Portieri: Albertosi (Fiorentina), Pizzaballa (Atalanta), Anzolin (Juventus).
Difensori: Burgnich (Inter), Facchetti (Inter), Guarneri (Inter), Janich (Bologna), Landini (Inter), Rosato (Torino), Salvadore (Juventus).
Centrocampisti: Bulgarelli (Bologna), Fogli (Bologna), Juliano (Napoli), Leoncini (Juventus), Lodetti (Milan), Meroni (Torino), Perani (Bologna), Rizzo (Cagliari).
Attaccanti: Barison (Roma), Mazzola (Inter), Rivera (Milan), Pascutti (Bologna).
Sono questi i 22 giocatori che Edmondo “Mondino” Fabbri convoca per il Mondiale di Inghilterra 1966. Convocazioni annunciate ma comunque sorprendenti, visto che taglia fuori tre pilastri della Grande Inter di Herrera, la miglior squadra italiana dell’epoca: il portiere Giuliano Sarti, il libero Armando Picchi, il fantasista Mario Corso. Altri due ragazzi di belle speranze, il centrocampista fiorentino Bertini e il poderoso attaccante del Cagliari Gigi Riva, vengono arruolati come fuori rosa, per “fare esperienza” (il senso della decisione, cinquant’anni dopo, rimane avvolto nel mistero). Arriviamo al Mondiale sulla scia di una lunga serie di ottime amichevoli: siamo unanimemente considerati tra i favoriti del torneo insieme ai padroni di casa e al Brasile di Pelé e anche il girone con URSS, Cile e Corea del Nord è ritenuto abbordabile.
I giocatori sono di stanza a Durham, dove ha sede la spettrale Scuola dell’Agricoltura. Nonostante l’atteggiamento benevolo della stampa, il clima è teso, con tanto di sorveglianza per impedire le intrusioni dei giornalisti che avvenivano alla luce del sole quattro anni prima e avevano pesantemente influenzato l’esito del Mondiale cileno del 1962. Il presidente FIGC Giuseppe Pasquale ha dato mandato di impedire l’ingresso ai giornalisti RAI, colpevoli di aver trasmesso un reportage troppo moraleggiante sulle follie del calciomercato. Ad ogni modo, non c’è nemmeno lui: ha una paura folle dell’aereo e non se l’è sentita di raggiungere l’Inghilterra in altri mezzi. Non migliora le cose un’infelice battuta di Rivera che, interrogato dai giornalisti sul luogo in cui si svolgono gli allenamenti, risponde scherzando: “Portateli in sala da pranzo”. I giocatori vivono in un clima ovattato, lontani persino dalle altre partite del torneo: invece di studiare le avversarie, lo staff tecnico ha portato dall’Italia una ventina di western per allietare le noiose serate in ritiro.
Il 13 luglio, al Roker Park Ground di Sunderland, va dunque in scena Italia-Cile, rivincita molto più soft della sanguinosa Battaglia di Santiago del 1962. Finisce 2-0 e, dovessimo fermarci al risultato, ci sarebbe di sicuro di che essere contenti: era dal 1938 che gli azzurri non debuttavano con una vittoria in un campionato del Mondo! Fabbri ha mandato in campo la squadra che ci si attendeva, risolvendo il dubbio sulla punta di peso a favore di Barison, non brillantissimo ma comunque a segno a due minuti dalla fine con un gran sinistro. Il primo gol griffato Mazzola ha del resto fatto da apriscatole, contro un avversario pallidissimo parente di quello in assetto da guerra del 1962. Insomma, la prestazione non è esaltante (delude specialmente Rivera), abbiamo giocato per lunghi tratti molto schiacciati indietro, ma la vittoria ci manda comunque virtualmente ai quarti, ed è forse per questo che gli azzurri rimangono sconcertati di fronte alla clamorosa sfuriata di Fabbri sul pullman, nel viaggio di ritorno al ritiro: “Se continuiamo così, ce ne possiamo tornare direttamente a casa”.
