Per anni è stato fra i migliori attaccanti della nostra Serie A. In doppia cifra, col Cagliari, per 3 stagioni diverse. Fra i brasiliani c’erano riusciti solo Kaká, Adriano e Pato. La sua avventura in Italia si è chiusa con due momenti complicati: quell’Italia-Macedonia del Nord per cui abbiamo saltato il 2° Mondiale consecutivo e la retrocessione, da capitano, con il Cagliari nel 2022. Oggi João Pedro è ripartito dall’Hull City, in Championship, dopo le esperienze con Fenerbahçe e Grêmio. Un altro calcio, ma il suo amore per la Sardegna e l’Italia, che lo ha accolto neanche 20enne, è più forte che mai.
«Con l’Italia mi chiedevo: ‘ma io merito di essere qui?’»
Una stagione al Palermo, una vita a Cagliari. Poi l’amore e la famiglia. João ha acquisito la cittadinanza italiana nel 2017. 5 anni dopo si è ritrovato a giocare per la maglia azzurra la partita più importante della storia recente. 24 marzo 2022: Italia 0 – 1 Macedonia del Nord. Al Barbera di Palermo: decide un gol di Trajkovski al 92’. «Quando quella palla è entrata si è spento tutto. Nessuno si è arrabbiato, c’è stata solo una sensazione di vuoto. Mi è dispiaciuto tantissimo. Non penso che avrei dovuto giocare di più o dal primo minuto, a me rattrista solo il fatto che avrei voluto aiutare di più. In generale. Non sono stato bravo a gestire quel periodo: ‘Mi chiedevo: ‘Ma io merito di essere qui?’».
Nonostante l’annata complicata con il Cagliari, infatti, João viene visto come una delle possibili soluzioni per i problemi dell’attacco dell’Italia. La sua convocazione sembrava quasi una manna dal cielo: «All’inizio mi è preso un colpo. Avevo la cittadinanza dal 2017, ma non me l’aspettavo. Ero a prendere il caffè con i magazzinieri del Cagliari, poi arriva il nostro DS, Stefano Capozucca: ‘Guarda, l’Italia mi ha chiesto di te perché hanno saputo che hai il passaporto’. Io non capivo: ‘Ma per cosa?’. E lui: ‘Per convocarti’. Credevo scherzasse, così stavo per andarmene. Ma lui: ‘Fermati, sono serio’. Continuava… ‘Dai Stefano, non giocare’».
Alla fine quella chiamata ufficiale è arrivata sul serio: «Non era una cosa che mi passava per la testa. Avevo già un legame molto forte con l’Italia, però sono stato colto di sorpresa. Mia moglie e i miei figli sono italiani. Tornato a casa, parlo con lei… le è preso un colpo! Il giorno dopo mi chiamano. L’unico rammarico, oltre che per come sia andata poi la partita, è che passavo il tempo a chiedermi: ‘Merito di essere qui?’. Mi hanno trattato tutti benissimo, conoscevo già i ragazzi perché giocavamo contro ogni domenica. Ma quella cosa mi ha bloccato, non mi ha mai fatto essere lì 100% mentalmente. Per carità, poi non è che non riuscissi ad allenarmi o a giocare, ma era un pensiero che avevo sempre in testa nonostante sentissi il rispetto di tutti per quello che stavo facendo in Serie A».
Per un incrocio del destino, quella partita si gioca al Renzo Barbera di Palermo. La prima città che ha accolto João a neanche 20 anni: «Quando eravamo ancora a Coverciano, uno dei compagni mi si avvicina: ‘Allenati forte perché potresti giocare tu’. Poi ho pensato che si sarebbe giocato a Palermo. Mi dicevo: ‘Non è possibile: mi convocano, giochiamo lì. Manca solo la ciliegina sulla torta’. È una cosa che mi ha caricato molto: fuori dallo stadio, i tifosi avevano fatto una festa pazzesca così come per tutta la durata del match. Alla fine, entro all’89’ ancora sullo 0-0. C’era molta tensione, la percepivamo tutti. Quando è entrato quel pallone… buio totale».
