di Junior W. Messias

 

Troppo forte Mico. Rallenta.

 

E invece acceleravo, sempre di più. La macchina era un rottame, un pezzo di ferro arrugginito che sbuffava ogni volta che spingevo il piede sull’acceleratore. Il volante tirava tutto da una parte, dovevo imprimere forza per mantenere la rotta dritta. Stavo percorrendo una strada sterrata, meno di un chilometro e sarei arrivato all’ingresso della statale. Ero stato al matrimonio di mio fratello ed ero completamente sbronzo, troppo alcol in corpo e zero minuti di sonno. Ho chiuso gli occhi per un istante, uno solo, non me ne sono nemmeno accorto. Poi un tonfo, sono finito fuori strada in mezzo ai campi. Potevo essere morto, ma qualcuno mi ha salvato. Tra poco vi dirò chi mi ha liberato dal fango di quel campo bastardo, ma andiamo con ordine.

 

Adesso chiudo gli occhi di nuovo.

 

Stavolta per aiutarmi a ricordare, nessuna scorribanda notturna, tranquilli.

 

Ci sono la mia bicicletta scassata, le pietre dell’unica strada asfaltata di São Candido, il muro dipinto di rosso fragola che accompagna parte della via che porta al campo. Li vedo e li sento. Non è una data qualunque, è il 7 settembre, il giorno dell’Indipendenza. Ma per noi bambini è soprattutto il giorno del Torneo. Quello del calcio vero. Oggi verranno da tutti i villaggi: chi a bordo del cassone di un camion, chi come noi in bicicletta. Fuori, accalcate neanche un metro di distanza dalla linea di gesso, persone di ogni età. Giornata impegnativa: mi hanno chiesto di giocare con la mia categoria e con le due più grandi. Considerando che ci sono tre partite per categoria, sarà un lungo pomeriggio. Di quelli che piacciono a me, fatti di calcio puro e gente malata, proprio come me. Dai, devo deciderla io. Stop dentro l’area, tunnel a un difensore otto volte più grosso e palla a giro sul secondo palo. «Micooooo!», mi celebravano i miei amici. Mi chiamavano così, Mico, come una scimmietta tipica delle nostre zone, la stessa che ancora una volta li aveva portati alla gloria.

 

Durante un torneo però tradii il mio villaggio: un ragazzo mi offrì 50 real per giocare con la squadra della campagna e io accettai. Ricordo una finale agguerrita contro i miei compagni di sempre, non me l’hanno mai perdonata. Un campetto in terra a 5 km da casa, accanto un bar. Ci riempivamo di polvere a correre scalzi sulla terra, ma neanche per un secondo mi sono vergognato di ciò che eravamo, e poi crescendo i premi diventavano sempre più importanti. Alla fine ti regalavano qualche cassa di birra, ti sedevi ai tavolini e parlavi della vita. Così, come si fa tra amici. Famiglia, donne, impegni, litigi, calcio. Non in questo ordine. Il bello del Brasile è fare festa. Si fa sempre festa.

 

Festa, festa, troppa festa. Tanto che di cazzate nella vita ne ho fatte. Come quella volta al matrimonio di mio fratello, quando qualcuno mi liberò dal fango. È stato Dio a salvarmi. E lì, in quella notte fra le campagne brasiliane mentre stavo perdendo me stesso, ho conosciuto per davvero il Signore. Sono credente, nel modo più vero che esista. Tutto quello che faccio ha un senso e lui mi ha protetto con le sue mani. Per anni prendevo la moto, uscivo, bevevo, e mi perdevo. E ancora Dio a prendersi cura di me.

 

 

 

 

 

Apro gli occhi.

 

Devo stropicciarmeli un po’, sembra un altro ricordo e invece è pura, odierna realtà.

 

Sono negli spogliatoi di uno degli stadi più importanti del mondo. Ho appena giocato contro Cristiano Ronaldo e il gruppo WhatsApp con i miei amici brasiliani ingoia dieci notifiche al secondo. «Guarda Mico con CR7!», «Mico, pazzesco, sei accanto a Chiellini». Si stanno inviando le fotografie della partita che hanno trovato su internet. Anche io devo capire bene ciò che è accaduto. Ho appena visto i più forti al mondo sul mio stesso prato, rincorrendo la mia stessa palla. Anche se ci ho fatto l’abitudine quest’anno alle cose incredibili. Però questo è troppo anche per me: perché sì, ho affrontato i migliori, ma ricevere i loro complimenti è stato qualcosa fuori dalla norma.

