di Giacomo Brunetti
La fragilità si è impossessata di Giuseppe Rossi, un uomo che fragile non è. Ha combattuto con ogni mezzo il destino, vincendo sempre. Anche quando sembrava spacciato. Ha aggiunto ogni volta un tassello, caratterialmente, per non farsi privare del suo sogno. È rimasto per oltre un anno senza squadra dopo un altro capitolo del suo calvario, tornando in campo con il Real Salt Lake e venendo fermato solo dall’emergenza Covid-19.
«In questo anno senza squadra ho fatto sacrifici, mi sono allenato, ho cercato di sentirmi calciatore: sapevo che alla fine sarei arrivato. Non avevo dubbi, sapevo che avrei trovato squadra. Il periodo che stiamo vivendo è molto più difficile: non ho il controllo di niente, non posso fare ciò che amo di più, o visitare la famiglia. Io mi trovo in Utah, loro in New Jersey. Ogni minuto del giorno è una sfida per controllare i pensieri negativi».
«Cioè, quello era Ryan Giggs che mi salutava».
Gli dico «Giuseppe, partiamo dall’inizio».
Ha 17 anni quando lascia l’Italia, dov’è arrivato a 12, per coltivare il sogno dello United.
«Non pensavo al posto in cui sarei andato, bensì al prestigio di essere allenato da Ferguson. Di giocare con calciatori come Ronaldo, Giggs, van Nistelrooy. Pensavo a quanto sarei potuto crescere come calciatore in una squadra che ha sempre dato tanto valore ai giovani: il Manchester United li inserisce al momento giusto. Il primo giorno andai da Ferguson per firmare il contratto. Me lo trovai davanti e rimasi a bocca aperta. Avevo un tale personaggio davanti a me. Appena entrato, la prima persona che incontrai fu Ryan Giggs. Cioè, Ryan Giggs, stiamo parlando di un calciatore che amava anche mio padre. Fu uno schock vederlo alla reception che ci salutava».
Gli allenamenti con Cristiano Ronaldo, i pomeriggi trascorsi con Gerard Piqué. Due ragazzi che avrebbe incontrato alcuni anni dopo nella meravigliosa Liga BBVA di quell’epoca.
«Cristiano aveva sempre voglia di migliorarsi. Voleva costantemente essere il migliore: si comportava per essere tale, sia in campo che fuori. In palestra, in ogni sfida, voleva sempre essere il numero uno. Ho un forte legame con Piqué. Gerard è arrivato il giorno dopo di me allo United, siamo cresciuti insieme a Manchester trascorrendo tanto tempo insieme tra cene, uscite e partite con le riserve. Quando saliva lui in Prima Squadra, andavo anche io. Abbiamo condiviso il percorso. Ronie lo conosco meno, lui era già tra i grandi perché aveva qualche anno in più. Con Gerard ci siamo aiutati a vicenda, andavamo a scuola insieme. Lui era uno dei primi che aveva avuto il permesso per andare a vivere da solo, gli altri vivevano con altre famiglie. Io avevo mio padre, Piqué era da solo e cenavamo da lui».
«Eravamo tecnicamente impressionanti».
La vera sliding door è in Spagna. Vi arriva nel 2007 e la lascia nel 2013. Diventa Pepito, un fenomeno capace di segnare 32 gol in una stagione. Di fare la lotta alle grandi anche in Europa.
«Il passaggio al Villarreal è stato molto importante per me, Pellegrini mi ha dato fiducia fin dal primo momento. Era quello che volevo, cercavo una piazza con questa opportunità. Siamo arrivati secondi alla prima stagione, è stata la tappa più importante della mia carriera. Avevamo uno squadrone, vi giuro: giocatori di grande livello, potevamo vincere una Copa del Rey. Di campionato non se ne poteva parlare, ma avere più fortuna nei sorteggi e nelle partite sì: una volta il Barcellona schierò alcune seconde linee e non riuscimmo ad approfittarne».
Il Real Madrid e il Barcellona sono forti, ma in quegli anni lo erano ancora di più. La loro forza era ancor più delineata rispetto al presente, dove i valori sono sì diversi, ma assottigliati. Quando il Villarreal di Rossi provava l’attacco al potere, le sfide si elettrizzavano.
