto di vista era qualcosa che necessitava di alcune riflessioni, nel mio percorso di studi e in quello che stavo iniziando a fare. Il mio percorso da allenatore parte da lì ed è cresciuto negli ultimi anni di università. Quando si inizia a pensare, riflettere e scavare dentro angoli bui vengono fuori delle domande interessanti, a volte anche delle risposte. L’aspetto estetico è fondamentale, perché il calcio è un po’ un aspetto dicotomico della realtà: da un lato ha un forte senso estetico, dall’altro richiede un sacrificio importante in tutto ciò che si fa. Sembrano aspetti distanti, ma dalla commistione poi viene fuori il piacere di giocare».
Il suo percorso è iniziato dai dilettanti. Me lo racconta?
«Fino a 21 anni ho giocato. Dai 19 ai 21 ho provato a combinare la vita con quella da giocatore dilettante, a quel tempo facevo 1° e 2° categoria. Mi davo da fare e mi piaceva ma ero abbastanza lontano da pensarla come una professione. Se credevo di diventare calciatore? In realtà sì, vivevo in una sana illusione. Poi un allenatore ha avuto la forza di svegliarmi, ascoltare la dura verità è doloroso ma poi ti riporta sulla realtà e sui valori. Iniziare a lavorare nel settore giovanile è stato un compromesso per potermi mantenere e studiare, rimanendo nel calcio. Poi ho avuto a 21 anni la prima opportunità in una squadra di Eccellenza. E questo primo passaggio è stato importante, mi ha messo davanti a un bivio, quello di mollare il calcio giocato. Vivevo appunto in un’illusione, col piacere di giocare, ma da lì ho iniziato il percorso che mi ha portato qui. È stato abbastanza veloce: un anno in Eccellenza, due in Serie D. La prima esperienza da professionista alla Lucchese a 24-25 anni, poi sono arrivate le esperienze all’estero in Qatar, poi lo staff di De Zerbi a Benevento e Sassuolo. E poi l’esperienza in Turchia col cambio di ruolo e adesso qua al Nizza».
Già in Eccellenza lei puntava molto sui portieri. Li allenava in modo rivoluzionario nonostante la categoria, e aveva soltanto 21 anni.
«Erano i primi anni in cui si iniziava a pensare e discutere di questa possibilità. Una delle caratteristiche che penso di avere è la curiosità, in modo davvero molto accentuato. In un ambiente come quello di Eccellenza c’è tanto da fare, a quel tempo nello staff c’erano l’allenatore, un preparatore atletico, un aiuto preparatore atletico e poi io come preparatore dei portieri. Ma davo una mano anche come analisi video, un po’ collaboratore eccetera. All’inizio ho iniziato a studiare il gioco, sapevo semplicemente aprire il pc, tagliare i dvd che ci davano il giovedì dopo la partita. Si parla di 10 anni fa. Era una qualità che avevo, ma volevo dare anche un ordine e un senso a quello che si faceva. Da semplice lavoro di taglio è quindi diventato uno studio per dare al mister un supporto con una qualità maggiore. Fai oggi, fai domani e poi se uno ha voglia di migliorarsi, specialmente a quel tempo in cui di opportunità ce n’erano tante… secondo me la curiosità e la voglia di darsi da fare sono due caratteristiche fondamentali. Penso siano state il tratto distintivo del mio percorso. Non mi reputo particolarmente talentuoso, ma un lavoratore, questo sì».
Dopo i dilettanti e la Lucchese, parte per il Qatar per lavorare nell’Aspire Academy, accademia finalizzata a formare una Nazionale qatariota di valore per il Mondiale in casa del 2022.