L’Italia è fuori dalla Coppa del Mondo per la seconda volta consecutiva. Una disfatta totale. A João capita una palla che avrebbe potuto cambiare il nostro destino: «Non ricordo chi avesse calciato o crossato, ma so di aver detto: ‘Adesso la devio e la metto di lato in rete’. Pensavo di segnare… avrebbe cambiato la nostra storia in quel momento e la mia carriera. Al 100%». Poi il fischio finale: «In spogliatoio c’è stato di tutto. Nessun litigio, semplicemente la tristezza. C’è chi ha passato tutta la sera con la testa abbassata, chi parlava di azioni di gioco, chi non ci credeva. Ma soprattutto c’era chi piangeva. Quella sera a Palermo si è pagato tutto ciò che era successo prima: c’era la paura di rimanere fuori di nuovo. Sentivi il peso di ciò che era accaduto 4 anni prima. E la squadra non è riuscita a performare in quel momento: per me e per tutti gli italiani è stata una bastonata bella pesante. Quella notte è stata un po’ come col Cagliari a Venezia solo pochi mesi dopo».
La retrocessione col Cagliari nel 2022: «Un gol. Serviva solo un gol»
Dopo 8 stagioni, l’avventura di João Pedro al Cagliari si è conclusa nel peggiore dei modi: la retrocessione del 2022 con uno 0-0 in casa del Venezia. «Questa è l’altra partita della mia carriera che avrei voluto rigiocare. Tutta la settimana era stata pesante: c’era molta paura, anche se avevamo provato a caricarci al massimo. Andavamo a Venezia per giocarci la vita o la morte. È difficile da spiegare quella sera… dovevamo segnare solo un gol. Non che sia una cosa così facile, ma neanche impossibile. Avrei voluto fare il gol più brutto della storia in quel momento: un tiro svirgolato, una deviazione, qualcosa. All’intervallo, ci avevano detto che la Salernitana era sotto 3-0 contro l’Udinese. Ci siamo guardati: ‘Dai ragazzi, basta un gol. Non importa come o chi. Una palla’. C’abbiamo provato in ogni modo. La stagione è finita lì, ma la retrocessione non è iniziata quella sera a Venezia».
João è fra i più criticati. Per la fascia da capitano, per gli 8 anni in Sardegna: «Il post è stato duro. Avevo e ho ancora oggi la responsabilità di quella squadra. Se è mancato qualcosa, è soprattutto colpa mia. Non solo a livello individuale, ma parlo a livello di capacità di trascinare, guidare e aiutare i compagni. In certi momenti non sono stato capace. È stata un’annata pesante: abbiamo sofferto tutto il tempo».
Nel momento più complicato, João non si presenta ai microfoni: «Non mi hanno fatto parlare. Questo devo dirlo: non voglio che la gente pensi che io non abbia voluto metterci la faccia. Da quel momento, poi, mi sono chiuso tanto. Sono umano anch’io. È stato un colpo duro, un silenzio pesante fino praticamente all’annuncio del mio addio. Non mi pento di nulla, non amo sprecare parole: se dico qualcosa, è perché voglio trasmettere la verità. Capisco che i tifosi lì per lì avrebbero voluto sentire qualcuno… che sarei dovuto essere io! Ho dato veramente tutto quello che avevo a Cagliari: avrei preferito uscire da incapace a livello calcistico piuttosto che come uno che ha abbandonato la squadra in un momento di difficoltà perché non è assolutamente vero. Da fuori possono dire ciò che vogliono, poi basta vedere come ho vissuto ogni partita indossando quella maglia: io e Cagliari abbiamo un rapporto che nessuno potrà mai rovinare. Il finale è stato forse uno dei peggiori possibili, ma da tifoso io direi: ‘sono orgoglioso di avere avuto un calciatore del genere, così attaccato al mio Cagliari’».
Nonostante l’epilogo, Cagliari è stata la squadra più importante della carriera di João: «Ho vissuto un terzo della mia vita lì: sono arrivato ragazzino e me ne sono andato uomo e padre di famiglia. Sono stati 8 anni meravigliosi. Anche quando mi accostavano ai top club, io non ci pensavo: negli anni avevo visto gente come Di Natale all’Udinese o Miccoli a Palermo fare molti più gol di me ed essere comunque fra i migliori calciatori della Serie A. Io volevo fare lo stesso: mi aggrappavo a questo».
La squalifica per doping e il ritorno con gol al Milan
Cagliari e il Cagliari gli sono stati vicini nel momento più buio: la squalifica di 6 mesi per doping nel 2018. Il motivo? La positività a un diuretico emersa nei controlli antidoping dopo i match contro Sassuolo e Chievo Verona. Su 4 anni chiesti dalla procura antidoping di Nado Italia, il Tribunale Nazionale ha appoggiato la tesi di un integratore contaminato, passatogli da uno dei suoi nutrizionisti dell’epoca: «Ho avuto tanta paura. All’inizio arrivavano solo notizie su una possibile lunga squalifica. Tutto ciò che provavo a dimostrare andava contro la Procura. Lottavo dentro di me con la sensazione del ‘caz*o, non ho fatto niente di sbagliato, ma come ne esco?’».
