Immaginate di essere uno dei 5 migliori difensori centrali della Serie A. Avete appena disputato la miglior stagione della vostra carriera, siete già nel giro della Nazionale brasiliana e la vostra squadra ha tutto per provare a strappare lo scudetto alla Juventus nella stagione successiva. Poi, di colpo, è come se vi sentiste un ex giocatore: «Te lo giuro, ho fatto tutto quello che potevo fare per tornare al mio livello. Ma non ci sono riuscito». Quasi si commuove Leandro Castán mentre ce lo racconta.
Da Jaú al tetto del Sudamerica
Per due anni e poco più, è stato uno degli imprescindibili in casa Roma. Era arrivato nel luglio del 2012 da fresco campione della Libertadores con la sua squadra del cuore, il Corinthians. Il primo grande trionfo nella storia del club brasiliano ottenuto contro una delle regine del Sudamerica, il Boca Juniors: «Battere gli argentini è stato indescrivibile. Io sono della vecchia guardia, per me Brasile-Argentina è una guerra in campo. Vincere la prima Libertadores in casa del Boca è stato qualcosa che fatico ancora oggi a descrivere a parole».
Un traguardo storico, unico e ancora mai replicato dalla squadra di San Paolo. Ma il cammino di Leandro per arrivare fin lì è stato più che tortuoso: «Da dove sono nato, per arrivare, non basta avere qualità. Serve la grinta, il carattere. In Brasile le difficoltà sono tante, credimi». Nel suo viaggio è addirittura passato per la Svezia, all’Helsingborgs. Ma andiamo con ordine. «Non avrei mai immaginato di arrivare a giocare una finale di Libertadores. Ho iniziato sulla strada di casa, a Jaú – una delle città della regione di Sao Paulo – Facevamo un vero e proprio campionato in cui tutti i quartieri della città si sfidavano». Poi Leandro si ferma: «Se ci ripenso, ho i brividi. Di tutti quei ragazzi cresciuti lì, nessuno ce l’ha fatta a parte me. Quando arrivi ad alti livelli, tutti dicono: ‘Ah che bella vita che fai!’, ma nessuno è cresciuto a Jaú con me, nessuno ha visto i sacrifici che ci sono stati dietro».
Per Leandro il pallone è sempre stata l’unica strada percorribile. Tradizione di famiglia. Suo padre ha giocato in tante piccole squadre a Jaú e nelle città vicine: «Non ha mai guadagnato granché. Io e mio fratello lo abbiamo sempre accompagnato in campo. Sul polpaccio ho il tatuaggio di una foto scattata in campo durante la sua partita d’addio». Una famiglia di calciatori, anzi di difensori: «Fino a quando non ho iniziato a vincere i primi trofei diceva sempre a me e a mio fratello, ‘Qua dentro sono io il più forte’. Per fortuna poi si è convinto… anche se alla fine, sarebbe stato meglio avere almeno un attaccante in famiglia. Nessuno di noi è diventato ricco davvero – dice ridendo Castán – perché nessuno ha mai fatto tanti gol».
Quando il papà si ritira, Leandro ha 10 anni. Il calcio riempie le sue giornate fino ai 16 anni: «Poi sono iniziati i problemi e le pressioni. Non avevamo soldi. Mio padre dopo aver smesso di giocare lavorava tutti i giorni dalle 6 alle 24. Mi bruciava il cuore». La carriera di Leandro è ricca di coincidenze, ricordatevelo, perché questo leitmotiv ritornerà. «Una mattina lo chiamo: ‘Voglio iniziare a lavorare per aiutarti con le spese’. E lui: ‘E il pallone?’. ‘Se deve succedere, succederà’». Nel pomeriggio il padre riceve una telefonata: «Porta Leandro, lo vuole l’Atletico Mineiro». Coincidenze appunto, per chi da quel giorno, a 16 anni, lascia casa, valigia in mano, per poi tornarci solo da calciatore affermato.
