Si comincia sempre da lì. Dai 15 minuti prima del match.
Finisce il riscaldamento e si rientra tutti insieme negli spogliatoi, per cercare di chiuderci a riccio e lasciare fuori tutto il resto. Le sensazioni sono elettriche, impossibile stabilire se siano buone o avverse, ormai sono anni che vivo queste emozioni senza riuscire a decifrarle.
C’è il mio compagno più teso che si allontana nella sala della doccia, stira i muscoli ad occhi chiusi e ripensa agli schemi, ai movimenti provati e riprovati, mette insieme tutta la forza che raccoglie dagli angoli più lontani del proprio fisico e della propria mente per scagliarla contro l’avversario.
C’è il guerriero di centrocampo che si sciacqua la faccia con l’acqua gelata, e poco importa se fuori fa ancora un maledetto freddo, di quelli che penetrano sotto la maglietta umida e pinzano i fianchi. Si allaccia con vigore gli scarpini, lega ben stretti i parastinchi e butta fuori l’aria dai polmoni con un respiro profondo. Oggi è un bel giorno per soffrire.
E poi ci sono io. Guardo e riguardo la mia n.9 prima di indossarla. Pulita, candida, semplicemente bellissima. Chissà se anche oggi si sporcherà di sangue. Sicuramente si sporcherà di terra. La infilo e osservo il mio volto allo specchio, passandomi una mano tra i capelli. Oggi si combatte tutti insieme, ma arriverà il momento in cui i miei compagni mi chiederanno di risolverla, di dare un senso ai litri di sudore versati.
In quell’istante, sarò da solo. Se andrà bene verranno tutti ad abbracciarmi. Se andrà storta, partirà qualche maledizione. Questo è il destino che ho scelto, il destino del n.9.
Si va in scena.