Da maggio a settembre João resta fuori: «Ho continuato ad allenarmi da solo, con il mio preparatore. C’erano giorni in cui veniva ad alzarmi dal letto. Io non ce la facevo, non avevo stimoli. Tutta la città mi è stata vicina: dalle signore anziane ai bambini, chiunque provava a darmi forza quando uscivo in strada. Nessuno ha mai dubitato di me né mi ha voltato la faccia. Per chi vive una roba del genere quella è benzina naturale. Non so se da un’altra parte avrei potuto ricevere un trattamento del genere. Ma più che per i 6 mesi in sé, è per il resto: prima di informarmi, studiare e vivere sulla mia pelle questa cosa, io da ignorante mi ero sempre fermato al fatto che questo discorso fosse legato solo a cose brutte, fatte per guadagnarci sopra. È una cosa per cui la tua immagine rimane macchiata. Poco importa che poi dimostri di non aver fatto nulla di sbagliato. Ho avuto davvero troppa paura di smettere».
Il rischio, infatti, era quello di rimanere fuori per 4 anni. Un’infinità: «Ricordo di aver giocato 15 minuti a Firenze pochi giorni prima del processo. Il Presidente Giulini e Diego Lopez mi avevano chiesto se ce la facessi a giocare. ‘Certo, ovvio!’. Dentro intanto morivo di paura. Dalla domenica sera al mercoledì ho solo pianto. Nient’altro. Poi sono arrivati i 6 mesi: alla fine avrei saltato solo 3-4 giornate, non finiva la mia carriera. Fossero stati 4 anni, credo non sarebbe stato più fattibile giocare. È difficile tornare a fare bene come se non fosse successo niente. La città e la mia famiglia mi hanno aiutato a riprendermi la mia carriera».
C’è una data esatta in cui João si riprende tutto: 16 settembre 2018, Cagliari-Milan. Alla prima dopo la squalifica, il numero 10 del Cagliari segna subito: «Sicuramente è stato il momento più bello della mia carriera. Non giocavo una partita da 6 mesi. Puoi allenarti quanto vuoi, ma c’è una differenza pazzesca. Mi avevano chiesto se ce la facessi, e io: ‘Sì, voglio giocare!’. Era da quando ero piccolo che non sentivo lo stomaco sottosopra per una partita. E dopo 3 minuti… GOL. Una storia da cinema. Alla prima palla che tocco… con un tiro brutto, neanche l’ho presa benissimo».
Fra i primi a festeggiare con lui, c’è Leonardo Pavoletti: «Non avevo capito come fosse riuscito a prendere quel pallone con una diagonale pazzesca. Sbatte sul palo e rientra: io ho cercato solo di non mandarla fuori dallo stadio. Lì mi sono bloccato. Sembra una cag*ta, ma veramente in testa mi è passato un film: per 30 secondi mi sono spento completamente. Non sono riuscito neanche ad esultare. È stata un’emozione molto grande. Segnare dopo 3 minuti credo sia stato un segnale: ho capito di potermi riprendere la mia carriera e fare ancora meglio».
Forse è quello il prima e dopo nella carriera di João. «Avevo passato l’estate da solo a Cagliari ad allenarmi col mio preparatore, mentre la squadra era in ritiro. Solo a settembre ero tornato ad allenarmi con il gruppo. La testa non si fermava mai: dormivo di m*rda, pochissimo e male. I momenti più brutti, però, erano durante le partite: mi mettevo a guardare i miei compagni, ma poi mi alzavo per chiudermi in bagno e piangere. Non ce la facevo. Mi domandavo: ‘Cosa succederà? Cosa devo fare?’. In quei momenti non hai il controllo su niente. Era un sentimento talmente forte che non riuscivo a contenerlo».