 

Fatemi chiudere gli occhi un altro po’.

 

Ricordo quando sono arrivato in Italia. Dite che speravo di diventare un calciatore professionista? Assolutamente no, guardate che ero già abbastanza grande, ero un fuoriquota a tutti gli effetti. A dir la verità pensavo di non essere all’altezza neanche di fare l’Eccellenza. Io il calcio lo amavo, ma non era mai stato un piano per la vita. Era uno svago, uno dei motivi, non il punto d’arrivo del mio tragitto. Fu mio fratello a convincermi a partire. Torino, quartiere ‘Barriera di Milano’. Mille culture, abbastanza opportunità. Lavoravo nel cantiere di un italo-argentino, pulivo i mattoni che i suoi carpentieri staccavano dagli edifici demoliti. Io li rimettevo a nuovo, uno a uno. Mi dava 20 centesimi per ogni mattone tirato a lucido. Ho messo da parte i primi soldi e sono riuscito a restare qui. Non era tanto, ma era abbastanza. Sono rimasto per anni nei cantieri, diventando successivamente muratore. A me piaceva andare a lavorare, non sono uno di quelli che si piange addosso. Credo che il lavoro sia una di quelle cose che ci salva, niente arriva a caso. Quella era ed è l’unica strada.

 

Anche perché aveva anche i suoi pregi. A me piace stare all’aria aperta, cambiare, girare. Non avrei mai potuto fare un lavoro d’ufficio, chiuso e seduto tutto il giorno. Mi piace sporcarmi le mani. In un secondo momento diventai anche fattorino, portavo i pacchi e facevo le consegne di elettrodomestici. Questo lavoro me lo trovarono i miei amici peruviani, che poi erano i miei compagni di squadra nello Sport Wariqe, nel campionato UISP di Torino. Il momento più bello della giornata era quando qualche anziano mi chiedeva di entrare per parlare o prendere un caffè. Non consegnavo solo in città, ma anche nelle zone limitrofe: Chieri, Pino Torinese, tutti posti dove l’età media è più alta. E gli anziani si sa, molto spesso si sentono soli. Un po’ come me, che avevo la famiglia distante e lottavo senza qualcuno che mi abbracciasse la sera sul divano. Capitava di stare anche quaranta minuti nelle case di signori o signore che volevano scambiare quattro chiacchiere, condividere i racconti di quando erano giovani, ascoltare i miei. Questo è quello che facevo in Italia fino a poco tempo fa. Il calcio era solo una passione da coniugare nel tempo libero con il lavoro.

 

È in questo momento che ho aperto gli occhi. Stavolta per davvero.

 

 

 

 

Mi sembrava tutto chiaro, limpido. Non che avessi pianificato il futuro, quello è impossibile farlo. Il futuro mi spaventa, mi fa paura. Mi terrorizza proprio. L’incertezza, la sensazione di poter perdere tutto. Io, ad esempio, ho firmato il primo vero contratto da calciatore durante questa stagione. Non è che sono milionario. Ho 30 anni e fortunatamente sono arrivato in Serie B poco prima della pandemia. Un anno di ritardo e staremmo raccontando un’altra storia. Ci sono persone che non hanno più niente, ecco io non ci sono andato così lontano. Ma ormai lo sapete, io al caso non credo.

 

Ebbene sì, siamo arrivati al momento in cui ho capito tutto.

 