«Ok, ce l’ho fatta»: Roma e quel 26 maggio
Il viaggio di Castán è tutto molto veloce. All’Atletico Mineiro, a 700 km da casa, arriva a 16 anni. Dopo 3 mesi è capitano della Primavera e a 18 anni è già in pianta stabile in Prima Squadra: «Non avevo idea del futuro. Solo una cosa era chiara: ‘Voglio aiutare i miei’». A 20 anni vola in Svezia e segna anche il suo primo gol in Coppa UEFA. Il richiamo di casa è però troppo forte: «Quando mi vuole il Corinthians, mi sono detto: ‘Ok, ce l’ho fatta’. Quello è stato il primo momento in cui ho capito di poter avere una grande carriera. È stata come una sveglia». Tra il 2011 e il 2012 Castán vince prima il campionato brasiliano e poi la Libertadores. Il preludio del suo trasferimento in Europa, alla Roma.
«Cosa ho provato appena ho saputo della Roma? Mi sono sentito una pressione sopra le spalle… ma ero pronto a tutto. Però dai, il primo pensiero in realtà è stato: ‘O mio Dio, giocherò con Totti’». Il primo anno in giallorosso è complicato: la squadra è nelle mani di Zeman, che non rinuncia mai al suo 4-3-3 a trazione offensiva e la difesa prende più di qualche imbarcata. A febbraio viene esonerato e la panchina viene affidata al traghettatore Andreazzoli. Quell’anno Castán segna anche un gol, nel 4-2 alla Fiorentina in una delle migliori prestazioni di quella Roma. La stagione, però, termina nel peggiore dei modi in quel 26 maggio 2013 che è rimasto scalfito nella memoria collettiva di tutta la capitale. Giallorossa o biancoceleste che sia.
«Ancora oggi non ho capito perché abbiamo perso quella finale di Coppa Italia. Non avevamo una squadra fortissima, ma loro erano peggio di noi. Io arrivavo da due anni con 2 titoli. Per me era chiaro che avrei vinto anche quella finale. Non è che giocammo male, non giocammo proprio». Il sogno giallorosso di vincere la decima Coppa Italia si infrange contro il gol di Lulic al 71’. «Ricordo che nello spogliatoio nessuno parlava. Io ho buttato la medaglia del 2° posto. Una stupidaggine. Se tornassi indietro, non lo rifarei… ma ero davvero troppo incazzato».
Uomini di Trigoria
A portarlo a Roma nel luglio dell’anno prima era stato Walter Sabatini, da sempre suo estimatore. Nei primi giorni a Trigoria, per proteggerlo dall’ondata di scetticismo, il ds sentenzia: «Perché Piqué che ha disputato una finale di Champions League ed è ritenuto uno dei migliori centrali al mondo e Castán che ha vinto la Libertadores non dovrebbe esserlo?». Per Leandro è come fosse un secondo padre, la figura che più gli è stata accanto nel momento più complicato della sua vita. Ci arriveremo.
Dopo la delusione della Coppa Italia, a Roma arriva Rudi Garcia, che a Lille aveva vinto Coppa nazionale e Ligue 1: «Rudi ha davvero cambiato la Roma. Pensavo che almeno uno scudetto lo vincesse…». Già, la stagione 2013/14 è quelle delle 10 vittorie nelle prime 10 gare di Serie A e degli 85 punti in classifica, che però non bastano a vincere il titolo. La Juventus ne fa 102, altro passo. Con Garcia, però, Castán si consacra. Accanto a lui, Sabatini gli piazza in estate Benatia: «È stato il compagno di difesa più forte. In allenamento Garcia urlava alla squadra: ‘Perché avete paura di giocare la palla? Giocatela, giocatela. Tanto dietro abbiamo Castán e Benatia’. Non aver vinto nulla quell’anno è uno dei più grandi rammarichi della mia carriera. A fine stagione credevo che lì avrei fatto il salto che per arrivare davvero al top…». La stagione 2013/14, quella prima dell’operazione, Leandro è tra i migliori in Italia nel suo ruolo. Ci racconta che a fine campionato, mentre è in volo per tornare in Brasile, riceve un messaggio da parte di De Rossi: «Voglio solo farti i complimenti. Hai fatto una stagione pazzesca. Sei uno dei più forti di sempre con cui abbia mai giocato», quasi si commuove mentre lo ricorda. «Sai sentirselo dire da Daniele De Rossi fa un certo effetto. Se mi dicessi un esempio da seguire ti direi: ‘De Rossi’. Quando parlava, i miei occhi brillavano. De Rossi era il braccio destro di Totti. A lui neanche serviva parlare, bastava lo sguardo. Erano la coppia perfetta… anche perché se in una squadra hai solo un leader è un bel casino. Sono partito per le vacanze con l’ambizione di tornare ancora più forte».