La salvezza in hotel, la stima per Barella e lo scherzo a Le Iene
La storia di João con il Cagliari, però, è ricca di momenti belli. Oltre ai gol, tanti. Come la salvezza del 2021: «Abbiamo festeggiato in hotel dopo il pareggio fra Benevento e Crotone. Noi la sera avremmo poi giocato a San Siro contro il Milan. A pranzo qualcuno aveva detto: ‘Ce la guardiamo insieme?’. C’era tensione, ci si divideva in gruppetti, ma io ho preferito andare a dormire. Non ho visto nulla di quella partita: era troppo importante per noi, non ce la facevo a mettermi davanti alla tv. All’improvviso mi sveglio: c’era una confusione pazzesca nei corridoi dell’hotel. Apro la porta e vedo gente che urlava, correva, si lanciava cose. Ho detto: ‘Beh, immagino sia successo qualcosa di buono’. Poi sono venuti a prendermi: ‘Siamo salvi, siamo salvi!’. Ma io ho chiuso la porta altrimenti camera mia sarebbe diventata un disastro. Volevo sentire la mia famiglia e respirare, con calma. Avevo i brividi: fu una stagione davvero faticosa. A gennaio ci davano per spacciati… e invece!».
Un’altra emozione indelebile è la promozione in Serie A conquistata nel 2016. Tutto era iniziato con Giulini che in estate lo aveva chiamato: «João, cosa facciamo?». Ma, con ancora tutto da dimostrare, il classe ’92 era sicuro: «Io voglio rimanere e riportare il Cagliari in A. Ero un ragazzino: ricordo di aver vissuto quella stagione con grande rabbia. Volevo solo giocar bene e tornare in massima serie. Mi dicevo: ‘Ho fatto un torto a loro, devo ripagarli’. Venivamo da una stagione finita male, con la retrocessione: non è così semplice tornare subito su, fidatevi».
Con il passare delle stagioni, il Cagliari si rinforza e rimane in Serie A per anni. Si avvicendano allenatori, grandi campioni, ma João è sempre la certezza: «Segnare più di 40 gol in 3 stagioni in un campionato del genere è tutt’altro che semplice. Non giocavo con Juventus, Inter o Milan. Sono stato uno dei primi a portare un fisioterapista e un preparatore atletico a casa per lavorare anche al di fuori del club: sono cose che ti fanno fare la differenza. Sono stati anni magici. L’allenatore che mi ha cambiato? Maran. Mi ha spostato più avanti e io ho segnato 18 gol. Non ho mai avuto grandi problemi con i mister, ma all’inizio con qualcuno non sono riuscito a prendermi. Io sono un po’ chiuso, fatico ad esternare le mie emozioni».
Fino al 2022, João è stato la certezza del Cagliari. Con lui e accanto a lui sono cresciuti e hanno giocato vari calciatori. Il primo? Nicolò Barella. «Era scatenato. È evidente che abbia tantissima qualità, non serve dirlo ma ciò che mi ha sempre stupito è stata la sua cattiveria: in ogni partita, per 90 minuti, lui comunque ci prova. Non è sfacciato, ma quasi… credo sia stato uno dei motivi principali per cui sia arrivato a questo livello. È una cosa che trovi davvero in pochi calciatori. Anche in allenamento dovevi dirgli: ‘Nico, calma. Non c’è bisogno’. Lo invidiavo tantissimo: non serviva stimolarlo, lui era già così di suo. Era uno che provava di tutto: calciava da centrocampo, tentava la rovesciata di mancino. Robe che io neanche ho mai tentato. A lui non fregava nulla di sbagliare: ci provava».
Poi passiamo ai partner d’attacco. «Il compagno con cui ho imparato di più è stato Pavoletti: segnava di testa come un pazzo, in tutti i modi. Mi chiedevo: ‘Ma com’è possibile che segni così tanto di testa?’. Con lui sono riuscito a migliorare anche in quel fondamentale. Rendeva facili gol impossibili».
Proprio con Pavoletti, ha realizzato insieme a Le Iene uno scherzo al loro compagno, allora portiere del Cagliari, Alessio Cragno. In cambio di soldi avrebbero dovuto ‘vendersi’ una partita: «Non ricordo se avessero cercato prima me o Pavo, ma ad ogni modo sia io che lui non avevamo avuto dubbi: dovevamo fare lo scherzo a Cragno. Eravamo sicuri che se la prendesse. Pavoletti è un attore pazzesco. Prima di iniziare la messa in scena, gli ho detto: ‘Vai tu avanti. Mi fido di te’. Era tranquillo, raccontava per bene la storia. Io neanche riuscivo a parlare, mi veniva troppo da ridere. Non riuscivo a trattenermi, invece Leo era freddissimo davanti a Cragno. Ne abbiamo riso per giorni, per fortuna Cragno ha preso bene lo scherzo. Io avrei avuto una paura folle. Per settimane abbiamo continuato a prenderlo in giro… anzi, già lo facevamo: adesso avevamo un motivo in più! Gli vogliamo troppo bene».
