Noi lo vediamo adesso, alto e grosso con due spalle così, ma c’è stato un tempo in cui Kim Min Jae era il più mingherlino dei compagni. Un adolescente alto, secco e senza muscoli, ma che si allenava sempre al massimo, più degli altri, così sicuro del successo che spesso si palesava nell’ufficio dell’allenatore col viso incazzato: «Non capisco i miei compagni, mister. Non so, è come se non lavorassero sodo». Davanti a lui c’è Oh Chang-sik, allenatore del Suwon Technical High School, la squadretta dove il centrale del Napoli ha iniziato a giocare. Un tipo silenzioso, burbero, con un passato da calciatore interrotto da un brutto infortunio. «Dopo quella chiacchierata osservai attentamente il gruppo per una settimana, e capii: non erano i compagni a essere svogliati o pigri, ma Kim a pretendere troppo da loro. Era di un livello più alto».
Corse in collina
Mister Oh, come lo chiamano in Corea del Sud, ha allenato Kim tra i 16 e i 18 anni, e quando gli chiediamo un primo ricordo tira fuori una frase inaspettata: «Il ragazzo più disperato mai visto». Ovvero? «Il suo obiettivo era far star bene la famiglia e diventare calciatore. Era ossessionato dall’allenamento, dal migliorarsi e dal successo, per questo venne in un ufficio a parlarmi della squadra. Pretendeva molto dagli altri, ma soprattutto da se stesso». Quindi Mister Oh lo sprona a pensare al suo percorso, perché tanto l’occasione sarebbe arrivata: «Andava a correre sulle colline vicino casa. Quando l’ho visto per la prima volta era alto e magro, con due spalle tutt’altro che larghe. In più non era un centrale veloce come oggi, sul lungo faceva fatica, così gli consigliai di lavorare su passi brevi e stretti, la cosa più importante». Come fanno i centometristi.
La prima delusione
Mr Oh tirava i suoi ragazzi giù dal letto alle 5 di mattina. Allenamento all’alba come Rocky, giri di campo e resistenza: «La sfida era controllare il pallone quasi al buio, lanciarlo in area e stopparlo. Kim era sempre in prima linea, ogni volta che faceva un errore pretendeva che lo sgridassi. Correre in collina gli ha fatto bene, era migliorato, così iniziai a schierarlo con regolarità. Nel 2014, dopo alcuni match di livello, venne a visionarlo uno scout internazionale di una grande squadra. Kim aveva 18 anni ed era all’ultimo anno delle superiori». Lieto fine? «Macché, giocò così male che alla fine presero un altro ragazzo. Kim fu snobbato perfino dalla nazionale Under 19. Non riuscivamo a capire come mai».
«Mi ricorda Sergio Ramos»
Calma. Pazienza. Kim tiene botta e resta al Sowun. La sua fortuna: «Era un po’ confuso, spaesato, deluso, ma alla fine vincemmo il campionato U18 e lui vinse il premio di miglior difensore del torneo. Ha saputo trasformare un fallimento in qualcosa di nuovo. Il suo più grande talento è la motivazione. È sicuro di sé, ambizioso, va dritto per la sua strada. La testa fa la differenza. Mi ha sempre ricordato Sergio Ramos». Del resto si svegliava all’alba e andava a correre in collina da solo, a testa bassa, pensando solo all’obiettivo: «Quando aveva 17 anni gli allenatori delle giovanili coreane lo snobbavano. Pensano non fosse abbastanza bravo. Lo guardassero oggi, in Serie A». Con due spalle larghe così.
Si ringrazia Kim Jung-Yong di Footballist per l’aiuto