In occasione dell’uscita del suo nuovo libro “L’uomo nero“, l’ex arbitro Claudio Gavillucci ha rilasciato una lunga intervista a OneFootball, in cui ha raccontato la fine del suo rapporto con l‘AIA, l’associazione italiana arbitri. Gavilucci ha arbitrato in Serie fino al 13 maggio 2018, quando, in occasione di Sampdoria-Napoli, ha scelto di interrompere la partita per cori di discriminazione territoriale, per la prima volta nella storia del nostro campionato. Qualche giorno dopo l’AIA lo ha dismesso. Come riportato dal network internazionale, non esiste connessione ufficiale riconosciuta tra la sfida di Genova e l’esclusione, ma il processo che si è sviluppato in seguito ha reso più trasparente l’AIA. Gavillucci, però, non ha mai più diretto in A.
ARBITRO – «È un atleta, come lo sono i calciatori, il cui compito è garantire il rispetto delle regole e favorire la miglior espressione di calcio possibile. L’idea è un’unione d’intenti in cui calciatori, allenatori, club e direttori di gara remino nella stessa direzione: una sorta di sinergia che qui in Inghilterra vivo quotidianamente. Un esempio? La mia prima partita qui. La squadra di casa mi contatta prima della gara: come organizzi la trasferta Claudio? Cosa vuoi mangiare nel terzo tempo? Così giro la mail al mio designatore che mi dice di rispondere, ma rimango stupito: non pensavo si potessero avere contatti prima della gara. In Italia, non è esattamente così. Oppure a fine novembre, quando mi venne chiesta la disponibilità per cambiare l’orario di una partita che avrei dovuto dirigere: in Italia, una scelta del genere riguarda l’arbitro soltanto di riflesso, ovvero a decisione presa».
MIGLIORAMENTI – «È necessario sia scindere la politica dallo sport, sia distinguere professionismo dal dilettantismo. Questo sviluppo nasce dalla concezione di calcio come azienda, in cui gli arbitri siano considerati professionisti: è assurdo che, all’ interno di un campo di Serie A, vi siano tutte figure professioniste, a sola esclusione dei direttori di gara».
SACRIFICI – «Ogni lavoro li richiede per raggiungere il vertice, ma esiste una differenza sostanziale: l’arbitro è estremamente precario, anche e soprattutto quando raggiunge l’apice. L’arbitro non riceve né un’adeguata remunerazione economica né l’esatta garanzia contrattuale. L’arbitro è un giudice del calcio e un ruolo così particolare necessita di maggior serenità. Se un arbitro sbaglia, la domenica successiva non arbitra e perde immediatamente denaro. E, a fine stagione, rischia di chiudere, venendo rimandato definitivamente alle categorie da cui ha cominciato. Eppure la storia è piena di calciatori che hanno avuto 6 mesi storti, un anno sottotono e si sono poi riscattati. Chi è atleta sa che una fase di buio può arrivare in una carriera: all’arbitro, questo, non è concesso, e basta troppo poco per veder sfumare 20 anni di sacrifici. Quando è capitato a me, Nicchi mi disse che l’arbitraggio era un hobby: la mia battaglia legale comincia dall’obiettivo di cambiare questa percezione degli arbitri. Nessuno deve più permettersi di dire che arbitrare a questi livelli sia un hobby».
PSICOLOGIA – «Sono stato promotore, insieme al compianto Stefano Farina, di un percorso per sviluppare ed allenare la mente e la psicologia dell’arbitro. Portai personalmente a Coverciano un mental coach, ma a Nicchi non piaceva l’idea e non venne mai ufficializzato dall’AIA, sempre chiusa a nuove idee. Ciò nonostante alcuni colleghi come Mariani, Valeri e Maresca hanno seguito le mie orme, ed hanno iniziato questo percorso autonomamente: lo scopo è lavorare su aspetti come la comunicazione, la gestione dello stress, delle emozioni, oltre che delle proteste. Sono tutti fattori fondamentali per una miglior prestazione, ma anche per una miglior immagine della figura dell’arbitro: per esempio un arbitro che gesticola non dà serenità».
VAR – «Quel che l’arbitro fa al VAR noi lo facciamo da anni, a Coverciano, analizzando gli errori nei giorni seguenti alle partite. Il VAR trasla questo processo in campo: quel che veniva metabolizzato dall’arbitro in una settimana, oggi deve essere digerito in pochi secondi. L’arbitro è stato forgiato con l’intento di superare la partita ed auto valutarsi successivamente: era già complicato ammettere l’errore davanti al designatore, figurarsi ora. Sul campo. Immediatamente. Questa componente non viene considerata abbastanza. Ci si limita a dire che evitare un errore per l’arbitro sia utilissimo, ma non si considera l’impatto psicologico che questo ha nell’arbitro nel proseguo della gara e in quelle successive. Tutto il processo di “elaborazione del lutto/errore” non viene certo facilitata se chi utilizza il VAR in maniera corretta, viene comunque penalizzato nel voto, come ho scoperto dalla lettura dei referti arbitrali in mio possesso. C’è bisogno di crescere, di valutare questo aspetto. E lo so perché l’ho vissuto. Andare al VAR è di per sé dura, ammettere un errore che incide sulla tua carriera e stipendio ancor più».
CAMBIAMENTI – «Serve fare cultura. Non è niente di così trascendentale. Il primo strumento va dato alle società. Per esempio in Inghilterra, a fine partita, c’è il cosiddetto question time, in cui i manager dei club hanno il diritto di avere risposte su episodi accaduti in campo: questo incontro garantisce innanzitutto uno sfogo “ufficiale” e contribuisce ad una cultura nella comprensione delle decisioni. Il confronto continuo migliora l’intesa tra squadre e classe arbitrale, allontanando anche le polemiche dai media: se si danno spiegazioni ufficiali al termine di ogni match, si interviene anche sulla tendenza di discutere delle questioni arbitrali nelle televisioni. Sui media invece si devono portare fonti ufficiali dell’AIA, come avviene sempre in Inghilterra: ogni lunedì, su Sky Sport un allenatore, un giocatore ed emissario della PGMOL (l’ente arbitrale inglese,ndr), analizzano gli episodi più controversi del weekend dando una versione ufficiale della decisione corretta che sarebbe dovuta essere presa. Da qui si inizia a fare cultura».