Tornando ai compagni di squadra con cui ha giocato, un altro con cui João si è trovato bene è stato Borriello: «non avevamo un gran rapporto fuori dal campo, neanche ci guardavamo in faccia, ma giocare con lui era pazzesco. In campo avevamo un’intesa incredibile. Gli davi qualsiasi pallone e lui lo metteva giù, lo teneva. Calciava di destro e sinistro, colpiva di testa: aveva una mentalità vincente. Così come Bruno Alves e Godin».
Di compagni forti João ne ha avuti parecchi: «Vedevo la differente mentalità in loro mentre provavano a trasmettercela. Così come Storari o lo stesso Nainggolan: Radja passava la palla e attaccava la profondità. Io non provavo a saltare nessuno, gliela passavo e mi fiondavo in attacco. È chiaro che si giochi sempre per vincere, ma loro ci dicevano: ‘Farlo in una big è diverso’. Quando sono andato in Turchia o in Brasile l’ho capito: l’errore più grande che puoi fare, ascoltando i tuoi compagni che hanno giocato ad altissimi livelli, è quello di non imparare e vedere i loro consigli come cretinate». Ma il compagno più forte non è stato a Cagliari.
Il Brasile di Neymar e il buio nel Palermo di Pastore
João è nato a Ipatinga, una cittadina nell’entroterra del Brasile da più di 260mila abitanti. Ha vissuto lì la sua infanzia, complicata, fra le vie della città e il pallone a toglierlo dai guai. Il talento c’è sempre stato: tant’è che ha fatto tutta la trafila nelle Nazionali giovanili del Brasile. Con l’U17 ha vinto nel 2009 il ‘Sudamericano’.
Con lui c’erano Casemiro, Coutinho, Alisson. E Neymar: «È stato il più forte con cui ho giocato: tutto talento naturale. Quando facevamo delle partitelle 7vs7 o a 10 ma a campo ridotto, con lui finivano 8-2… e lui facevo 6 gol in due tempi da 15 minuti. Era una cosa pazzesca. Solitamente sono partitelle che finiscono 3-1, 1-1 ma lui cambiava tutto. Quella Nazionale era davvero fortissima: avevamo vinto il Sudamericano U17 prima di andare al Mondiale. Eravamo consapevoli di essere uno squadrone e lì è stato questo a tradirci. Quando ce ne siamo resi conto, era troppo tardi: siamo usciti al girone, dopo appena 3 partite. Ma eravamo troppo belli da vedere. Anche in allenamento: numeri, giocate. Prendevamo palla e partivamo a correre, fra sombreri e dribbling. È una cosa che a livello mondiale poi paghi giustamente. Ma non ci interessava: volevamo divertirci. Pensa che io giocavo davanti alla difesa: c’era un difensore, io in mezzo al campo e poi tutti numeri 10. Era troppo divertente».
Ma i fenomeni non erano solo in mezzo al campo. «Alisson era il portiere di quella Nazionale: è sempre stato così forte. Se tu lo guardi, è uno centrato, sereno: è rimasto identico al passato. È la stessa persona. È cresciuto fisicamente, ma è sempre stato così impostato e tranquillo. È una cosa che mi fa ridere… perché lo conosco da quando eravamo ragazzini e non è cambiato di una virgola».
Dopo i tornei con le giovanili del Brasile, João lascia l’Atlético Mineiro per l’Italia. La prima squadra a puntare su di lui è il Palermo: un’esperienza tutt’altro che semplice. 6 mesi prima di passare in prestito al Vitória Guimarães: «In quel periodo, se eri un ragazzino brasiliano volevi solo provare a fare il grande salto in Europa. Credevo di arrivare in Italia e potermela giocare alla pari, ma non era così. Quel Palermo era davvero molto forte: c’erano Pastore, Miccoli, Maccarone, Iličić, Balzaretti, Bovo, Sirigu. Ero molto infastidito dal fatto di avere poche chances: mi allenavo bene, eppure non giocavo. Faceva parte del processo di crescita, poi col tempo l’ho capito».
