di Samuel Eto’o
Davvero, neanche lo sapevo. Ma quando sono arrivato per la prima volta in Europa, in aeroporto ho subito percepito qualcosa di diverso.
Ecco, diverso. Questa parola io non la conoscevo.
A farmela imparare rapidamente ci ha pensato lo sguardo della gente. Ho avvertito il sospetto nei loro occhi, come se fossi un’entità strana, di cui dubitare. Avevo 15 anni ed ero appena uscito dal gate 8 dell’aeroporto di Madrid. In quel preciso istante avevo conosciuto il razzismo.
Piacere, Samuel. Ti sconfiggerò.
In Africa non sapevo che esistessero differenze tra gli esseri umani. Questo concetto esiste solo dove lo si vuol vivere. Per molti africani arrivare in Europa è una liberazione, ma una volta qui ti accorgi subito di essere considerato in modo differente.
Sì, mentre camminavo in aeroporto, quel giorno, mi sono accorto che la mia pelle ha un colore. Qualcuno si accorgeva di me solo per quello.
A distanza di anni, mi chiedo se il razzismo sia un sentimento eterno. E mi rispondo che no, non lo è. Come tutte le cose umane, inizia e finisce. Nessuno nasce razzista, ma ripete ciò che vede fare da piccolo nell’ambiente in cui cresce. Non si odia mai perché ci piace farlo.
Il sospetto nei miei confronti ho imparato a riconoscerlo da subito. Incroci di sguardi e parole, frasi dette sottovoce. Non puoi non restarne colpito. Ti chiedi: «Ma cosa ho davvero di diverso da loro?». Con il passare del tempo, ti rendi conto che il razzismo che subisci è frutto di armi politiche, o di ignoranza. Perché le persone non sanno, non conoscono.
Le persone, quando viaggiano, non si rendono conto che stanno conoscendo il nuovo, che si stanno aprendo a conoscenze. E conoscere fa parte dell’intelligenza, una componente fondamentale per stimolare il cervello, acquisire cultura ed entrarci in contatto. Sei più aperto al mondo, vedi oltre le barriere. Ti accorgi che c’è qualcosa che non avevi mai visto, permettendoti di ampliare il bagaglio e di osservare il mondo con occhi diversi. L’attitudine razzista, genericamente, appartiene alla gente che non viaggia. Stanno in un luogo circoscritto, vivono lì, racchiusi nel loro modo di essere. Il multiculturalismo è una soluzione all’inclusione.
Mi sono chiesto se sia peggio una parola discriminatoria o lo sguardo razzista. Tutte e due, sullo stesso piano. Non so quantificare nell’immaginario quale sia stato il momento più crudo da questo punto di vista, ma se chiudo gli occhi e penso a ciò che ho subito, mi sale alla mente un giovane Samuel in un campo da calcio a Saragozza. Quello è stato uno degli insulti più difficili da accettare.
Vorrei imparare a non pronunciare più la parola razzismo, è inevitabile che non sia così. Se si potesse eliminare una sola voce dal dizionario, opterei per quella. Il razzista non sa niente degli altri, non si impegna a conoscere ciò che è differente da lui, ma soprattutto non sa cosa si perde. Non c’è niente di più bello nella vita che condividere apprendendo.
L’Africa non ha capito qualcosa dell’Europa, e viceversa. La nostra generazione e la vostra sono vittime della storia e del passato. Noi siamo arrivati in questo mondo venendo considerati inferiori, oppure non esistendo. Non ne siamo responsabili, però. Io penso che quelli che per interesse agirono prima che arrivasse la vostra generazione e la nostra generazione, sapevano quello che stavano facendo. Sono coloro che hanno creato tutto questo.
L’Africa non ha raggiunto totalmente la sua indipendenza. Credo che questa sia la grande questione. È limitante non poter decidere il tuo stesso futuro. È un gran problema, che chi viene a rubare nella tua terra ti imponga per di più il suo modo di rubare. Questo la gente non può capirlo. Quindi vedi tante persone di colore salire su barconi e fare migliaia di chilometri in mezzo al mare senza neanche sapere dove stiano andando, con la speranza di sbarcare in quegli stessi paesi che rubano le loro materie prime. Però è l’unica possibilità che abbiamo: scappare nei paesi che ci fanno vivere male.
Al primo posto devono esserci gli uomini. Dovrebbe essere così. Sono loro che cambiano il mondo. Poi ci sono i valori e la convinzione nel perseguirli. Migliorare, voler cambiare le cose. Partendo da qui possiamo fare molto, per questo il mio impegno è che la nuova generazione, formata dai miei figli, abbia nuovi valori che a volte noi non abbiamo avuto, che a volte non abbiamo potuto trasmettergli. Mi auguro che non abbiano complessi né di inferiorità né di superiorità. Perché ne vedi tanti, con la pelle di un colore diverso dal tuo, che mentre cammini ti osservano con uno sguardo che dice «io sono meglio di te».
Puoi essere un esempio nel calcio, come me, però l’esempio dev’essere nel lavoro che abbiamo fatto per arrivare dove volevamo. Altri possono essere esempi in politica, negli studi: tutto ciò si riassume con lo sforzo.