«Quando è arrivata questa proposta il mio percorso mi sembrava buono, avevo fatto Eccellenza, Serie D, Serie C nel giro di 4 anni e il pensiero di fare uno scalino ancora in avanti, come ad esempio in B, lo potevo annusare. Ma ho fatto questi colloqui che mi hanno portato a questa opportunità, e una volta capito il livello delle persone che si avevano davanti l’ho vista come un’opportunità enorme. Perché alla fine in qualsiasi cosa non conta arrivare, ma essere pronti. La mia sensazione era che potessi arrivare a fare lo scalino in Serie B, possibilmente anche uno più sopra, ma in realtà fino a quel momento ero autodidatta o poco più. Con tanto interesse, tanto studio ma tutto era processato dalla mia testa, dalle mie esperienze precedenti. Lì invece ho percepito che ci potesse essere un ambiente in cui imparare, c’erano una metodologia già in essere e una struttura. È stata un’esperienza clamorosa, perché mi ha anche obbligato a imparare l’inglese e a utilizzarlo nel day by day, e negli anni seguenti è stato un regalo enorme che la vita mi ha fatto. Inoltre ho incrociato orizzonti, modi di pensare, influenze che chiaramente quando si è nel proprio mondo conosciuto non si possono ricevere. Quindi davanti a questa proposta la mia riflessione è stata: ‘Ok, magari ci metterò un pochino di più, o magari potrei allontanarmi da un percorso più veloce’. Ma in assoluto la cosa che mi ha formato di più è l’ordine. Se dovessi presentare questa esperienza con un’immagine o una metafora, è come se quell’esperienza mi avesse formato una libreria in testa. Tutte le idee, le proposte, le cose che mi muovevano hanno trovato un loro posto, uno scaffale in cui andare. Poi chiaramente c’era uno spazio in cui rimescolare queste cose».
Il ritorno in Italia combacia con la chiamata di Roberto De Zerbi nel suo staff a Benevento prima e a Sassuolo poi, come allenatore dei portieri. Tutto grazie a un tuo articolo sul Foggia di De Zerbi, scritto anni prima quando eri alla Lucchese e lo avevi affrontato in Coppa Italia di Serie C.
«Nella mia routine settimanale avevo anche un articolo per il blog di WyScout. Ne facevo uno a settimana. Arrivò il messaggio dal prof, il preparatore atletico di De Zerbi, che diceva: ‘Guarda il mister ti fa i complimenti, abbiamo letto il tuo pezzo’. Da quel momento ogni tanto ci siamo sentiti, però non c’era grandissima continuità di rapporto. C’era lavoro sia per noi sia per loro, quindi era complicato. Passa un po’ di tempo, ci siamo conosciuti una volta a Coverciano per un caffè, io stavo facendo il corso. Ci vediamo per un caffè e parliamo per 40-50 minuti. A distanza di 7-8 mesi da quell’incontro, ricordo bene che lui, se non sbaglio, aveva firmato 4-5 giorni prima a Benevento. Stavo facendo colazione, suona il telefono e vedo ‘Mister Roberto De Zerbi’. Mentre suonava, dico la verità, non sapevo per cosa fosse ma un po’ ci speravo. E nel mentre che rispondevo ho iniziato a mettere calzini, mutande e magliette nella valigia, preparando e sperando che fosse per quello. La chiamata fu poi realmente così, era la prima volta in cui poteva portarsi tutte le figure di un suo staff. Mi disse: ‘Mi farebbe piacere se tu potessi far parte del mio gruppo di lavoro’. Da parte mia dissi che sarebbe stato assolutamente un sogno, che lo avrei fatto molto volentieri».
Per visione, il vostro è stato un matrimonio perfetto.
«Soprattutto quando si crea un gruppo di lavoro come uno staff, la sintonia rispetto alle idee e a quello che piace è alla base. La mia tesi con cui ho fatto il corso UEFA Pro si intitola ‘il calcio è una questione di gusto’, perché alla fine si vince in tutti i modi e si perde in tutti i modi. Non esiste un calcio più vincente di un altro, esistono semplicemente una proposta e un modo di giocare che ci piacciono, mentre altri sono più lontani dalle nostre modalità. Se io e Roberto ci siamo incontrati è perché il calcio che lui proponeva era un calcio in cui mi rispecchiavo, che mi piaceva. Ed evidentemente lui ha percepito allo stesso modo che potessi essere un suo collaboratore e che potessi portare e aggiungere qualcosa a un’idea che ho sposato e apprezzato tantissimo».
Lei è un allenatore che punta sul rapporto con i calciatori, è una delle sue peculiarità.
