Avete presente quanto state dormendo profondamente e all’improvviso decidete di spiccare il volo? La sensazione di spiegare le ali vive dentro ognuno di noi e non si spegne quando di colpo spalanchiamo gli occhi, continua a cavalcare nuvole e cieli all’infinito. Anche quando ci ritroviamo a strisciare tra ciottoli e sabbia, tra ciuffi di erba spelacchiati in qualche campetto di periferia, con le reti delle porte dilaniate dal tempo e le traverse arrugginite. Anche quando immaginiamo di dover dimostrare al mondo intero che il nostro nome stampato sulla maglietta di qualche club di Serie A sta davvero bene, ma rapidamente ci rendiamo conto che stiamo ragionando ad occhi chiusi. Poi ci svegliamo e siamo là, in mezzo alla polvere.
Le rovesciate di Boninsegna, le punizioni di Zico, le progressioni di Garrincha, i dribbling di Maradona, il colpo di testa di Bierhoff, le galoppate di Weah, la bordata di Roberto Carlos, il destro di Beckham, le finte di Ronaldinho, la bicicletta di Robinho, l’eleganza di Ronaldo, la spietata completezza di Lionel Messi. E noi abbiamo a mala pena le scarpette della Umbro, comprate per poche decine di euro. A fare cross sul campetto bruciato dietro casa per un attaccante che non c’è, per un pubblico che non c’è. Una scivolata di troppo per raggiungere il pallone che scappa via e il solito vecchio squarcio appena sotto le ginocchia che lacrima sangue impastato col terriccio. Mentre pensiamo al prato del Bernabeu, di San Siro, dell’Old Trafford, alla magia del Camp Nou, la casa di Leo, la Pulce diventata fenomeno.
Lionel Andrés Messi nasce a Rosario il 24 giugno 1987 ma il suo fisico sembra sconsigliargli fortemente di allacciare gli scarpini ed inseguire un folle sogno. In realtà, il suo fisico sembra proprio volergli impedire di svolgere qualsiasi attività sportiva. Infatti dietro il cristallino involucro si annida una malattia congenita che impedisce lo sviluppo osseo a causa di un deficit di ormoni della crescita. Ma il talento c’è e presto rompe gli argini che la natura ha provato a erigere per costringerlo all’interno di un corpo minuto e fragile.
Fragile come la pelle del nostro ginocchio che non smette di sanguinare.
Ormai è tardi, è ora di rincasare. Un ultimo sguardo al campo e via. Una birra ghiacciata per scordare la fatica, il volume al massimo per provare a sentire lo screpitìo dei tacchetti. Lo sguardo corre a fantasticare quel numero 10 che forse non indosseremo mai, colui che incarna le speranze della metà del mondo che non ce l’ha fatta. La Pulga dallo sguardo torvo e perennemente corrucciato, avido di sorrisi, introverso e chiuso nel suo universo fatto di salite impervie che ha da sempre affrontato dal basso verso l’alto.
900 dollari al mese: non è la cifra del primo ingaggio di Leo, ma il costo delle spese mediche del giovane talento del Newell’s Old Boys. Ebbene si, la salute di Leo ha un prezzo, decisamente troppo salato per la modesta famiglia Messi. Niente da fare, neppure il prestigioso River Plate, seppur affascinato dal grezzo bagliore del diamantino Leo, si sobbarca l’onere di curare il ragazzo. C’è solo una cosa da fare: raccogliere armi e bagagli e raggiungere il Vecchio Continente, la Spagna, più precisamente la cittadina di Lerida, Catalogna. A pochi passi da Barcellona.
Quando muove i passi verso l’ingresso del campo, Lionel Messi ha l’impazienza di chi non aspetta altro che andare a prendersi ciò che gli spetta. Le aree di rigore valgono quanto le goccioline sul boccale di birra, si percepisce la fame atavica e la voglia morbosa di arraffare tutto l’arraffabile. Cannibalismo genetico, primordiale forma di egoismo, necessità di scorrere paralleli alle altre vite senza essere sfiorati da alcun contendente, è competitività allo stato brado, ferocia e calma, avidità e controllo.
Perché non fare un provino al Barcellona? Perché non sfornare gol (37 nelle prime 30 partite in maglia blaugrana) e assist in quantità? Il piccolo Leo, senza fare troppo rumore, si sta già prendendo tutto. Dal basso verso l’alto, come sempre. Il 16 ottobre 2004 debutta nella Liga. Ha cominciato la sua interminabile fuga. 169 centimetri che sgusciano per i campi di tutta Europa e che regalano emozioni.
Con il ginocchio fasciato facciamo attenzione a non fare movimenti bruschi ma è impossibile non provare a emulare Leo mentre sfugge agli avversari tra serpentine e veroniche. Dal divano proviamo a stargli dietro con gli occhi, gesticolando freneticamente quasi a volerlo pilotare con un joystick immaginario. Poi Leo fa qualcosa di inspiegabile con i piedi, con il corpo. E noi stiamo là, senza parole e applausi, senza far rumore, nel silenzio dei nostri pensieri, nel silenzio del nostro campetto.
Messi vince tutto, Messi è una macchina da guerra, a volte sembra persino più alto di quello che i numeri confessano. Eppure, se guardiamo con attenzione, lo vedremo sempre camminare con gli occhi bassi, quasi per farci capire che la distanza che lo separa da terra sarà sempre infinitamente minore di quella che lo divide dal cielo. Noi non possiamo fare nulla, solo aspettare la prossima magia e sperare che la ferita guarisca alla svelta. Perché per ogni numero galattico di Leo ci sarà sempre una scivolata che pretenderà un tributo di pelle e sangue. Perché dissolta la nuvola di polvere, i nostri sogni saranno sempre lì ad attendere un applauso che forse non sentiremo mai.