Leonardo Semplici ha iniziato ad allenare in Eccellenza ed è arrivato a sconfiggere Milan e Juventus in Serie A. Nel corso della sua carriera ha plasmato due gioielli: il primo è stato il Figline, preso in sesta serie e portato fino alla ribalta della Serie C; il secondo è la SPAL, che a suon di promozioni si è salvata due volte in A tra talenti sfornati e ribalta nazionale.
«Il passaggio in panchina dal campo è nato casualmente – ci ha raccontato, ospite di Cronache nei nostri Studios – perché non pensavo di avere il carattere e le caratteristiche per fare il tecnico, nonostante in campo fossi uno di una buona personalità, che era abituato a guidare la squadra: prima da centrocampista, poi da difensore centrale», in una carriera da calciatore trascorsa tra i dilettanti. «Si cominciava a giocare la linea di difesa a zona, di conseguenza ero quello che trasferiva l’idea dell’allenatore sul campo. L’allora presidente del Sangimignano quasi mi obbligò a provare a fare questo mestiere. Mi disse: ‘Guarda, ma te l’ha sempre fatto sul campo, lo puoi fare anche in panchina’, per fortuna gli ho dato retta!», e da quel momento c’è stata la svolta che ha caratterizzato la sua evoluzione.
Da quell’esperienza inizia il suo percorso, «sicuramente impensabile in quel momento». Ma la storia è subito in discesa: «Già al primo anno vincemmo subito l’Eccellenza e questo mi dette tanta, tanta fiducia e la voglia di provare a fare un certo tipo di percorso. Chiaramente, in quel momento oltre ad allenare, lavoravo, principalmente come agente di commercio e ho continuato per anni a farlo». Grazie alla passione e alla fortuna «sono riuscito a fare un percorso straordinario levandomi tante soddisfazioni, arrivando a vincere in ogni categoria in cui ho allenato, dall’Eccellenza fino alla promozione in A. Ne vado orgoglioso».
L’incontro con Maurizio Sarri, dalla banca alla Serie A
Mentre lavora come agente di commercio, il calcio rimane il fattore che lo muove. Tra un appuntamento e l’altro, si organizza per guardare allenamenti e partite in zona. Conosce un altro allenatore che tra i dilettanti stava facendo bene, Maurizio Sarri: «La prima volta che l’ho incontrato, ero un agente di commercio e lui lavorava ancora in banca. Era il 1992, nella sede della Banca Toscana, e ci conoscemmo. A quei tempi io giocavo nei dilettanti, lui allenava nella stessa categoria. Anni dopo, per lavoro, dovevo girare in alcune zone vicine a dove viveva lui, ci incontrammo in un bar davanti alla sua residenza e mi invitò a entrare in casa. Viveva in questa mansarda dove già aveva un computer e, mi ricordo, lui praticamente aveva delle schede dove aveva segnato tutte le caratteristiche dei calciatori che aveva affrontato. Questo mi fece molto effetto perché, insomma, capivo la passione che che aveva, nonostante allenasse in categorie dilettantistiche».
Si sono incontrati in Serie A, oltre un decennio più tardi. «Ritrovarlo poi nelle categorie più alte – ha proseguito nel racconto – è stato un aspetto importante. Affrontarlo nella massima serie è stato un punto fondamentale di un cammino straordinario e quindi mi ha fatto molto piacere. Emozionante ritrovarlo a livelli così importanti. Quest’estate sono stato anche a vedere il loro ritiro, abbiamo un buon rapporto, quindi mi è sempre piaciuto seguirlo. Secondo me ha delle buone idee, come anche altri colleghi. Ho cercato sempre di apprendere da tutti, per poi cercare di fare mie alcune delle loro idee e trasferirle nel mio gioco in maniera giusta», soddisfazioni.