La mia missione è migliorare la comunità. Quello che sto cercando di fare è portare quel poco che ho in me, per aiutare gli altri. Essere al servizio della collettività. Mi sono sempre mosso in questa direzione. Voglio che ogni giorno che passa, sempre più persone guardino al tema con occhi diversi. Ponendosi domande, trovando risposte. E progredendo. Perché al razzismo diamo importanza quando ci sono le urla negli stadi, raramente gli diamo il giusto valore. Non abbiamo multato i razzisti come dovevamo, non abbiamo ancor prima educato come era necessario. Si è creato un loop.
In fondo, il vero debole è colui che offende. Non sono mai stato imbarazzato quando ho visto qualcuno offendermi. Non ho mai provato imbarazzo per un semplice motivo: provavo pena. Mi fa pena perché penso che, alla fine, lui non conosce, e neanche si è impegnato per farlo, non si è dato il tempo di entrare in contatto con l’essere umano che progredisce. Se un bambino, dell’età dei miei figli, assume dei comportamenti discriminatori, è perché ripete gli insegnamenti. Oppure li vede in televisione e cerca di emulare quella gente. Lì soffre, perché è un bambino: è quando diventa adulto e ha la possibilità di scegliere che allora mi fa pena. Tutti abbiamo l’opportunità di diventare persone migliori.
Non ho mai capito il concetto di bianco e nero.
L’esperienza all’interno di una spogliatoio ti arricchisce, viverlo è stato incredibile. Con i miei compagni ho giocato e condiviso anche il razzismo. All’interno di un gruppo, spesso vieni da ogni parte del mondo, ed è il luogo ideale per affrontare certi argomenti. Ho avuto la fortuna di avere molti amici nel calcio, e i rapporti si sono mantenuti. Raramente, però, incontrerai un amico di Samuel. Incontrerai molti amici di Eto’o, deriva dal nostro lavoro. Il più importante è essere a disposizione del compagno, dell’allenatore e del pubblico e non per forza andare a cena con tutti. Per avere un rapporto con me, c’è un solo valore che non sono disposto a negoziare: la lealtà.
Anche su questo concetto ho basato il mio discorso prima della finale di Madrid. Quelle frasi moriranno con me, segregate dentro lo spogliatoio dopo che Mourinho mi cedette la parola. Il momento più intenso, forse, è stato prima della semifinale contro il Barcellona, quella che ci ha proiettati verso il Triplete. Nessuno ci dava speranze: l’Inter era spacciata. Io invece ero convinto del contrario. José fece proiettare un video tratto dal film ‘Il Gladiatore’ e nacque un sentimento incredibile. Non smettevo di ripetere a Materazzi che «caro Marco, in finale ci andiamo noi».
Mou ha affidato a me il discorso prima della partita contro il Bayern. Io, invece, non avrei dubbi: se domani giocassi una finale di Champions, non esisterebbe migliore persona di lui per motivare una squadra. Ci sono molte cose che puoi dire, ma la più importante è «devi credere in te stesso». Questa è la prima vittoria. Se non credi in te stesso, difficilmente puoi arrivare in alto.
A tanti compagni le mie parole hanno cambiato la carriera. Ne esistono altrettanti ai quali non sono arrivate come avrei voluto. Al primo allenamento, quando vidi giocare Leo Messi, pensai che fosse sceso in terra un extraterrestre. Senza parola. Andai da lui e gli chiesi: «Vuoi essere il numero uno o solo un buon giocatore?». Perché avevo visto pochi calciatori in vita mia come lui. Pochi, quasi nessuno. Maradona è stato un’altra cosa, però io non ho giocato con Maradona e quindi non l’ho visto. Nella mia epoca? Pochi. Ronaldinho era una cosa unica, Ronaldo Il Fenomeno non dobbiamo nemmeno parlarne, era un Dio, però Messi appena arrivò fu subito incredibile. E io gli feci quella domanda perché era un dovere di qualcuno più grande di lui. Gli dissi che avrebbe dovuto cambiare questo, questo e questo. Posso solo essergli grato perché in un’intervista che ho visto qualche mese fa, lui mi ringraziava per questa chiacchierata. Leo, senti: «No, sono io che ringrazio te per avermi ascoltato».
Migliorare gli altri è sempre stato un mio obiettivo. Ora come ora, nella vita, voglio portare il Camerun più lontano possibile e soprattutto cambiare la mentalità dei ragazzi. Dire loro che vincere un Mondiale non è impossibile. Sono 7 partite e possiamo farcela. Quelli che vincono la Coppa del Mondo non sono giocatori che scendono dal cielo. Sono compagni di squadra, persone con cui convivere: in modo umile voglio convincerli che tutto è possibile. Quindi arrivare con un’altra mentalità, una mentalità da squadra vincente. Può capitare che quando entri in campo hai dei dubbi. Loro non devono averne. Noi non abbiamo nulla da perdere, tutto quello che dobbiamo fare è provare a vincere. La missione più importante che ho è questa.
La mia vita sarà completa quando, spero, andrò lassù in cielo. Quindi credo che Dio, che è il Supremo di tutti noi, avrà deciso che la mia vita è completa. Sperando di non percepire più il grassetto sulla parola diversità. Finora ci siamo impegnati a cercare ogni modo possibile per dividerci. A suddividerci e incamerarci nei colori. Io sono nero, tu sei bianco. Ma siamo tutti dello stesso colore dell’ignoto, di ciò che è ancora da scoprire. Non c’è niente di più bello.
Come le persone imparano a essere razziste, sono fermamente convinto che possano imparare a non esserlo più. Questa è la buona notizia.