«Real Madrid e Barcellona erano intoccabili. Il nostro calcio era il migliore in Europa dopo il Barcellona. Se andate a vedere come giocavamo, eravamo spettacolari. Noi li temevamo, ma non avevamo niente da perdere e loro avevano più paura di noi. Sapevano che avevamo una squadra con calciatori molto bravi, di livello tecnico impressionante, era sempre una partita difficile per loro. Ricordo che andavamo sempre in vantaggio, li mettevamo sotto, ma la mentalità vincente di una rosa di grandi campioni esce sempre quando si sentono sulla difensiva. Tiravano sempre fuori qualcosa per batterci».
Rossi ha giocato in Serie A, in Premier League, in Spagna e in Confederation Cup. E quando gli chiedo «Giuseppe, qual è lo stadio che ti ha impressionato di più?», la sua risposta è limpida: «Io vado con Old Trafford. Cavolo, non è il più grande. Il campo è un po’ distante dai tifosi. Però c’è qualcosa di Old Trafford che è magico. Il campo è leggermente sollevato. C’è quella piccola collinetta, è tutto vestito di rosso. Il colore rosso è bello, mi piace. Ti dà un’energia unica. Quando giochi in una squadra così forte, le aspettative ti portano a non sbagliare niente. La pressione di giocare in casa davanti a 100.000 persone ti porta più responsabilità rispetto ad arrivarci come ospite. Con il Manchester United avevo quella sensazione lì. Quella pressione che si percepisce durante quelle partite tira fuori il meglio di te: mi ha colpito più degli altri per quello».
«Stavo per firmare con la squadra più forte di sempre».
Nel 2011 il quotidiano Mundo Deportivo propone un sondaggio ai tifosi del Barcellona: chi vorreste nel tridente con Messi e Villa? Il 50% dei tifosi non ha dubbi: Giuseppe Rossi. Lascia Neymar ragazzino al 34%, Alexis Sanchez al 7%. Il The National apre: «Pep Guardiola vuole Rossi per completare la sua creatura».
«L’ultima con il Villarreal fu una stagione straordinaria: dopo Messi e Ronaldo, in Spagna c’ero io. Mi chiamò il Barcellona, era già tutto fatto: il contratto era stabilito. Mancava soltanto l’accordo tra le società sul pagamento: il Villarreal voleva una parte fissa maggiore rispetto al bonus, il Barcellona al contrario. Appena il Barcellona lo seppe, cambiò obiettivi e non andai lì. Non avevo parlato con nessuno di loro, neanche con Piqué: in quel periodo non sentii nessuno a livello personale tra i giocatori. Quando ti arriva un’offerta del genere non ci pensi due volte: era in quel momento la squadra probabilmente più forte del calcio. Davvero un peccato, ma non ho nessun rimpianto. Il Villarreal mi aveva capito e io avevo fatto di tutto. Quando arrivò Conte alla Juventus ero vicinissimo, la trattativa ci fu. Avevamo venduto Santi Cazorla e la dirigenza mi disse: ‘Giuseppe, abbiamo già ceduto lui e non possiamo lasciar andare via anche te’».
«Ho visto persone piangere per me».
L’epopea fisica viene messa da parte perché Pepito si concede sempre una seconda opportunità. Il Villarreal, mentre lui è fuori per una lesione al legamento crociato anteriore del ginocchio destro, retrocede. Tre operazioni non bastano per farlo tornare in campo prima di maggio, nell’ultima giornata di Serie A. Nel frattempo si è trasferito alla Fiorentina, che quel giorno si lascia sfuggire la Champions League.
«Avevamo grandi giocatori: Mario (Gomez, ndr), Pizarro, Borja, Gonzalo, Cuadrado, Savic, Joaquin, Aquilani. Dovevamo dimostrarlo in campo: a dicembre eravamo secondi, eravamo lì. Tra di noi non parlavamo di Scudetto, ma se fossimo stati tutti sani, se io non mi fossi infortunato e Mario fosse tornato dall’infortunio, potevamo dire la nostra durante quel campionato. Purtroppo è arrivato ciò che è arrivato, spezzandoci le gambe. Siamo arrivati quarti, al giorno d’oggi sarebbe stata Champions League».