Tra la panchina di Spalletti e i complimenti di Mourinho
Grazie alle meraviglie con Figline e SPAL, ha vinto la panchina d’argento di Seconda Divisione, la panchina d’oro di Lega Pro e anche la panchina d’argento. Nel 2009 trionfò e il primo a complimentarsi con lui fu… José Mourinho, che di lì a poco avrebbe vinto il Triplete e che era totalmente in hype: «Ero un semisconosciuto e mi destò sorpresa. Uno come Mou che viene a fare i complimenti a uno che non conosceva nessuno? Lui che era al top in quel momento? È stata una cosa che mi ha sorpreso in maniera piacevole. La ricordo molto bene». Non solo Mou, ma anche Luciano Spalletti: «Ho un grande piacere che un toscano sia arrivato sulla panchina della Nazionale. Quando ero al primo anno con la SPAL in Serie A, alla prima riunione con gli arbitri a cui partecipai, entrai in punta di piedi e mi misi in disparte. Con Luciano ci conosciamo da tanto, mi disse: ‘Avvicinati, vieni qui, te lo sei guadagnato!’». Mi ha fatto entrare in questo mondo». Il fatto che sia arrivato in Nazionale lo inorgoglisce: «Il coronamento di una carriera eccellente, specialmente dopo lo scudetto di Napoli. Ha il carisma, la personalità, per vivere nella giusta maniera questa esperienza e possa portare le sue qualità a servizio della Nazionale».
Il Figline, dall’Eccellenza alla Serie C1
La grande scalata con il Figline nasce senza premeditazione. Frutto del lavoro, della qualità, di un progetto che nasce e poi muore nel suo momento più alto. «Dopo il campionato di Eccellenza vinto col Sangimignano, mi chiamò l’allora direttore sportivo del Figline: era stato un mio allenatore e l’anno prima era arrivato secondo proprio dietro di noi, facendomi i complimenti. Avevo appena finito il mio primo campionato da allenatore, e avevo subito vinto», ricorda con il sorriso. Poteva allenare in Serie D con la promozione conquistata, invece si mette in gioco: «Loro erano 2 o 3 anni che cercavano di andare in Serie D, a fine telefonata scherzai: ‘Se vuoi un allenatore vincente, sai chi chiamare’». Dopo un’ora mi richiamò e mi chiese se fossi davvero disponibile. Nella mia carriera da calciatore, se si può parlare di carriera, avevo giocato spesso in Serie D, vincendo anche alcuni campionati. Per me allenare in D era, dunque, quasi il completamento del mio percorso, nonostante avessi fatto solo un anno da allenatore. Rinunciarvi per rimanere in Eccellenza col Figline mi fece dubitare un attimo prima di dire sì. Ma alle fine accettai la proposta e fu la mia fortuna perché li trovai una società seria, un presidente con grande disponibilità e dall’Eccellenza riuscimmo a fare un percorso veramente incredibile fino alla Serie C1, vincendo tutti i campionati. È stato lì che ho capito che forse potevo provare a fare qualcosa di più».
A Figline chiuderà la propria carriera Enrico Chiesa, insieme ad altri calciatori di rilievo e calciatori concreti: «In C2 ho allenato Enrico Chiesa e veniva a fare il raccattapalle il figlio Federico. L’ho visto piccolo, e ho avuto la fortuna di allenare il padre. In quegli anni c’era anche Robbiati, c’erano anche altri giocatori meno di grido, ma loro due erano quelli che avevano calcato dei campi importanti, come la Serie A. Mi ricordo una partita dove Enrico fece gol, Federico era dietro la porta; andò abbracciarlo, un bellissimo momento. Il padre è stato un grande giocatore, era a fine carriera e quell’anno… era impensabile che il figlio facesse un così bel percorso, era ancora un bambino».
Alla Fiorentina, l’approccio al gruppo e il reality su MTV
Dopo il fallimento del Figline, le esperienze ad Arezzo e Pisa, per Semplici arriva la chiamata della Fiorentina: vuole affidargli la Primavera. Dall’altra parte del telefono c’è Pantaleo Corvino, che lo vuole fortemente: «Fu molto particolare, perché ogni anno la prima amichevole che la Fiorentina faceva appena rientrava dal ritiro era contro il Figline e noi tutti gli anni, miglioravamo: prima Eccellenza, poi Serie D, poi C2 e a Corvino, che era il ds dei viola, erano rimaste in mente queste prestazioni». A distanza di pochi anni «si ricordò di me e mi diede l’opportunità di allenare la Primavera, quindi lo devo ringraziare perché è stata un’esperienza straordinaria, professionalmente mi è servita molto e molte cose che ho imparato lì, le ho riportate poi con i più grandi».
