Come vi abbiamo raccontato nella giornata di ieri, il medico personale di Diego Armando Maradona, Leopoldo Luque è finito sotto indagine con l’accusa di omicidio colposo. Intorno alle 11, 30 poliziotti sono entrati nel suo domicilio per portare via cellulare e computer: contemporaneamente, altri 30 entravano nel suo consultorio di Belgrano per prendere tutta la documentazione disponibile.
Mercoledì prossimo si conosceranno i risultati finali dell’autopsia, anche per capire quali medicine aveva preso e se c’era traccia di alcol. Luque non è stato ancora interrogato, ma i suoi avvocati non escludono l’ipotesi che sia lui a presentarsi spontaneamente, prima di aspettare la citazione ufficiale.
La difesa
Su La Gazzetta dello Sport odierna ci sono delle dichiarazioni del medico personale del Pibe de Oro, assente al momento della sua morte: «Ho fatto tutto ciò che si poteva fare per un amico, e di più. Per me era come un padre. Purtroppo è lui che aveva deciso di lasciarsi andare».
Luque ha poi raccontato di un episodio violento, che sarebbe andato in scena giovedì 19: «Tante volte mi mandava via, come un padre ribelle, e il giorno dopo mi chiamava. ‘Luque, sto bene, vaffanculo, vai via’. Tante volte è successo, ma perché avevamo un rapporto diverso. E così è stato quando, non volendo uscire della camera, sono entrato e mi ha mandato via. Mi ha detto che mi avrebbe dato un pugno e gli ho risposto che per quello doveva prima alzarsi, e poi prendermi. Mi sono distratto un attimo e lui mi è saltato addosso, ma il mio obiettivo era raggiunto, perché alla fine si era alzato. Il giorno dopo, sono andato a rimuovere i punti della testa, e lì, con un sorriso, mi ha detto: ‘Hai paura, eh?’ Era sul divano e ha chiuso gli occhi, facendo finta di dormire. Poi al nipote: ’Hai visto come l’ho preso in giro?’».
MISURE DA PRENDERE – «Chi ci doveva pensare? Di certo non ero io, che sono neurochirurgo. Noi decidevamo assieme, consapevoli che tutto dipendeva dal parere di Maradona, perché nella nostra legge, l’unico modo in cui potevamo costringerlo sarebbe stato se un giudice lo dichiarava mentalmente non atto. Non era in ricovero domiciliare, era libero. Abbiamo fatto molto di più di quello che potevamo fare, di quello che Diego voleva fare. E sono stato io il responsabile di estendere la sua vita, anzi, che ci fossero degli infermieri nella casa era perché io usavo il pretesto della testa operata, quando in realtà, su quello era assolutamente a posto. La parte neurologica, per la tomografia, era già a posto. Alcol non lo prendeva, l’altro obiettivo».