D’altronde, a 18 anni, João giocava in uno dei club più importanti del Brasile: «Quando sono salito in prima squadra nell’Atlético Mineiro, ero convinto di poter diventare titolare. Mi sono bastate 3-4 partite per riuscirci. Il mio procuratore mi diceva: ‘Ma che dici? Non diventerai mai titolare fisso’. E invece. Per questo ero convinto di riuscirci anche a Palermo. Avevo un po’ di soggezione dei vari Pastore, Miccoli, ma ero sicuro di me stesso. Il problema è stato uno: si giocava un calcio totalmente diverso. Ero davvero molto indietro… anni luce!».
Dopo aver girato un po’ fra Brasile, Uruguay e Portogallo, João torna in Italia, al Cagliari, ed esplode definitivamente. Con i sardi affronta alcuni dei difensori più tosti d’Europa: «Io odiavo giocare contro Chiellini e Koulibaly: fisicamente erano dei mostri. Quello che mi infastidiva di più, però, era Bonucci: ti entrava in testa. Io da attaccante provavo qualcosa di diverso pur di sorprenderlo, ma lui invece era come se pensasse insieme a me. Tutto quello che cercavo di immaginare o fare diversamente, un numero, un movimento, lui lo anticipava. È la cosa più fastidiosa per una punta. Magari fisicamente riuscivi a trovare delle scorciatoie per evitare il contatto, ma quando poi vedi che anticipa i tuoi pensieri… lì il difensore ti uccide. Contro lui e Chiellini era sempre così».
«Chiedevo da mangiare in strada: essere qui per me è come essere il numero 1 al mondo»
Dopo Cagliari, il viaggio di João è proseguito in Turchia e in Brasile, dove è stato il partner d’attacco di Luis Suárez: «Un altro fenomeno. Sappiamo tutti che è fortissimo, ma credetemi: è incredibile. Fa gol in tutti i modi. Vede sempre il buco giusto per inserirsi. Pensi che abbia stoppato male un pallone e invece si gira e segna. Non è un caso che abbia fatto più di 500 reti. Vederlo da vicino è stato ancora più bello».
Oggi, invece, gioca all’Hull City nella Serie B inglese. Sta ritrovando continuità dopo alcuni infortuni rimediati nelle passate annate e – anche se ancora in minima parte – ha iniziato a dare uno sguardo al futuro: «Conoscevo già il Presidente dell’Hull City. Mi ha chiamato la scorsa estate mentre ero a casa ad allenarmi da solo: ‘Dai, vieni. Ho bisogno di te’. Non avrei mai immaginato di finire in Inghilterra a questo punto della mia carriera, ma sono sempre stato curioso di capire come funzionasse. Fisicamente sto vivendo il miglior periodo della mia carriera: non pensavo fosse possibile, soprattutto a 33 anni. È un campionato molto fisico: non esiste il VAR, quindi a fine partita sei sempre distrutto. Ma dopo due stagioni complicate, sono felici di aver ritrovato la serenità. Non riuscivo a riaccendere la fiamma, invece venire qui è stata la scelta giusta. Non c’è la pressione continua: sai di dover vincere, ma in settimana sei più tranquillo. Il futuro? A volte ci penso. Non voglio più avere a che fare con il calcio: ho dato tutto, anche quello che non avevo. Al massimo insegnare ai giovani: in vacanza a Palermo, sono andato alla scuola calcio di mio figlio e ho iniziato a dare alcuni consigli all’U16. Mi piacere vedere ragazzi che danno tutto pur di arrivare fra i professionisti. Ci penserò, ma al momento non lo so. Credo di non avere la forza mentale per il momento».
Il tempo darà la risposta ad ogni domanda. Intanto João è tornato a divertirsi con il pallone. Un po’ come quando era bambino, per le strade del Brasile, insieme a suo fratello: «Da piccolo io non avevo niente. Ma veramente niente: andavo in giro a chiedere da mangiare. Solo il talento donatomi da mio padre che tornava a casa alle 5 da lavoro, si metteva le scarpe e usciva a giocare. Non avevo un piano B: sono andato via di casa a 13 anni per inseguire un sogno. E ce l’ho fatta. Serviva più testa che talento, ne ho visti tanti perdersi o non reggere la pressione. Per alcuni, magari, può sembrare che io non abbia fatto nulla di straordinario, ma per me, partendo dalla mia condizione, è come se avessi raggiunto l’apice del successo: non sono un fenomeno, ma per me essere oggi qui è come essere il miglior calciatore al mondo» E questa è la cosa più importante.