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Marco Davide Faraoni
Mi mancano i tempi in cui tornavo da scuola e riuscivo a guardare i cartoni animati dopo pranzo. In realtà, io vado pazzo per i manga. One Piece, Dragonball, Holly e Benji… ora che gioco nella Lazio e salgo subito in macchina per andare ad allenarmi, non riesco a vederli.
Queste sono state le prime settimane a Milano. Vengo da Bracciano, un paesino sul lago, e lì la vita è completamente diversa. Case e locali, tutto sulla spiaggia, nell’arco di una camminata. Il passaggio fin qui è stato traumatico. Dalle mie parti, esci e sei in campagna. Qui mi hanno chiuso in un convitto, in stanza, con gli orari. Mi sto adattando, altrimenti va via. O ti adatti, o vai via. Tanti ragazzi si chiudono nelle loro stanze, io invece sono un casinaro: a Capodanno ho fatto un sacco di scherzi dentro al convitto, spaventando tutti. Culture diverse e tre soli bagni. La lezione più importante è stata proprio quella culturale. I primi giorni vedevo i ragazzi stranieri fare cose inspiegabili, ma che per loro sono normali. Due ragazzi della Repubblica Ceca erano confinati a letto, altri mettevano nello stesso piatto la pasta, il pollo, il riso e il formaggio. Gli dicevo: «Ma che fate? Non si può!». Con il tempo, ho imparato a rispettare le usanze di tutti. Anzi, sarà bellissimo andare all’estero e sapere già come funziona.
La vita di lago è semplice: beachvolley, locali sulla sabbia. Camminate. E il calcetto saponato all’Aquafelix, un parco giochi vicino a Civitavecchia. Praticamente un suicidio: giochi a calcetto su un telo pieno di sapone, dove non fai altro che scivolare. Io ero incosciente, se scivoli non ti fermi, travolgi sicuramente qualcun altro e ti rompi o la caviglia, o il braccio. Da un mondo a un altro. Qui a Milano c’è un ragazzo svedese pacato, biondo, con gli occhi azzurri. Io faccio un casino… Tutti lo chiamano ‘Ikea’. Devo essere sincero: non sapevo cosa fosse l’Ikea. Ho dovuto chiederlo. Mi colpisce il suo modo di fare, completamente opposto al mio. Distinto, in ordine, arriva all’allenamento con il Porsche perché il padre è un dirigente di Microsoft. Insomma, un mondo diverso dal mio. Mi sto facendo degli amici: ci sono Samuele Longo e Denis Alibec, per il mio compleanno mi hanno regalato un enorme cuore rosso con le loro firme.
Quest’anno non è stato reale. Io, in Prima Squadra all’Inter. Mi rendo conto solo adesso di quanto fossi in una dimensione non reale. In un sogno, direi. Avevo l’incoscienza di un ragazzo, e questo mi faceva giocare con tranquillità. Ora, qualche mese dopo, ho realizzato e di colpo ho capito quanto sia difficile restare in Serie A. Questa riflessione, ultimamente, mi ha penalizzato. Non sono alla loro altezza, non posso restare all’Inter. Sono arrivato dopo il Triplete, non c’entro niente con loro, né tecnicamente e né fisicamente. Voglio mettermi in gioco: andrò all’Udinese. Avevo bisogno di andare via. Aver fiducia, stare in panchina e poi rientrare. Non posso andare a casa da perdente, secondo me quello che hanno gli stranieri quando vengono qui è proprio questo: non possono permettersi di tornare indietro, non hanno scelta. Sono più cattivi proprio per questo. Spesso, gli italiani sono nella comfort zone. Caratterialmente ci mangiano per questo motivo, hanno meno scelte.
Mi incuriosiva andare all’estero. Ho scelto di provare al Watford, in Championship. Ho imparato un’ulteriore, nuova cultura. Ho giocato oltre 50 partite e la pressione che ho sentito era pari a 0. All’inizio, nelle prime 3 o 4, uscivo dal campo con il mal di testa: musica ovunque, dal pullman agli spogliatoi, con veri e propri impianti. Poi mi sono abituato. Nelle prime sconfitte, io ero incavolato nero. Avvelenatissimo. I compagni tutti più sereni. Ma non perché non gli interessi: «Fara, hai dato tutto? Hai rimpianti? No, e allora basta. Hai fatto il tuo, potevamo fare di più? Probabilmente, infatti ci rifaremo». Una mentalità diversa. L’ho capito qualche giorno fa, dopo l’ultima partita in casa: siamo partiti per la promozione, siamo arrivati decimi, e per di più abbiamo perso 4-0. In Italia sarebbe stato impensabile fare il giro di campo per salutare i tifosi a fine stagione, e invece si sono alzati tutti in piedi ad applaudire noi e i nostri figli che camminavano tutti insieme per mano.