E invece no. Da quella stagione, nella carriera di Castán ci sarà un prima e un dopo.
L’inizio della fine
13 settembre 2014. Al Castellani di Empoli, la Roma gioca la 2a partita della sua stagione. Il mercoledì dopo ci sarà il ritorno in Champions League contro il CSKA Mosca. Nella trasferta in Toscana, Castán è uno dei due centrali, come sempre. Esce all’intervallo, per la sorpresa di tutti i tifosi: «Un cambio precauzionale, visto l’impegno di Champions», diranno. E invece no.
«Fino all’ingresso in campo per me era stato tutto normale. Anzi, prima della partita – proprio per la sfida in UCL del mercoledì – Garcia mi fa: ‘Leandro vuoi giocare? Perché poi mi servi per il CSKA’. ‘Vai tranquillo mister’. Poi mi ricordo che nei primi 5 minuti di partita, mi vengono i crampi alla gamba. Maicon mi guarda e capisce subito che avevo qualcosa di diverso». Sul finale del primo tempo la Roma segna grazie all’autogol di Sepe, ma l’aria è pesante. «Al rientro negli spogliatoi Maicon fa a Garcia: ‘Mister, togli Castan. Gli fa male la gamba’. E io: ‘Oh, ma che dici? Sto bene, gioco’. Allora Rudi mi fa: ‘Leandro che hai?’. ‘Niente’. E Maicon: ‘Toglilo, fidati’. Da lì, non rientro in campo per un anno».
Ma non è finita lì. «Il peggio fu il giorno dopo. Mi sveglio e non mi reggo in piedi. La testa mi girava fortissimo, pensavo di morire in quegli istanti. Non riuscivo a fare niente». I medici della Roma non riescono a comprendere l’entità del problema di Castán: vertigini? labirintite? Non si trova una soluzione. «Per 15 giorni sono rimasto così, senza capire cosa mi stesse accadendo. Avevo giramenti di testa e poi vomitavo, vomitavo, vomitavo. In due settimane ho perso 15 chili. Mi dicevo: ‘Sto morendo’. Non pensavo al rientro in campo, ma solo al restare vivo. Lì ad Empoli, è finita la mia carriera. Si sono spenti tutti miei sogni: giocare un Mondiale, vincere uno scudetto, fine. Magari sarei rimasto a Roma fino ad oggi. Invece no, è cambiato tutto da un giorno all’altro». A quella fase di incertezza, dopo circa 3 settimane, viene dato un nome: cavernoma cerebrale, un tumore benigno al cervello.
«Questo non l’ho mai raccontato. Una volta mi sono detto: ‘Basta, non ne parlo più’. Poi un mio amico mi ha fatto ragionare: ‘Leandro devi parlarne, sempre. Questa è la tua storia, ma soprattutto puoi aiutare chi è in difficoltà, dare un insegnamento’». Dalla trasferta di Empoli la carriera di Castán, ormai lanciatissimo ed entrato anche nel giro della Nazionale già dal 2012, si ferma. Come detto prima, la sua storia è ricca di coincidenze. Il 3 dicembre 2014 gli viene detto di operarsi. Lo stesso giorno, la moglie gli annuncia di essere incinta di una bambina. Quasi uno scherzo del destino.
