a cura di Giacomo Brunetti

Alla scoperta di Giuliano Simeone: ‭«La chiamata dell’Atlético in spiaggia, il nome sulla maglia e lo Scudetto a Napoli».

Joan Capdevila ha vinto tutto. Un Europeo nel 2008 con la Spagna dei sogni che poi, due anni più tardi, avrebbe trionfato anche al Mondiale in Sudafrica. Nato nell’Espanyol, esploso nella favola Deportivo che all’inizio degli anni duemila è arrivato fino in semifinale di Champions League e affermatosi nel Villarreal, non ha saltato neanche un minuto della vittoriosa spedizione spagnola del 2010.

 

Lo abbiamo incontrato nel RCDE Stadium, il gioiello che fa da casa all’Espanyol, società dove è tornato per chiudere la carriera ad alti livelli e per cui oggi è ambasciatore. Ma ci arriveremo. Anche perché Capdevila, di ricordi italiani, ne ha tanti: «Del Piero è sempre stato il mio idolo senza dubbio», ci racconta. «Ci siamo incontrati varie volte – prosegue – e gli ho anche chiesto la maglietta. Una volta ci trovammo a giocare a Torino, nel vecchio stadio, e dopo la partita ero a telefono con la mia famiglia aspettando il pullman per tornare a casa. Arriva Alessandro e mi saluta con il tipico ‘Ciao!’. Sono impazzito: ho iniziato a urlare a telefono ‘Non ci credo! Mi ha detto ‘ciao’ Del Piero!!’». Momenti dolci e che fanno sorridere, ma non è finita: «L’ho incontrato anche in India, quando entrambi giocavamo là, per un programma pubblicitario. Mi è sempre piaciuto il suo modo di giocare, il suo controllo, la sua eleganza. Mi ricordo proprio in India, prima di una partita mentre eravamo nello stesso albergo, mi chiese: ‘Ci prendiamo un caffè insieme?’, io rimasi stupito e non ci credevo, gli dissi che non potevo perché mi vergognavo, ero troppo affascinato da una leggenda come lui. Chiamai mia moglie: ‘Del Piero mi ha chiesto di prendere un caffè insieme!’. Ogni tanto gli ho fatto gli auguri di buon compleanno su Instagram e mi ha risposto».

 

 

Un rapporto tra grandi giocatori che lo lega al nostro Paese, anche più del suo stadio preferito: San Siro. «Ci ho giocato tre volte, lo amo. Mi sono sempre divertito: ho affrontato tutte e tre le volte il Milan. Forse il fatto che li abbiamo eliminati ha aiutato il mio dolce ricordo… ma è uno stadio che mi ha impressionato: per il calcio, per i tifosi, per l’ambiente e per come si animava», anche perché Capdevila nella Scala del Calcio ci ha trascorso notti infuocate: «In una partita di Champions League ci hanno assegnato un calcio di rigore. L’ho subito io ma lo ammetto: “piscinazo”. Oggi con il VAR non lo avrebbero mai dato! Djalminha ha preso il pallone e mi ha detto: ‘Joan, ora gli faccio il panenka’. E io: ‘No, ma lo vedi dove siamo?! Siamo 0-0 contro il Milan e manca poco’. Inutile dire che ha comunque calciato con il panenka e ha segnato. Siamo andati alla bandierina a festeggiare e ci è arrivato di tutto: telefonini, monete, di tutto. L’ambiente di San Siro era così: non riuscivi neanche a parlare con i tuoi compagni».

 

Capdevila non ha mai giocato in uno dei grandi club spagnoli, ma è stato una colonna della Nazionale che ha vinto tutto tra il 2008 e il 2010. Proprio contro l’Italia, a EURO2008, la chiave di volta: «Quando in Nazionale dovevamo affrontare gli Azzurri, c’era sempre un po’ di rumore. I rigori a EURO2008, quando siamo passati battendo i campioni del mondo in carica, sono stati la nostra svolta mentale. Ci siamo resi conto che potevamo competere con tutti. È stato il momento di svolta. I tempi passano ma l’Italia resta sempre una rivale: c’era tensione, ci temevamo, ma c’era anche un forte rispetto. La nostra mentalità e la nostra storia da quei rigori nel 2008 sono cambiate. Tanti dei nostri giocatori chiave erano ancora giovani e quella vittoria ci aveva dato una forte convinzione».