La gestione del gruppo con cui oggi Semplici nutre le proprie squadre, è nata al campo delle Caldine dove i ragazzi della Fiorentina si allenavano: «Prima di allora, come tanti allenatori ero molto concentrato e attento su quei 12/13 calciatori su cui puntavo di più. In Primavera, invece, spesso il giovedì o il venerdì i più promettenti salgono in Prima Squadra, che è l’obiettivo finale del lavoro all’interno di un settore giovanile. Dunque, ho imparato ad adattarmi e spesso preparavo la partita con un undici titolare, salvo poi trovarmi 4 defezioni. In quei momenti ho capito l’importanza della gestione di tutti i calciatori della rosa, come farli sentire partecipi e tutti pronti. Questo mi ha insegnato l’importanza di tenere in considerazione veramente tutti. È chiaro che poi ci sono i titolari da 20, da 30 o da 5 partite, ho capito quanto sia fondamentale spendere del tempo dietro a tutti e di farli sentirli tutti importanti, perché durante la stagione poi ha bisogno che tutta la rosa sia pronta».
Quella Fiorentina Primavera è passata alla storia fuori dal campo. Divenne infatti protagonista del reality show ‘Calciatori Giovani Speranze’, in onda su MTV. Fu una rivoluzione nei primi anni Duemiladieci, con uno share enorme e una popolarità altissima, sia per il programma e sia per i suoi protagonisti. Alcuni giocatori di quella squadra – come Bernardeschi, Capezzi, Venuti o Lezzerini – scelsero di non apparire nella loro vita privata, mentre altri divennero vere e proprie star. A gestire quel gruppo c’era proprio Semplici, che li guidò nella loro seconda stagione (che coincise però con l’uscita della prima, e quindi con il boom): «Ricordo… grandi difficoltà! Quando uscì la prima puntata, giocavamo a Genova contro la Sampdoria. Solitamente, una partita di Primavera attira 200 o 300 spettatori. Quel giorno invece c’erano migliaia di persone: in campo, per il riscaldamento, ci accorgemmo che c’era un pubblico esagerato, erano tutti a chiedere autografi ai protagonisti. Fu un successo straordinario: ci aspettavano fuori dall’albergo per gli autografi. La gestione di certi momenti fu particolare, ma con l’aiuto della società riuscimmo a indirizzare tutto verso quello che era l’obiettivo, ovvero provare a creare calciatori e non uomini immagine. Fu un’esperienza particolare ma positiva: per esempio, eri sempre microfonato e anche durante gli allenamenti, dovevo prestare attenzione a certe dichiarazioni».
Una considerazione anche sul livello della Primavera e per il salto dei giovani tra i professionisti, da lui che ha vissuto entrambe le barricate: «Negli ultimi 10 anni, con la riforma dei campionati giovanili e l’introduzione delle seconde squadre, è migliorata la competitività generale sia nel campionato che in ogni weekend, perché quando allenavo io la Primavera c’erano solo 4 o 5 squadre davvero competitive durante l’anno e poi si faceva esperienza durante le eventuali finali, se ti qualificavi per giocarle. È chiaro che il livello tra la Primavera e la Prima Squadra, specialmente in club importanti come all’epoca poteva essere la Fiorentina, ha un divario grosso e quindi anche le seconde squadre, di cui si parlava già alla mia epoca, sono importanti. Vediamo i risultati della Juventus, ora c’è anche l’Atalanta. Insomma, credo che questa sia una via di mezzo che possa permettere a questi ragazzi di maturare, di migliorare. Perché il campionato di Serie C sicuramente è un torneo dove cominci già a giocare per il risultato e quindi ti forma e ti fa crescere, ti fa migliorare e può essere un trampolino per arrivare tra i grandi».