«L’obiettivo con ogni giocatore è instaurare un rapporto sano e diretto, soprattutto in riferimento al modo in cui mi piace rapportarmi con i giocatori. Vi faccio un esempio: in una stagione anche il conflitto è parte del percorso. Una parte ineliminabile, in certi momenti anche fondamentale. Con Alberto Brignoli a Benevento l’inizio non è stato dei migliori, ci abbiamo messo un paio di mesi per capirci e apprezzarci. Oggi ci sentiamo ancora. Mi piace creare dei rapporti in campo, non è soltanto mettere la palla in porta o evitare un gol, ma credere in quello in cui si fa. Condividere un lavoro, un’idea. Il nostro compito da allenatore è proprio questo, mettere un seme dentro il terreno dei nostri giocatori così che possa fiorire in autonomia. Perché servono giocatori autonomi, capaci di svilupparsi dentro un’idea e un percorso».
C’è anche il suo zampino dietro allo storico gol di Brignoli contro il Milan, dicono.
«Questa storia è un po’ romanzata. Una delle prime settimane di lavoro facevamo un esercizio, serviva per la proposta di De Zerbi, il portiere doveva coprire degli spazi un po’ diversi dal solito. C’erano tanti metri alle spalle della linea difensiva, quindi c’erano da fare interventi di piede ma anche di testa fuori area. Facevamo un’esercitazione mirata al colpo di testa chiaramente in difesa e copertura dello spazio, ma nella progressione di questo lavoro ci si esercitava anche tuffandosi e facendo gol nella porta avversaria. E questa cosa aveva creato non solo curiosità, ma un po’ di frizione, perché Alberto non ci vedeva un transfer nella partita. Passano due settimane, coincidenza assoluta, lui fa gol e c’è un’immagine in cui ci strattoniamo con felicità e gli dico ‘Ti ricordi 2 settimane fa, mi dicevi ‘Non serve, non serve, non serve’. Chiaramente non ci eravamo allenati per fare gol, però è per dire come alcuni rapporti vadano via lisci, mentre altri partono con un po’ di conflitto. Le proposte sembravano un po’ oltre quello che voleva Alberto, poi in realtà erano di supporto per quello che avrebbe fatto e si sarebbe trovato durante la partita. Le proposte di mister De Zerbi erano un po’ oltre gli standard comuni. Il modo in cui giocano le sue squadre è l’immagine di quello che lui è come allenatore e come persona. È veramente bravo a trasferire il suo modo di essere nelle sue squadre, sono specchio del suo carattere. Questa è la sua vera forza. E questa è una delle ambizioni che tutti gli allenatori hanno, di riuscire a far sì che la squadra sia il riflesso di quello in cui si crede e di quello che siamo».
Analizzando il vostro modo di giocare, voi siete più verticali del Brighton.
«In realtà il fatto di essere orizzontali o verticali non dipende da noi, ma da come decidono di affrontarci le nostre avversarie. Questa è la parte controintuitiva della nostra proposta con la palla: si pensa che sia la squadra che è in possesso che decide come giocare, ma in realtà no. Bisogna essere aperti a tutti gli scenari e poi è la squadra di fronte che determina la modalità più efficace per attaccare. Il fatto di essere oggi più verticali è perché in questo campionato magari abbiamo situazioni in cui si creano più spazi verticali da attaccare. Abbiamo un modo un po’ diverso di difendere. Noi fin dall’inizio siamo stati una squadra che ha improntato tantissimo il gioco nella riconquista alta, e anche il Brighton soprattutto negli ultimi due anni ne ha fatto un marchio di fabbrica. Però cambia un po’ il modo in cui ci difendiamo nel blocco basso, perché lì ci sono delle interpretazioni in base al gusto e alle caratteristiche dei giocatori che abbiamo. Lì vedo maggiori differenze rispetto ad altre fasi di gioco».
Come il suo centrocampista centrale che va a coprire lo spazio tra i due difensori centrali?
«Sì, è una delle cose che facciamo, ci dà una buona solidità o comunque una buona copertura del campo quando difendiamo un po’ più bassi. Questa scelta deriva dal fatto che è una fase di gioco, quella di attesa e di blocco basso, che alleniamo poco in termini di volume di lavoro durante la settimana. Ci serve ad avere più densità e riuscire a essere ancora più aggressivi con i terzini, uscendo ancora più forti. Portando questo giocatore dentro, si occupa il campo in maniera diversa e questo consente di mantenere un’aggressività senza la palla anche quando si è più bassi, ci sono scalate un pochino più facili, che richiedono meno tempo. È una scelta pratica, perché il 70-80% della nostra settimana è basato su cosa vogliamo fare con la palla. E tanto della nostra fase difensiva avviene anche col pallone, quindi la preparazione delle marcature preventive, le reazioni a palla persa. Nel restante 25-30% c’è ovviamente la fase di pressione, che è un’altra cosa che ci contraddistingue, siamo una squadra che recupera tanti palloni nella metà campo avversaria e vogliamo riconquistarla velocemente. Poi ci sono fasi nelle quali non si può recuperare o l’avversaria è brava a spostarti qualche metro più basso. Per quanto non mi piaccia che la squadra rimanga in questa fase per troppo tempo, a volte ci sono momenti in cui si è costretti e bisogna saperlo fare».