In quel momento, ancora una volta, torna la figura di Walter Sabatini, il primo a credere in lui due anni prima prelevandolo dal Brasile: «Qualsiasi persona avrebbe pensato ai soldi in quel momento e mi avrebbe mandato via, anche perché io non volevo operarmi. Lui no. Come me l’hanno detto, pensavo: ‘Ok, io non mi opero, smetto e torno in Brasile’. Sono anche andato a Trigoria per rescindere il contratto. Entro e trovo Sabatini, che mi fa: ‘Senti, fino a quando sono qua, tu resti il centrale della Roma. Prenditi il tempo che vuoi. Non vuoi più giocare? Va bene, sono d’accordo con te, ma pensaci’. Mi emoziono ancora oggi a parlarne». Dopo due settimane di riflessione, Leandro prende la decisione di operarsi, convinto dai medici: «Hai 26 anni, operati per togliere il problema dalla tua vita. Smetti di giocare? Ok, ma il tumore al cervello resta».
Lì, ci ha raccontato, è sorto però il problema più grande: il lato psicologico, il lato fisico, la totale confusione in cui è entrato: «Non sono stato più lo stesso. Te lo giuro, ho fatto tutto quello che potevo fare per tornare al mio livello. Ma non ci sono riuscito. So che non potevo fare di più, e ora sono tranquillo, non ho rimorsi». Vedersi diagnosticare un tumore al cervello a 28 anni è una cosa che si fa fatica anche soltanto ad immaginare. Figuriamoci, a provare.
Leandro entra in un tunnel di paura, sofferenza, di nottate trascorse fissando le pareti della camera con il timore di non poter più mettere piede in campo. O, forse peggio – come ci ha detto lui – di non poter tornare al suo livello. Il periodo del recupero, infatti, è altrettanto complicato: «Litigavo con tutti. Volevo capire di chi fosse la colpa del perché non riuscissi a tornare al mio livello. Mi incazzavo, ma alla fine non era colpa di nessuno. Quando ti aprono la testa è normale perdere velocità, agilità, equilibrio. Non era facile neanche stare con i miei compagni. Vedevo che in allenamento avevano pena per me. Lo leggevo nei loro occhi, era come se tutti pensassero ‘povero ragazzo’. E io mi sentivo male, soffrivo tantissimo. Ma poi mi guardo indietro e penso: ‘Cazzo, era difficile anche per loro. Se anch’io avessi avuto un compagno in quelle situazioni, avrei fatto lo stesso’».
L’ufficio di Spalletti
Quando Castán torna in campo, la Roma è cambiata molto. Nella stagione 15/16 gioca 3 partite fino a gennaio, quando sulla panchina giallorossa non siederà più Rudi Garcia, ma Luciano Spalletti, chiamato a risollevare le sorti di una squadra che fatica in campionato ed è stata eliminata agli ottavi di Coppa Italia dallo Spezia. Castán è sulla via del recupero e nei primi giorni il tecnico di Certaldo lo chiama in ufficio per un botta e risposta molto rapido: «Leandro, senti ho bisogno che torni ad essere il migliore difensore della Serie A. Come devo fare?». E lui: «Mister, ho bisogno di giocare. Prima ne facevo 35 su 38, ora al massimo 3-4». «Non ci sono problemi, ti metto in campo. Sei pronto già per il Verona?». Castán risponde: «Sì, però ho bisogno di un po’ di partite. Devo ritrovare il ritmo». «Tranquillo, ci penso io».
Castán fa l’esordio ufficiale nella nuova Roma di Spalletti contro l’Hellas Verona. La prestazione è un disastro: «Giocai malissimo, ma veramente. Forse la partita peggiore della mia carriera. Pareggiamo 1-1 e procuro un rigore. Il giorno dopo, Spalletti mi richiama nel suo ufficio. Entro, era lì al pc. Neanche mi siedo e mi fa: ‘Senti, la partita di ieri è stata un disastro’. Gira lo schermo e c’erano 3-4 squadre di Serie B: ‘Il tuo livello è questo, non puoi giocare alla Roma’. Mi è crollato tutto. Gli rispondo: ‘Allora me ne torno in Brasile’. E lui: ‘Fa’ come vuoi, qua sicuro non giochi più».