Ci si poteva aspettare che il ct non fosse serenissimo – lo si era intuito dalle faticose conferenze stampa dei giorni precedenti, costellate da perle di involontario umorismo (“Da oggi siamo in guerra!”, aveva esordito all’arrivo in Inghilterra, in un impeto di sorprendente virilità). Ma una scena del genere manda in tilt i nostri, che iniziano tra l’altro ad accusare una certa stanchezza dopo il lungo ritiro. Dall’Italia Pasquale cerca di riportare serenità raddoppiando rozzamente la diaria giornaliera da 10 a 20 dollari, ma invano. Fabbri è evidentemente indignato dall’idea che la sua Italia sia tentata di giocare “all’italiana”, ma i risultati non contano dunque più niente? Mondino medita la rivoluzione e in effetti contro l’URSS manda in campo una formazione stravolta dal centrocampo in su: dentro Lodetti, Meroni e Pascutti, fuori Perani, Barison e soprattutto Rivera. Chi non viene risparmiato è Bulgarelli, uscito malconcio a un ginocchio dal match contro il Cile: Giacomino è troppo prezioso agli occhi del ct, che punta a chiudere il discorso qualificazione già nel secondo match, per poi derubricare al rango di scampagnata la partita contro la Corea. Ma i sovietici, che già ci avevano eliminato sulla strada dell’Europeo 1964, sono la nostra nemesi: aggrediscono un’Italia troppo ripiegata all’indietro e ci infilano al 13′ della ripresa con un gran sinistro dal limite di Cislenko, colpevolmente lasciato fare da Facchetti. Rivera manca terribilmente e le uniche, confuse azioni italiane vengono neutralizzate dal monumento Yashin. Ultima tegola l’infortunio di Burgnich, al momento irrecuperabile per la terza partita. In questa situazione avrebbe proprio fatto comodo uno come Riva, che impossibilitato a giocare sfoga la sua frustrazione riempiendo di gol i “titolari” in allenamento…
Il 17 (in questo caso, luglio) non è un numero fortunato nella tradizione italiana, ma non così tanto da rischiare di uscire in quel di Middlesbrough contro la Corea del Nord, che pure ha bloccato sul pareggio in extremis il modestissimo Cile, provocando la sicumera del ct Myung Re Hyung: “Se l’Italia è quella vista contro Cile e URSS, passeremo sicuramente noi”. Ad ogni modo, ci basta il pareggio e le ricognizioni dell’assistente Valcareggi sono rinfrancanti: “Sembrano una squadra di Ridolini”, è il rapporto di Ferruccio, “corrono corrono ma col pallone non sanno che farci”. Realtà? Leggenda? Anche contro un avversario così irrilevante, comunque, tiene banco lo psicodramma-formazione: Brera fa malignamente recapitare a Fabbri un foglietto pieno di consigli, provocando la stizzita risposta del ct (“Lo riporti al signor Brera e gli dica che ci si spazzi il culo!”). Dopo di che arriva l’ennesima rivoluzione di Mondino, che stavolta coinvolge anche la difesa: fuori Salvadore e Rosato e la discutibile coppia Lodetti-Leoncini, torna l’asse bolognese Janich-Fogli-Perani, completato naturalmente dal claudicante capitano Bulgarelli. Dentro ovviamente anche Rivera; a destra Landini prende il posto di Burgnich.
D’ora in avanti, la mitologia si spreca e inizia a mescolarsi con la realtà. Sentite un po’ Albertosi: “Loro entrarono in campo per il riscaldamento con un pallone a testa, si misero a metà campo e cominciarono a buttare il pallone in alto e a fare delle grandi rovesciate. Noi li guardavamo ridendo e pensavamo: ma chi sono questi?”. Comunque sia, nei primi venti minuti c’è solo l’Italia in campo. Perani si mangia tre clamorose occasioni, più per colpa sua che per merito del portiere asiatico Li Chan Myung. A metà primo tempo un contrasto è fatale a Bulgarelli, che si infortuna gravemente al ginocchio sinistro: siamo in 10. Sfiduciati dalla difficoltà di fare gol e dalla vitalità dell’avversario, l’Italia si accartoccia progressivamente su sé stessa fino all’inaudito, che si materializza al 42′: un diagonale di destro da fuori area di Pak Doo Ik supera Albertosi e finisce in rete. Si tramanderà la leggenda del “gol del dentista”, ma in realtà Pak Doo Ik, pur avendo il diploma, non ha mai esercitato; al ritorno in patria verrà premiato dal regime nordcoreano del “caro leader” Kim Il-Sung con una cattedra in educazione fisica.