 

 

Da lì si è arrivati al Mondiale nel 2010, un trionfo che ha consacrato un’intera generazione di calciatori. E che Capdevila ha nascosto… sotto terra: «Prima della finale del 2010 in Sudafrica mi ha chiamato un amico: ‘Joan, ti auguro il meglio per domani!’. Dopo averlo ringraziato, mi fa: ‘Ma la vuoi vincere la partita domani?’. Io sobbalzo e gli risposto: ‘Beh… in che senso… diciamo che ormai che siamo qui, magari ahah!’. Lui serio mi dice: ‘Ecco, se vuoi vincere la finale del Mondiale, devi fare ciò che ti dirò: devi sotterrare una moneta in campo prima del fischio d’inizio, solo dopo averla lanciata in aria, mentre Casillas sta facendo il sorteggio per il campo’. Gli risposi ridendo: ‘Ma secondo te, prima di una finale del Mondiale, nella partita più importante della mia vita, io trovo davvero il modo e il tempo di farlo?’. Secondo voi? Lo feci davvero! Risi. Riattaccai. Ma non riuscivo a dormire. Continuavo a ripensarci: figurati se perdiamo per colpa di una moneta! In quei momenti la tua mente si aggrappa a tutto, entri in uno status dove devi equilibrare le emozioni affinché tutto vada bene. Pensa se poi quel giorno va male e ripensi alla moneta… e alla fine sì, la sotterrai davvero. Io ho sempre avuto la mania, durante il sorteggio del campo, di togliermi le scarpe e rimettermele. Prima la sinistra e poi la destra. Nel mentre, ho preso la moneta, l’ho lanciata in aria e l’ho sotterrata». Aneddoti incredibili dal passato. D’altronde «la scaramanzia nel calcio è fortissima: ho visto allenatori chiudersi in bagno con il santino della Vergine. Ognuno ha il proprio rituale e bisogna rispettarlo». 

 

Anche perché quella finale gli ha tolto il sonno: «Sono arrivato a giocarmi la finale del Mondiale a 32 anni. Se ci fossi arrivato a vent’anni come Busquets… non so come avrei fatto! Non so come quei ragazzi abbiano potuto giocare così tranquilli la finale, però beh, avendo visto ciò che hanno fatto in carriera, probabilmente era normale. Io avevo 32 anni e la notte prima non riuscivo a dormire. Hai alti e bassi, pensi e ripensi, accendi e spegni la televisione di continuo… pensi a cosa potrebbe succedere, perché la finale del Mondiale è molto bella, sì, se la vinci. Ma se perdi, magari a causa di un tuo fallo, la tua vita è finita! Pensavo: ‘Se combino qualcosa non potrò più entrare in Spagna, dovrò cambiare il cognome ai miei figli!’. Sarei stato marchiato a vita. Finisci per alimentarti di pensieri negativi, mi ripetevo ‘Dai, magari segni il gol della vittoria’, e poi mi mettevo a ridere. La mattina della finale sono andato in bagno e mi sono guardato allo specchio, parlando da solo: ‘Joan, hai 32 anni e due opzioni: soffrire questa partita fino alla fine oppure andare in campo e divertirti, a te la scelta’. E l’ho vissuta con più serenità, scegliendo la seconda».

 

 

Il suo rapporto con la Nazionale era iniziato fin dalle giovanili, quando era tra i migliori esterni della Spagna. Ma la prima volta fu indimenticabile: «Quando arrivai in Nazionale maggiore giocavo nel Deportivo. Conoscevo alcuni di loro fin dall’under-21, come Puyol. Il giorno in cui mi chiamarono con i grandi, c’era l’assegnazione dei numeri di maglia: va in base a quante partite hai in Nazionale. Più sei veterano, prima scegli. Puyol sapeva che avrei esordito, ma che sarei stato l’ultimo a scegliere. Quindi venne da me: ‘Joan, con che numero vuoi esordire?’. Gli dissi che avrei rispettato il volere dello spogliatoio e avrei aspettato. Iniziò a insistere: ‘Joan, dimmi che numero vuoi. Non è un disturbo, con che maglietta vuoi esordire?’. Gli spiegai che avevo il 15 nel Deportivo e mi sarebbe piaciuto averlo anche in Nazionale. ‘Bene Joan, esordirai con il 15’. E fu così. Sono piccolezze che alimentano lo spogliatoio, il viverselo bene e avere voglia e felicità di andare al campo».