Lunedì 21 ottobre 2013 la Gazzetta titola: «Pepito d’oro». Ha ribaltato la Juventus che al termine della stagione stabilirà il record di punti dopo uno 0-2 apparentemente letale maturato nel primo tempo.
«La sensazione di quella partita non posso dimenticarla. Prima della partita tutti parlavamo della rivalità con la Juventus: la percepivo, ma non la comprendevo. Durante il viaggio dall’albergo allo stadio capii però subito cosa significasse: mi lessi la storia, le motivazioni alla base di quella rivalità. In quel viaggio mi sono detto: ‘Questa partita qui è veramente una delle più importanti dell’anno’. In quel primo tempo partimmo con il piede sbagliato, quando fai qualche errore contro una squadra del genere li paghi. Montella ci disse due parole all’intervallo, davvero due. Metabolizzammo che dovevamo sputare sangue. Uscimmo dagli spogliatoi con la voglia di cercare il primo gol: rigore. Da lì, ti dico la verità, non ricordo niente. Ero in un momento di estasi. Dopo il mio secondo arrivò il terzo, di Joaquin. Non avevo più energie, poi trovammo il quarto. Tutto così veloce, tutto in un momento. Mi vengono i brividi quando riguardo i video».
Rossi è provato, stremato, in un vortice umorale.
«Quando sono uscito dallo spogliatoio per tornare a casa, alcuni dirigenti mi hanno detto: ‘Giuse, affacciati’. Sono andato alla finestra e c’erano centinaia di tifosi che cantavano: ‘Il Fenomeno’, che era il mio coro. Bellissimo, stupendo. Ho visto alcuni piangere, ho detto: ‘Cavolo, è veramente sentita’. Da lì capii tutto. Nel pre-partita avevo capito quanto fosse importante, durante la gara avevo percepito la tensione e quanto fosse bella, alla fine con quei momenti avevo capito di aver fatto una cosa storica. Un’immagine? Non lo so, è dura dirlo. Sono accadute tante cose che è difficile tornare indietro. Quando riguardo i video, non mi focalizzo sui gol: guardo i tifosi, la panchina, a bordocampo e capisco cosa ho dato alle altre persone. Ancora oggi ricevo messaggi».
«La mia voglia di essere il migliore è stata sempre maggiore della sofferenza».
A Firenze conosce anche Mohamed Salah, che è la bozza che prende forma del dipinto dell’artista Jurgen Klopp. E Josip Ilicic, un gigante magro discontinuo che si cela dietro al suo valore reale.
«Con Momo non sono riuscito a giocare, ero infortunato. Ci vedevamo nello spogliatoio, aveva grande rispetto per me. Era un giocatore molto intelligente, capiva certi movimenti ed è stato un peccato non essere scesi in campo insieme. Lui è uno molto riservato, con la lingua aveva difficoltà e si interfacciava con me e qualcun altro che parlava inglese. Era un ragazzo tranquillo, faceva parlare il campo piuttosto che la bocca. Ilicic non giocava così tanto, subentrò quando mi infortunai. Ero contento per lui, fece bene e questo gli ha dato fiducia in più per dimostrare chi fosse realmente».
Giuseppe Rossi è ciò che doveva essere. Ciò che voleva essere. Uno dei maggiori campioni degli ultimi venti anni, nella top-5 degli attaccanti per larghi tratti. Fermato dal suo fisico, da quelle ginocchia che lo hanno voluto riportare a terra, ma con le quali è sempre riuscito a tornare a volare.
«Odio fare retromarcia nel passato e indossare quei momenti. Non mi piace pensare a quello che è successo: ti metti a pensare e non trovi una risposta. Ogni infortunio ha avuto il suo brutto momento per quello che mi è stato tolto, hanno colpito i momenti migliori della mia carriera. La sofferenza è sempre durata poco, perché la voglia interiore di tornare ad alti livelli per essere il migliore e fare la differenza, quello che viene amato da tifosi e compagni, è sempre stata più forte».