Il progetto che ha meravigliato l’Italia: la SPAL
La grande scalata che lo ha portato alla ribalta, sui grandi palcoscenici e ad alti livelli, è quella intrapresa tra il 2014 e il 2020 alla guida della SPAL, dopo l’esperienza in viola. Dalla C alla A: «Fantastica… le poche volte che torno a Ferrara, perché mi fa uno strano effetto tornarci, mi batte il cuore». Sono stati 5 anni «impensabili». Quando firma, subentra a stagione in corso e la squadra non sta andando a gonfie vele: «Eravamo a tre punti da play-out, e a fine stagione abbiamo sfiorato i play-off per un punto. L’anno successivo avevamo puntavamo ai play-off e invece abbiamo vinto con 9 punti di vantaggio sulla seconda, nonostante gli scontri diretti persi sia all’andata che al ritorno contro Pisa e Maceratese, la seconda e la terza del campionato». L’inizio del trionfo: «Il campionato seguente, col 18° monte ingaggi della lega, abbiamo vinto la serie B mentre tutti ci davano per retrocessi, quindi è stato un continuo exploit, un meravigliarsi di quello che che facevamo. Il coronamento sono state poi le due salvezze in Serie A, dove ci siamo fatti conoscere al grande pubblico. Abbiamo riportato questa società gloriosa in A dopo 50 anni, grazie ad un insieme di fattori: anche lo stadio, per esempio, quando sono arrivato non era messo tanto bene, poi è diventato un piccolo gioiellino, per merito del lavoro costante della società che è stata lungimirante ed è cresciuta coerentemente con i risultati sportivi in breve tempo. Questo mi ha permesso di diventare conosciuto anche al pubblico della Serie A».
Tra i calciatori valorizzati durante gli anni a Ferrara, quello che più lo inorgoglisce è Manuel Lazzari, partito anche lui dai dilettanti e non un nome di primo livello per la categoria quando si è insediato: «Quando sono arrivato non era nemmeno tra i titolari, addirittura era stato preso un giocatore dal Milan che doveva essere titolare nel suo ruolo. Poi, lavorandoci, vedendo l’impegno, vivendo la voglia di questo ragazzo, si conquistò il posto e da lì è stata una continua evoluzione, grazie alle sue qualità e alle sue doti. È un giocatore che sotto certi aspetti sente un po mio perché siamo cresciuti insieme. Con il passaggio alla Lazio è migliorato ancor di più, tanto da conquistarsi anche la convocazione in Nazionale, e questo mi fa enorme piacere». Tra i pali, alla prima esperienza tra i professionisti è passato anche un giovanissimo Alex Meret: «Prima in B poi in A, noi ci abbiamo sempre creduto. È un ragazzo che per noi aveva grandi mezzi, secondo me un fuoriclasse, e credo lo stia confermando il suo cammino. Anche l’anno scorso a Napoli, dove era stato messo un po’ in discussione, invece è stato bravo a non mollare, a farsi trovare pronto, a vincere lo Scudetto e a conquistare in pianta stabile la nazionale. È equilibratissimo: un grande lavoratore, grande professionista, un giocatore eccellente. Tutto quello che ha fatto è merito del suo carattere».
La gestione dei calciatori e l’esperienza a Cagliari
«Oltre a Meret, ho avuto la fortuna di allenare e far esordire in Serie A anche Vicario», ci dice Semplici. «Era al Cagliari, dove Cragno si era infortunato e alle sue spalle premeva l’attuale portiere del Tottenham: «Lo feci esordire a San Siro contro l’Inter, non un contesto facile anche se in quel momento non c’era il pubblico, ma dimostrò subito di avere grandi capacità e di avere un’ottima personalità, perché quando giochi quelle partite bisogna che sotto l’aspetto caratteriale mentale tu sia pronto, e lui ha dimostrato di esserlo. Con l’Empoli ha fatto un percorso veramente eccellente, dove è cresciuto ancora e si è meritato questo trasferimento in Premier», e l’emozione lo tradisce: «Vedere due giocatori che ho allenato e che che ora fanno parte in pianta stabile della nazionale, mi fa enormemente piacere», chiosa.
Un curioso retroscena è legato al compleanno di Nainggolan: Quando sono arrivato a Cagliari, aleggiavano molte storie particolari intorno a Radja. Sembrava che fosse una continua festa. Invece ho trovato un grande professionista, un grande giocatore e sicuramente uno dei più forti che ho allenato. Un ragazzo di grande disponibilità, di una bontà unica che si è sempre comportato in maniera ottima. Un giorno, per il suo compleanno, festeggiò con i ragazzi della squadra. La mattina seguente, il preparatore atletico mi disse ‘Guardi mister, ieri sera hanno fatto tardi alla festa, meglio se Radja fa differenziato a parte…’, ma nonostante il mio consiglio il calciatore si rifiutava e voleva allenarsi in gruppo, senza favoritismi. Dovetti convincerlo in maniera importante, dicendogli ‘Guarda, meglio se non esageri, rischi di farti male, non voglio pregiudicare il tuo cammino’. Fu determinante in quella stagione».