 

Nella finale del Mondiale in Sudafrica accadde anche un momento che rimarrà per sempre impresso nella storia del calcio spagnolo. Quando Iniesta segnò all’Olanda durante i supplementari, si tolse la maglia e dedicò il gol a Dani Jarque, capitano dell’Espanyol scomparso prematuramente l’anno prima, e con cui tanti di quella generazione avevano condiviso il campo. E per uno come Capdevila, legatissimo all’Espanyol, sarà sempre qualcosa di diverso e speciale: «Il numero 21 da noi è importantissimo. Ogni partita, al minuto 21 c’è un applauso per Dani Jarque, per noi è un riferimento. Soprattutto nella cantera, la storia del nostro eterno capitano. Il suo numero non può essere indossato da tutti, ma solo dai calciatori che arrivano dal settore giovanile e si distinguono in prima squadra. Il fatto che Iniesta lo abbia celebrato nella finale del Mondiale è stato incredibile, io me ne sono accorto solo il giorno successivo perché eravamo tempestati di emozioni e messaggi quella sera. Di tutti i calciatori, solo uno aveva la maglia per Dani e proprio quello ha segnato. Come se il destino avesse già preparato quel momento».

 

 

E a questo punto, Capdevila ci parla dell’Espanyol. Una società che vive con un vicino ingombrante come il Barcellona, con cui condivide la città, ma seguitissimo e pieno di abbonati. E soprattutto, tra stadio e centro sportivo, un club che guarda sempre in avanti e all’avanguardia: «Sono un privilegiato a poter rappresentare questo Club: ringrazio l’Espanyol per aver pensato a me. Sono stato qui a diverse età: ho iniziato nella cantera con il sogno di qualunque ragazzo di poter giocare con i grandi, questo sogno si è completato proprio grazie all’Espanyol che mi ha permesso di formarmi come giocatore e come persona; ho avuto la fortuna di poter giocare ne LaLiga, realizzando il mio sogno, e poi le circostanze del calcio mi hanno portato lontano facendomi fare tutta la carriera lontano da qui; il cerchio si è chiuso perché ho giocato qui gli ultimi due anni ad alti livelli, prima di passare a questo ruolo. Il destino ci ha uniti».

 

È iniziato tutto proprio su questa sponda di Barcellona: «Da piccolo ero un tifoso dell’Espanyol e andato al Sarriá per vedere le partite. Ci sono tanti ragazzi e ragazze che sostengono questa squadra, stiamo crescendo. Anche la rosa è giovane, con 6 ragazzi che vengono dalle giovanili in pianta stabile, e se questo ci sta costando un po’ a livello sportivo, dove stiamo cercando la nostra stabilità, dall’altra sappiamo di avere un progetto e che questo comporta un processo che non si compie dalla notte alla mattina. Abbiamo avuto delle difficoltà, come tutti i club, e in occasione della pandemia un po’ di più».

 

«Adesso che tutti i problemi sono risolti – ci spiega – e sappiamo che l’Espanyol è sano e dobbiamo solo provare a crescere dal punto di vista sportivo. I nostri tifosi hanno sofferto tanto, ora devono divertirsi», e la salvezza ne LaLiga è il primo passo per una nuova continuità. «La cantera è il nostro maggior patrimonio, la base del calcio. In Spagna è considerata una delle migliori e credo anche che ogni ragazzo che si trova nel nostro settore giovanile abbia più possibilità di arrivare rispetto a un’altra squadra», e soprattutto sui più giovani sono tanti i grandi club che si fiondano sui ragazzi dell’Espanyol. «Molti appassionati di calcio non conoscono la grandezza del club e il nostro stadio, quindi ve lo consiglio: se venite a Barcellona, venite qualche ora a visitare la nostra casa, valutate con i vostri occhi. Trascorrere qualche ora qui, soprattutto in occasione della partita, ti permette di vivere un’esperienza unica, ospiteremo anche i Mondiali e sarà un’esperienza fantastica, con quasi 40mila persone. La gente che viene qui si diverte molto. L’Espanyol si è costruito lo stadio da solo, ha finito di pagarlo, e ora non resta che goderselo», chiude parlando della società che lo ha fatto esordire tra i grandi.

