Il suo miglior nemico è l’umiltà, un’arma a doppio taglio con cui ogni tanto si è ferito, ma sempre dopo aver fatto sanguinare gli altri. Memphis Depay è il bullo di quartiere, lo spaccone a testa alta, il boss della comitiva. È quello che al campetto porta il pallone e fa le squadre, quello che gioca da solo e ti dice «io a te non la passo, sei scarso».
Depay alla Juve?
E quando il vento gira dalla parte opposta sai che fa? Prende il pallone e se ne va, perché «tanto è mio e decido io». Però è forte, forte forte. Ne hanno sempre parlato con toni alti. «Predestinato, talento, fenomeno, spacca partite». Grande a Eindhoven, incazzoso a Manchester, stella a Lione, stelletta al Barça e ora la Juve. Su di lui si è fiondato anche Paratici, condor del mercato sempre a caccia di occasioni. Memphis pende tra i bianconeri e il Tottenham, ma Arrivabene ha deciso che lì a sinistra serve uno come lui, estro e dribbling al servizio dell’insieme. Anche a costo di sembrare fastidioso.
Il padre e l’infanzia
Intanto il cognome. Sulle magliette con cui gioca c’è scritto Memphis, il nome di battesimo, perché Depay gli ricorda il padre scappato una decina di anni fa. «Chiamatemi Memphis», punto. Lo disse dopo il debutto con il Psv, la squadra che l’ha preso bambino e reso adulto. Uno dei suoi primi allenatori, Mart van Duren, ha detto che lavorare con uno così è stato tosto, impegnativo, perché ogni giorno era una guerra e l’ultima parola spettava a lui, ma al tempo stesso che la qualità del «ragazzino problematico era pari a quella di Ronaldo». Nato a Moordrecht, paesino olandese, mamma Cora l’ha tirato su quasi da sola, facendo la badante agli anziani del quartiere. Papà se n’è andato quando lui aveva quattro anni e non l’ha mai cercato. Nel 2015, però, il Sun l’ha rintracciato in Ghana e gli ha fatto dire che «sì, da mio figlio non voglio soldi, ma solo un contatto». Depay ha accettato un paio di anni dopo. I due si sono abbracciati a lungo.
Depay, rapper mancato
Memphis si è tatuato la sua storia sulla pelle. Dietro la schiena c’è un leone grosso così, nero su rosa perché – come dice – «io sono cresciuto in una giungla». Il suo patrigno era una sorta di tiranno con dieci figli, tutti contro l’estraneo della famiglia. Lo prendevano in giro perché erano invidiosi. «Io avevo talento nel calcio, loro no, per questo diventai un bersaglio». Da qui l’amore per la musica, in particolare il rap, così forte da portarlo a scrivere canzoni come hobby. Dal 2017 a oggi ha pubblicato 18 singoli, il primo con il suo amico Quincy Promes, stella dello Spartak. «Se non avessi fatto il calciatore sarei diventato un rapper». Il pezzo ‘No Love’ ha circa venti milioni di visualizzazioni su YouTube.
Quando liquidò Rooney
Mai stato umile, piuttosto ambizioso e sicuro di sé. Spocchioso. Quand’era a Manchester liquidò un consiglio di Wayne Rooney, uno che a Old Trafford qualcosina ha fatto, dicendo che «io sono Memphis, o mi accettano così come sono oppure sono problemi loro». In nazionale, invece, ha quasi preso a cazzotti Robin Van Persie in allenamento. Tuttora è il secondo miglior marcatore dell’Olanda dietro l’ex punta dell’Arsenal, 42 gol a 50. Sul petto c’è scritto «Dream Chaser», «cacciatore di sogni», poi si è tatuato il Cristo Redentore sul costato, croci e fiori sulle braccia, un angioletto sulla coscia e decine di frasi, tutte con un significato preciso. «Ho dovuto affrontare situazioni difficili, ma ne sono sempre uscito».
Il cucciolo di ligre e il lusso
L’esultanza lo fotografa. Indici dentro le orecchie, occhi socchiusi, smorfia da «allora? Che avete da dire?». Depay è questo, si sente il re della giungla, il leone lo rappresenta. A 15 anni, quando morì il nonno, figura fondamentale della sua vita, disse a se stesso che sarebbe diventato il migliore. «So che posso farcela». Il miglior Memphis si è visto a Lione, 76 gol in 5 stagioni, uniti ad alcune bravate come liti con gli allenatori, allenamenti in ritardo, polemiche dovute ad alcuni contenuti postati su Instagram. Nel 2020 ha pubblicato una foto con un cucciolo di ligre, un incrocio tra un leone e una tigre, scadendo l’ira degli animalisti. Risposta: «E quindi? Non sono neanche animali selvatici». Per lui il lusso è uno stile di vita: jet, Rolex, anelli, guanti da box. A Rotterdam si è fatto costruire un ring dentro casa, di dimensioni reali.
Scatenare il leone
Bruno Genesio, uno degli allenatori con cui ha reso di più, ha fotografato Depay come meglio non si può. Dopo l’ennesimo colpo di testa del calciatore è andato in sala stampa e gli ha chiesto scusa. Scusa per «tutte le volte in cui è arrivato in ritardo, scusa per la mancanza di impegno, scusa per come si è comportato in più occasioni» e cose del genere. Il tutto col sorriso di chi sa che quei consigli, quell’ironia, avranno tutti l’effetto contrario, cioè scatenare il leone. La miglior versione di Memphis.