La salvezza di Cagliari è stata una delle sue emozioni più intense: «Nella mia carriera di allenatore mi sono tolto parecchie soddisfazioni, credo che la salvezza di Cagliari sia stata una di quelle più forti, anche perché al mio arrivo la situazione era piuttosto complicata. Partivamo da un bottino di appena 15 punti in 23 partite, da lì è iniziato un percorso straordinario: siamo riusciti a ribaltare il rendimento nelle restanti 15 gare ottenendo 22 punti, una media quasi da Europa League. Ridisegnammo la fisionomia della squadra e conquistammo la salvezza addirittura con due partite di anticipo. Ricordo che la svolta della nostra stagione arrivò in casa contro il Parma, uno scontro diretto importantissimo per entrambe. Una partita rocambolesca che ci ha sempre visti in svantaggio, tanto che al 90’ eravamo sotto per 3-2 e in pochi minuti l’abbiamo ribaltata per 4-3. Quella vittoria ci diede una spinta emotiva incredibile, la fiducia e l’autostima salirono alle stelle e ci permisero di continuare la nostra corsa salvezza con una maggiore consapevolezza. Di quell’impresa ricordo con piacere l’esordio di Vicario, il contributo di giocatori esperti come Nainggolan, Godín, Pavoletti, Nández. Ma soprattutto mi colpiscono, a distanza di oltre due anni, il grande affetto e la stima immutata che i tifosi del Cagliari mi dimostrano ancora oggi in ogni occasione. Quella credo sia la soddisfazione più grande che mi porto dentro di quell’impresa clamorosa».
Influire sui calciatori passa anche dalla filosofia con cui si approccia al gruppo: «Quando alleni ti devi confrontare quotidianamente. Devi capire chi hai davanti e trovare la chiave di ognuno. Io passo molto tempo insieme ai miei calciatori: cerco di confrontarmi, di parlare non solo di calcio. C’è chi si apre di più, chi di meno, però devi conoscerli, anche con l’aiuto dello staff. Sapere come intervenire, come fargli sentire la fiducia, perché siamo tutti umani. Quando senti la fiducia del tuo allenatore e del tuo staff, sicuramente riesci a tirare fuori il meglio, quindi sotto questo aspetto spendo molto tempo quotidianamente, comprendendo le esigenze e le richieste, anche le loro aspettative». Più sali di categorie, più i ragazzi sono intossicati dalle pressioni: «Sicuramente in un campionato importante come la Serie A, bisogna metterli nelle migliori condizioni di venire al campo, di sapere che c’è un senso di appartenenza positivo e che attraverso le loro prestazioni riescano a esaltare questo senso di appartenenza, con la consapevolezza di trovare un ambiente sereno, sorridente. Nonostante magari anche i risultati non positivi, ci deve essere giusto mix per poter far sì che i ragazzi riescano a esprimersi nel migliore dei modi».
Un esempio pratico di questa concezione è Andrea Petagna, con cui Semplici ha un aneddoto di campo che spiega la filosofia del parlare molto con il proprio gruppo: «Quando è arrivato alla SPAL da una squadra importante come l’Atalanta, lui aveva fatto intravedere buone cose, ma sotto l’aspetto realizzativo aveva qualche difficoltà. A lui piaceva far giocare più di raccordo, nonostante avesse un fisico da prima punta. Dopo i primi allenamenti gli spiegai: ‘Guarda Andrea, se non giochi vicino alla porta e non ci fai almeno 10 gol, non ci salviamo. Qui devi stare dentro l’area’. Questo ha fatto iniziare una collaborazione che sicuramente ha portato a dei benefici in primis a lui e poi a tutti noi, dove fece primo anno 15 gol e il secondo 13. Mi auguro a Cagliari possa ripetersi».