 

 

Nei suoi tanti anni nel campionato spagnolo, Capdevila ha avuto modo di affrontare tanti campioni, tra cui i due frontmen: Lionel Messi e Cristiano Ronaldo. Con cui condivide numerosi aneddoti: «Mio figlio era ricoverato in ospedale e il giorno dell’Epifania sarebbero venuti i calciatori a trovare i pazienti. Speravo venissero quelli dell’Espanyol… invece arrivarono quelli del Barcellona. Iniziavamo male ahah! Non sapevo chi sarebbe venuto, magari non i migliori della prima squadra, invece apparirono Messi e Suárez. Appena mi vide, Leo si sorprese e io pure: non era normale incontrarmi lì. In carriera gli ho sempre chiesto qualunque cosa: dalle magliette ad altri cimeli. Quel giorno si mise a ridere: ‘Joan, oggi non chiedermi niente!’». Senza dubbio per Capdevila, «il suo Barcellona, quello con Guardiola, è stata forse la miglior squadra di sempre da affrontare. Era molto difficile giocare contro di loro, avevano una grande generazione». Ci racconta che «una volta ci giocai contro con il Villarreal. Leo lo sapete, è solito muoversi per tutto il campo senza una posizione fissa, non dà riferimenti. Inizia la partita e vedo che si avvicina a me. Gioca tutto il primo minuto sulla mia fascia. Quindi mi avvicino e gli dico: ‘Senti, ti dico una cosa: il giocatore che gioca sull’altra fascia si è allenato da schifo tutta la settimana! Vai di là per favore’. Lui mi guardò ridendo, pensando che fossi pazzo. Gli dissi: ‘Ahahah, sì, ma davvero vai dall’altra parte, ti prego!’».

 

«Cristiano Ronaldo – invece me lo ricordo la prima volta in un Villarreal-Manchester United di Champins League, mi buttarono fuori dopo un fallo che feci su di lui. Era una macchina da vittorie. Nella stagione in cui mi sarei ritirato gli ho chiesto le scarpe alla fine di una partita, avevo già un sacco di suoi cimeli: ‘Cri, mi regali le tue scarpe? Che poi non ti vedrò più’. E lui secco e serio: ‘No’, e se ne andò via. Pensai: ‘E menomale che oggi ha segnato una tripletta’. Ma sono cose che capitano, chissà cosa aveva in mente e non può essere sempre di buon umore. Sono aneddoti di campo, niente di più. Certo, oggi avrei potuto dire ai miei figli: ‘Le vedete queste scarpe? Sono di Cristiano Ronaldo’. Ma fa niente… se un giorno mi chiederà le mie, vorrà dire che non gliele darò!», scherza Capdevila. Momenti di campo che ci tiene a condividere: «Affrontai in Valencia-Deportivo uno come Aimar: con un colpo gli ho rotto la narice! E poi siamo stati compagni al Benfica: quello che succede in campo, rimane lì». Ma ha avuto «tanti problemi con Luis Garcia. Un ragazzo incantevole che in campo si trasformava. In un Espanyol-Villarreal al quinto minuto ci eravamo già presi tre volte. Gli dissi: ‘Luis, minuto 5 e siamo così. Ne restano 85, che facciamo?’. Era uno molto competitivo: fuori dal campo abbracci, dentro al campo botte».

 

Aver parlato con Joan Capdevila ci ha fatto conoscere un fiume in piena. Ha vinto tutto e questo gli ha permesso di mantenere il sorriso stampato in faccia sempre, se si parla di calcio.