Cosa deve fare una squadra completa dal suo punto di vista?
«Dev’essere una squadra che fa tutte le fasi in modalità diversa e sa essere ben amalgamata dentro queste fasi. Settimana scorsa, per fare un esempio, avevamo qui a Nizza come ospiti gli allenatori del corso UEFA Pro della FIGC. In una slide che ho utilizzato per raccontare questa cosa ho utilizzato l’immagine del cruciverba, e quindi ho messo le fasi di gioco incastrate così. Quando tu cambi una lettera, e quindi una fase di gioco, l’impatto che questo cambio porta su tutto il resto è incredibile. Quindi la prima difficoltà e il primo compito dell’allenatore è far sì che queste fasi siano il più amalgamate possibile tra di loro. E nel momento in cui vai a cambiare qualcosa serve avere una capacità di far cambiare anche tutte le altre fasi in maniera omogenea».
Ha allenato e studiato in Qatar, da primo allenatore è stato per due volte in Turchia e ora a Nizza. Ha avuto influenze internazionali di ogni tipo. Quanto si sente un allenatore italiano in percentuale?
«Ho sempre avuto un po’ di DNA italiano, perché comunque rimane. Dipende cosa si intende. Se si parla di essere meticolosi e attenti al dettaglio, direi totalmente. Se si parla di essere speculatori, 0%. Le squadre che mi hanno più affascinato sono il Barcellona di Guardiola e il Milan di Sacchi, sono state squadre epocali che hanno cambiato il calcio, così come l’Ajax di Cruijff. Ma per me diventa difficile non ricordare anche l’Inter di Mourinho e in certi momenti la Juventus di Allegri: chiaramente una squadra deve essere capace di mettere insieme più identità possibili, essere camaleontica perché tutte le circostanze che si presentano durante la gara sono mille. Si deve essere in grado di saper fare tutto in ogni momento e avere un’identità forte, ma questa identità dev’essere fatta da più identità per me».
Durante questa stagione è stato chiamato a un grande banco di prova. Un suo giocatore, Beka Beka, ha tentato il suicidio. Come ha gestito questo caso con la squadra e con il calciatore?
«È un argomento molto delicato, lo è tuttora e lo sarà sempre. È una situazione al limite, dove non c’è scuola o corso che ti prepari a vivere una notizia del genere. Fortunatamente a distanza di tempo ne parliamo sapendo che è andato tutto bene, con la consapevolezza che il ragazzo sta superando questo momento di difficoltà. È stato uno choc grosso per tutti, staff, giocatori, un po’ per tutto il mondo del calcio. Il fatto di avere persone che abbiano competenze specifiche in questo ambito aiuta notevolmente. Sophie, la nostra psicologa, ha fatto nei giorni dell’evento un lavoro sopra l’ordinario».
È felice di avere una psicologa in organico.
«Ho avuto la fortuna di fare la prima esperienza con una psicologa presente 24 ore su 24 nell’esperienza in Qatar, ed è stato qualcosa di molto utile per giocatori e staff. Ci sono delle letture che possono essere agevolate dalla presenza di una figura che supervisiona i processi, perché è questo che lo psicologo fa. Per quella che è stata l’immagine che si è sempre fatta, sembra uno strizzacervelli o una spia, ma c’è un segreto professionale. Le notizie e le informazioni che arrivano a noi non sono filtrate… ma super filtrate, arriva uno 0,01% messo in un modo non riconducibile ad altri eventi. Il ruolo dell’allenatore sempre di più sarà proprio questo: far fluire diverse competenze e diverse figure professionali, un facilitatore di processi. Lo è oggi e lo sarà sempre di più in futuro».
Secondo lei quindi, qual è una figura che manca in uno staff al giorno d’oggi. Quella che se potesse, prenderebbe domani.