La rinascita con Mihajlović
In quella stagione Castán effettivamente non metterà più piede in campo. Ancora una volta. Arriva l’estate e mentre Leandro aspetta l’apertura del calciomercato: «Mi convoca Sabatini in ufficio: ‘Leandro, vai in prestito. Non riesco più a vederti un’altra stagione in panchina. Mi fa male il cuore. E io so che puoi ancora giocare’. Io ero scettico, volevo tornare in Brasile, ma Sabatini mi dà 4 opzioni, tra cui la Samp di Montella e il Toro di Mihajlović». Il brasiliano si trasferisce a Genova, ma nel frattempo l’Aeroplanino è passato al Milan e in blucerchiato è arrivato Giampaolo. Neanche un mese e saluta la Samp: «Ho capito subito che non c’era intesa tra di noi. Ho preso la mia valigia e mi sono messo alla guida verso Roma. Il mio procuratore è letteralmente impazzito, ma non m’importava. Avevo detto basta. Poi, proprio mentre ero in strada, mi chiama Mihajlović: ‘Leandro, ti voglio qui. Con me giochi’. Sono rinato, davvero. Sarei rimasto a Roma, ma ho scelto di trasferirmi solo per un motivo. Dimostrare a Spalletti una cosa: ‘Hai sbagliato’.
Al Toro i primi 6 mesi furono bellissimi. Mihajlović spingeva anche per comprarmi a titolo definitivo. Vincemmo anche 3-1 contro la Roma. Ad ogni nostro gol, fissavo Spalletti: ‘Vedi, sono io quello che scarso? E allora perché ti ho battuto?’. Sentivo davvero di poter tornare al mio livello. Poi tornarono i guai fisici: avevo continui problemi alla gamba. Avevo voglia di spaccare il mondo, ma il mio corpo non rispondeva». L’incontro con il serbo è stato molto più di una mera questione di campo. Se Sabatini è il suo padre calcistico, Mihajlović si avvicina molto alla figura di un fratello maggiore: «Come lui ha visto che iniziavo ad aver problemi, mi ha portato dai suoi medici. Le ha provate tutte. Gliene sarò per sempre grato. Con me Mihajlović è stato speciale: alla fine di ogni allenamento, mi insegnava come calciare il pallone. Dopo l’operazione, infatti, per me era come se dovessi imparare di nuovo a calciare. Facevamo di tutto: passaggi, cambi di gioco, sinistro, destro. Prima lo facevo con maestria, mi piaceva impostare, tenere la palla. Dal cavernoma ho praticamente dovuto rimparare i movimenti. E lui, comunque, ogni giorno mi prendeva con sé, si metteva lì e passavamo le ore insieme. Questo è l’uomo che è stato Mihajlović, non so quanti altri allenatori avrebbero fatto lo stesso».
Rientrato dal prestito al Torino, Castán starà alla Roma fino al 2018, prima di tornare a casa sua in Brasile dove ha definitivamente appeso le scarpette al chiodo lo scorso luglio: «Se mi guardo indietro non è che abbia rimpianti, però un po’ di amaro in bocca. Per non aver più giocato con la Roma e per non aver disputato neanche un Mondiale col Brasile. Sono arrivato in Nazionale e so che sarei potuto rimanere se non avessi avuto quel problema. Che poi forse ho sbagliato anch’io i tempi del rientro, ma ero come un bambino, volevo troppo tornare. Sognavo di vincere lo scudetto con la mia Roma o di andare al Mondiale col Brasile. Che poi a pensarci la mia Roma era piena zeppa di brasiliani: Marquinho, Dodo, Maicon, Marquinhos, Bastos, Taddei.
Pochi giorni fa un mio amico italiano mi ha chiamato: ‘Leandro, ma sai che manca un po’ a questa Roma? Qualche brasiliano… sono sempre tutti tristi. Serve qualche matto, tipo uno come Maicon’. Aveva ragione, un po’ di allegria sudamericana serve sempre nello spogliatoio». La stessa con cui Castán ci ha raccontato la sua vita e la sua carriera, in un intreccio di coincidenze che lo ha portato ad assaporare, in brevissimo tempo, il calcio in una realtà viscerale come Roma e la paura di morire: «Il calcio è l’amore della mia vita. Gli ho dato tutto, per questo mi vedo sempre più lontano da lui. Non ho la forza per rifare tutta la strada di nuovo».