Moduli, filosofie, idee
Abbiamo poi chiesto a Semplici alcuni temi che gli allenatori spesso affrontano in conferenza stampa, come la questione del modulo o il problema di giocare con il calciomercato aperto. Lo abbiamo sottoposto a un test di debunking, facendoci spiegare il suo punto di vista. Partendo dalla tattica: «Quando ho iniziato ad allenare, difendevo a 3. Successivamente sono passato a 4. Davo molta importanza al modulo: a Figline trovai un calciatore con caratteristiche particolari e introdussi il 4-3-1-2, che era vincente in quegli anni. Lo riproposi in altre esperienze, dove però non avevo più alcune caratteristiche a disposizione in precedenza. Capii che senza le pedine giuste, nonostante gli ottimi risultati ottenuti, avrei dovuto adattarmi perché gli stessi concetti non puoi ripeterli a prescindere. Fu un aspetto di grande crescita. Alla fine non è il modulo che conta, ma sono le caratteristiche dei calciatori a disposizione. Un allenatore oggi deve essere flessibile, sapersi adattare. Si lavora di più sui principi, sull’occupazione dello spazio, cosa che prima si faceva molto meno».
Inoltre, Semplici ci ha spiegato le difficoltà per un tecnico che subentra a campionato in corso: «Ultimamente mi sta capitando spesso, che è una situazione molto differente rispetto a quando hai la possibilità di iniziare la stagione. Devi essere concreto, perché quando subentri trovi sempre una situazione particolare. La mia abitudine è quella di dare poche indicazioni, ma giuste. Per provare a cambiare la rotta. Cerco il confronto quotidiano, non solo con i calciatori ma con tutto l’ambiente, dal responsabile del campo ai magazzinieri. fino ai fisioterapisti, perché voglio creare un ambiente positivo che permetta poi ai ragazzi di arrivare al centro sportivo e allenarsi con la giusta professionalità. Coinvolgere tutti quelli che girano intorno alla squadra per creare un ambiente positivo».
C’è poi l’annosa questione delle partite durante il calciomercato, di cui tanti tecnici si lamentano infastiditi. Secondo Semplici, «puoi uscirne penalizzato ma anche con opportunità. A mercato aperto possono arrivare dei giocatori negli ultimi giorni che erano impensabili all’inizio, ma ci sono anche giocatori in procinto di andare via che non rientrano più nel progetto. A mercato chiuso sai già il gruppo col quale lavorerai. Bisogna essere bravi a dare serenità al gruppo in quel frangente per coinvolgere tutti, a prescindere dalle situazioni».
Ma come vive un allenatore il giorno della gara? «Negli anni ho imparato a essere più sereno. Nelle ore precedenti, analizzo se durante la settimana ho preparato dettagliatamente gli aspetti che la squadra dovrà affrontare. È chiaro che nonostante la preparazione, le partite hanno varie sfaccettature: quello su cui lavorare, oggi più di prima, è sui principi dell’occupazione degli spazi, per questo credo ci aiuti molto di più formare giocatori pensanti che riescano a interpretare la gara. Credo che per un allenatore la cosa più difficile sia cambiare durante la sfida. Oggi abbiamo tanti metodi per studiare l’avversario che ci avvantaggiano nella preparazione della partita, diventa quindi importante durante il match cambiare qualche giocatore o qualche interprete che ti possa variare lo schema o il modo di interpretare, un aspetto sempre più importante e più determinante». Inoltre, «per me, il momento cruciale è il post-partita. Quando perdi, devi fare tua la sconfitta. Comprendere e analizzare, farti scivolare addosso qualche critica. Poi, dal martedì, devi ripartire subito con un slancio e con la consapevolezza di dove dover andare a provare, a correggere, a migliorare. Iniziando da me stesso. Sempre perché credo che questo sia l’aspetto più importante di ogni allenatore: mettersi sempre in discussione. Sapere che sempre c’è sempre qualcosa di nuovo, c’è sempre qualcosa da inventare, da studiare, da aggiornare, per migliorare in primis noi stessi, ma soprattutto i nostri calciatori, che poi sono quelli che ci fanno ottenere risultati».
Leonardo Semplici, dai dilettanti ai professionisti fino alla Serie A. Una storia che è ancora aperta, in attesa di una nuova favola.