«Una figura di cui sarei curioso, per supervisionare i processi, forse è lo psicologo dello staff. Ma non saprei racchiuderlo in una figura precisa, semplicemente una persona che abbia la forza e l’opportunità di stare dentro il percorso ma di vederlo distaccato di qualche metro. Una sorta di consigliere».
Con lei a Nizza c’è anche Khéphren Thuram, fratello di Marcus. Che giocatore è?
«È uno di quei giocatori dal potenziale enorme. Se parliamo di responsabilità e volontà di farlo progredire, è uno dei giocatori di cui ci sentiamo più responsabili per farlo crescere. Credo abbia un potenziale veramente enorme per il Nizza e la nazionale francese. È unico».
Ciò che piace di lei, parlando con alcuni direttori sportivi, è il modo con cui sta in panchina e vive le partite.
«La partita la vivo perché ogni domenica finisco senza voce, così come gli allenamenti. Se uno vuole vedere una squadra attiva, aggressiva, c’è bisogno di accompagnarla con voce e atteggiamento corporeo o body language che trasmetta vivacità. Questo al 100%. Una delle fasi di gioco su cui ribattiamo è la reazione a palla persa, cioè su cosa deve scattare nel giocatore quando perdiamo la palla. Se davanti alla perdita di palla la prima reazione è la frustrazione, quel gap che si crea tra perdita della palla, elaborazione del pensiero negativo e reazione… buonanotte ai suonatori, sono già andati dall’altra parte del campo. Invece quello che cerchiamo di fare è far sì che nel momento in cui si perde la palla, addirittura se possibile anticipando il momento della perdita con un pensiero, il giocatore sia capace di attivarsi immediatamente per riportare la possibilità del possesso».
Quello che è mancato al suo Nizza, guardando gli xG, forse è po’ di cinisco dovuto alla finalizzazione dei singoli.
«Ci sono momenti e situazioni. Quando una squadra genera tanto e raccoglie un po’ meno di quello che merita, ci sono dispiacere e rammarico, ma la cosa su cui dobbiamo insistere è che i risultati arrivano se le performance rimangono di un certo tipo. E penso che per tutti l’obiettivo sia cercare di creare il più possibile e concedere il meno possibile. Poi ci sono momenti, situazioni, periodi. C’è una frase bellissima di Bielsa durante la sua esperienza al Marsiglia: ‘Alla fine tutto si equilibra’, al final. Noi dobbiamo credere in questo e nel fatto che tutto quello che abbiamo seminato riusciremo a raccoglierlo. Adesso generiamo tanto e segniamo meno di quello che in realtà meriteremmo, però la cosa importante è rimanere lucidi. I dati secondo me aiutano a riportare su quello che è la realtà».
Undici anni fa aveva teorizzato con anticipo estetica e portiere nella sua tesi. Se dovesse dirmi una cosa che adesso si inizia a intravedere ma che sarà fondamentale tra 5 anni?
«Utilizzo un’immagine che è un po’ una parabola. Da quando ho iniziato ad allenare 15 anni fa, i primi anni per far sì che si pensasse di utilizzare il portiere in un certo modo ci sono voluti 2-3-4-5-6 anni. Per capire il reale beneficio ce ne sono voluti ancora di più. Poi ogni evoluzione porta a una contrapposizione. Dal mio punto di vista, un’idea che magari prima poteva durare 2-3 anni, o minimo una stagione, adesso dura forse una settimana, o addirittura 45 minuti. Adesso a fine primo tempo abbiamo opportunità di vedere e sistemare le cose, quell’idea e quella situazione che potevamo soffrire poi può non funzionare più. Nel corso degli anni per me questo gap di margine tattico, di miglioramento tattico e innovazioni diventerà sempre minore: sarà sempre maggiore il numero delle innovazioni, ma minore il tempo di utilizzo e la durata. Quindi diventa fondamentale il contorno: creare una metodologia di lavoro che faccia sì che i giocatori automatizzino sempre di più determinati comportamenti e far sì che siano sempre più autonomi nel processo decisionale e nel processo di anticipare. E per quanto riguarda gli allenatori: esternamente diventare sempre di più dei facilitatori di processi e quindi creare situazioni sempre più fluide e dinamiche per le competenze dello staff. Mentre internamente con i giocatori facilitare i processi di apprendimento e riuscire a essere dei traduttori delle difficoltà del gioco».