Volevo smettere di giocare a calcio. Mi fa effetto scriverlo adesso. Misi la mia storia nelle mani di Dio. Ero seduto con il pastore della Chiesa che frequentavo: «Voglio dire basta, ma voglio che sia il Signore a darmi un segnale. Non voglio farlo di mia spontanea volontà, voglio che ci sia qualcosa che mi faccia dire: ‘Ok, Junior, basta’». Da quel momento si sono aperte tutte le porte. Io non avevo documenti, erano anni che cercavo di riceverli e regolarizzarmi. Accadde che un giorno mi arriva la comunicazione: «Puoi venire in Questura a ritirarli». E il giorno dopo Ezio Rossi, ex calciatore che avevo conosciuto alla fine di una partita UISP, mi chiamò per dirmi che aveva finalmente trovato una squadra da allenare. Mi aveva proposto di andare al Fossano, da un suo amico, ma mi proponevano 700 euro al mese e io non sarei mai riuscito a farmeli bastare. Con un figlio e una moglie in Brasile, come fai? Ne guadagnavo 1200 lavorando. Ma poi Ezio a Casale poteva cambiarmi la vita. «Senti Junior, vieni qui. Fai qualche giorno di prova e, se va tutto bene, parlo io col presidente». Non trascorsero neanche due giorni che mi disse: «C’è un contratto da 1500 euro al mese per te. Non dovrai pensare a nient’altro, solo al calcio‘».

 

Si parte. Non pensate che per un contratto in Eccellenza mi sentissi arrivato, avevo visto cos’era il fondo e quello che mi stava accadendo era sicuramente meglio. Ma non era sistemato niente. Proprio niente.

 

 

 

 

Sapete quando ho capito di essere diventato un calciatore vero? Quando sono entrato nella sala riunioni per la seduta video prima dell’allenamento in vista della partita contro il Milan. Iniziamo a studiarli e la mia mente comincia a realizzare. Vuoi per i successi, vuoi per i brasiliani, è la squadra che ho ammirato fin da piccolo. Cafu, Kaká, Serginho, Ronaldo, Ronaldinho. Hanno fatto la storia. Amavo Gattuso e Inzaghi, ma non ho avuto il coraggio di andare da loro quando li ho affrontati. Sono abituato a contenere le emozioni. Non mi sono mai ammazzato per avere la maglia di un avversario, non ho mai fatto la guerra con i miei compagni.

 

La mia mentalità è mutata grazie a Dio. Oggi non bevo più, la Bibbia ti dice che le bevande sono per le persone disperate. Ho una serenità addosso che neanche ve la immaginate. A volte mia moglie si incazza perché sono troppo tranquillo. So che devo fare una vita di rinunce, ma lo chiede la Bibbia: è un manuale d’istruzione per l’uomo. C’è un versetto che dice: Il Signore prima di tutto. Il resto ce lo dà lui. Noi esseri umani siamo tutti uguali: parliamo male delle persone, ci approfittiamo a vicenda. Dobbiamo uscire da questa condizione. Essere cristiani non significa essere protetti, non ammalarsi. Significa aver fiducia: quando accade qualcosa, stai calmo. Sai che Dio lo sta facendo per il tuo bene. Tante persone nel calcio hanno guadagnato tanto e poi hanno perso tutto. Io voglio dare una vita buona ai miei figli, quella che non ho avuto. Vengo da un mondo in cui ti alzi alle 5 e lavori fino alle 20. Non spendo soldi in vestiti o macchine, non mi interessano. Se mio figlio mi chiede la PlayStation, deve sudarla. Deve capire che non ho i soldi da buttare. Anche per questo, nel calcio, ho sempre avuto maggiore rapporto con i magazzinieri. Specialmente con uno, Max, il mio primo magazziniere al Casale. Adesso è alla Pro Vercelli: è una buona società e sono contento per lui. Lo facevamo diventare matto: mettevamo i pesi nella cesta dei panni sporchi, il secchio d’acqua sopra la porta, la colla sulla maniglia. Lo ammiravo.

 

Il primo gol in Serie A è stato un sollievo. L’anno scorso ho iniziato a soffrire di ansia. Quando non va bene, ti fermi a pensare. Avevo attacchi improvvisi che non mi facevano dormire per tutta la settimana. Pensavo, ad esempio, a quando avrei dovuto prendere l’aereo per andare in trasferta. E non dormivo. Notti insonni trascorse a fissare il soffitto, a girarmi nel letto e non soffocare. Credo che sia tutto motivato. Il mio primo gol tra i professionisti lo ricordo bene. Calcio di punizione, grande mischia in area. Batto, la traiettoria attraversa un mucchio di persone e termina in rete. Andate a vedervi la mia rete contro il Bologna, l’ultima che ho segnato.

 

Volevo lasciare il calcio per predicare la parola di Dio. Ma lui mi ha dato un segnale. Quello che aspettavo.

 

Eccomi qui.