Nelle teste dei nostri giocatori inizia a farsi strada la percezione dell’umiliazione, che diventa sempre più concreta col passare dei minuti, bloccando il cervello e le gambe. Il secondo tempo è penoso: i nordcoreani sono così scarsi che non possiamo esimerci dal costruire occasioni da gol, tutte frustrate dal solito portierino Myung, e comunque ci manca poco che non subiamo anche il 2-0. Senza cambi a disposizione né idee fresche, affondiamo indecorosamente con in sottofondo la voce incredula di Nicolò Carosio e il gran tifo del pubblico locale tutto schierato per i “ridolini”. Finalmente l’arbitro francese Schwinte pone fine al supplizio: ce ne torniamo a casa. Già negli spogliatoi, racconterà Gigi Riva, il dramma si trasforma in farsa: “Stavano facendo già i piani di fuga per tornare in Italia. Fabbri voleva tornare da solo, di nascosto, ma non gli fu concesso”.
Così benvoluti dalla stampa prima dei Mondiali, Mondino e i suoi ragazzi vengono trattati come dei reietti al ritorno a casa. Anche i giornalisti più equilibrati sparano a zero contro il ct (“Mai come negli ultimi venticinque anni è esistito un solo responsabile: Fabbri”, scrive Gualtiero Zanetti, altre volte paludatissimo direttore della Gazzetta dello Sport) e il ritorno in patria diventa una via crucis: sbarcati all’aeroporto di Genova in gran segreto per evitare contestazioni, gli azzurri vengono comunque smascherati e ingloriosamente bersagliati da pomodori e uova marce. Fabbri resta per un’ora a bordo dell’aereo parcheggiato sulla pista, prima di uscire accompagnato dalla scorta. Il post-Corea sarà ancora più doloroso e grottesco: solo con i suoi fantasmi, l’ormai ex ct inizia ad adombrare sospetti di un complotto ai danni suoi e di Pasquale, ordito dal capo-delegazione Artemio Franchi con l’appoggio di medici e massaggiatori della Nazionale. Per fare le scarpe all’odiato presidente federale, Franchi avrebbe ordinato di assopire gli azzurri con una specie di doping addomesticato a base di misteriose “fialette rosa”, gestito dal dottor Fino Fini: questa è la tesi, sulla base di alcune dichiarazioni di Facchetti e compagni dopo la sconfitta con l’URSS (“Ci tremavano le gambe”). Un po’ paranoica? Sono le stesse teorie tirate fuori da Sandrino Mazzola oggi, oltre mezzo secolo dopo la disfatta di Middlesbrough. Barricato nella sua casa di Castel Bolognese, né desideroso né tantomeno capace di affrontare la stampa, nel frattempo licenziato dalla Federazione che gli ha addossato ogni colpa della disfatta, Mondino trascorre febbrilmente i tre mesi successivi a raccogliere prove e dichiarazioni in un dossier che non vedrà mai la luce. Lapidario Brera: “Era una comica pietosa e per giunta faceva tanto caldo”. La Federcalcio pone fine alla farsa infliggendogli un’impietosa squalifica di sei mesi, alla fine della quale Fabbri proverà a tornare nel calcio che conta ma, al di là di qualche piccola soddisfazione (una coppa Italia con il Torino), verrà perseguitato dal ricordo di quella serata e dal coro irridente “Corea, Corea” ogni volta che metterà piede in uno stadio avversario.