Mamma mia Totò Di Natale. Uno dei calciatori più forti che abbia mai visto. Talento puro: io non ho talento, lui sì, perché quelle cose non gliele hanno mai insegnate. Negli anni è migliorato, ma lui… avete visto il gol che ha segnato contro il Chievo, quello al volo? Io manco ce penso a fare quella roba lì, manco mi viene in mente. Di Totò mi colpisce la passione per il calcio: una volta l’hanno sostituito perché aveva preso una botta, pianse come un disperato. Gli dicevamo che non era niente, che sarebbe rientrato quella dopo. Niente, disperato. Capii che puoi essere capocannoniere della Serie A per 3 anni, puoi segnare a raffica, puoi guadagnare quello che vuoi, ma se ami una cosa, la tratti sempre come la prima volta. Si ferma a raccontarmi i suoi segreti: mi ha spiegato che quando rientra sul destro, se è nello spazio tra il primo palo e il portiere, tira a giro. Se invece è oltre il portiere, verso il secondo palo, tira a chiudere e incrocia. Tanti hanno giocato con Totti e Del Piero: io ho avuto la fortuna di giocare con lui. Si allena due giorni, il resto a parte, ma va bene così: se gli dai la palla, sai che poi corri ad abbracciarlo.
Tutto ciò che mi ricorda la mia infanzia, mi trascina. La passione per gli anime è partita nel dopo-scuola ed è esplosa durante la riabilitazione all’Udinese. I fisioterapisti erano malati di One Piece e mi dissero: ‘C’è una pagina Facebook che trasmette i vecchi episodi’. Li ho visti tutti: 1071, e ogni domenica aspetto quello nuovo. Ho iniziato per occupare i momenti morti tra i doppi allenamenti, quando ero fuori a causa del crociato, e l’ho trasformata in una malattia. Ho iniziato con One Piece, il mio preferito e ho proseguito con Naruto. Mi si è aperto un mondo, me li sono riguardati tutti. Su Netflix ho riscoperto alcuni anime che guardavo da piccolo su MTV. Sono sincero: se qualcosa è legato ai primi anni della mia vita, non riesco a farne a meno. Ho provato a leggere qualche manga, ma per leggere i manga devi saperci fare, avere pazienza e soprattutto fantasia. Sono un tipo da anime: in One Piece una battaglia può durare anche 200 puntate. Se hai passione, ti incolli.
Sui miei parastichi, oltre alla mia famiglia, c’è One Piece. In campo mi porto la mentalità di alcuni manga: in Black Clover c’è un personaggio che nasce in un mondo di maghi, ma senza il dono della magia. Deve allenarsi più degli altri perché non avendo la magia, non viene accettato. Il fratello è un grande mago e lui deve allenarsi, sacrificando tutto, e alla fine riesce a emergere. Mi ci rispecchio: non ho un talento cristallino, rispetto agli altri giocatori devo allenarmi e curare ogni dettaglio. Mi piace questa cosa, mi sprona. La mia vita è sopravvivenza, tutta.
Sono un autentico collezionista. Prima di tutto, le schede telefoniche: le raccoglievo nella cabina telefonica del mio paese, trovandole per terra. Ma soprattutto, le carte dei Pokémon: faccio compravendita, propongo le mie e offro per acquistare le migliori. Non faccio i tornei, non sono un tipo da Magic o simili. Alcune hanno preso molto valore. Ho una valigetta, quella che nei film americani solitamente contiene la roba di valore, dove nella gomma piuma tengo i miei pezzi pregiati. Ho un Charizard prima edizione già valutato… amo la mia collezione.
Domani andrò a pescare. Qui alle Maldive ci vengo praticamente ogni anno. Esco con la barchetta di legno, prendo un filo e un amo, e aspetto. Me lo ha insegnato mio zio Giuliano al lago, con la sua canna, ma per pescare nel lago ci vuole la licenza e quindi mi faccio andar bene il filo nel mare. Insieme a zio partecipavo al torneo Martinpescatore, mi ha fatto vedere tutti i trucchi del mestiere. L’adrenalina di quando senti tirare… Un’altra passione è il golf: mia moglie mi ha regalato le mazze, per adesso posso tirare solo al ‘campo prova’. Sono tutte passioni che puoi coltivare da solo, mi piace trascorrere del tempo in solitaria. Come andare al cinema. Oppure, da piccolo, provare le mosse speciali di Holly e Benji, come il tiro di Mark Lenders o la catapulta infernale dei gemelli Derrick. Sì, ci ho provato davvero!
Stasera vado a cena in centro a Verona. Torno in pizzeria, come da piccolo. Mia mamma ne gestisce una fuori dal paese. Servire i tavoli in un’attività familiare con il pienone sotto il pergolato e scappare appena sentivo il richiamo del pallone nella piazza accanto. Davo una mano, servivo e sparecchiavo. Non ho mai preso le ordinazioni, ma ho capito quanto sia duro quel lavoro. In pizzeria cresci, per questo ho un grande rispetto per i camerieri ogni volta che mangio in un ristorante. So che è un compito difficile e faticoso. Ci sono passato e quando ti trattano male non è bello. Io facevo gli scherzi ai miei colleghi: portavo i bicchieri con i vassoi di latta, quelli verdi della birra. Li lanciavo facendoli sbattere, sembrava ci fosse un’esplosione. A mezzo locale prendeva un infarto! Scappavo prima che mio padre potesse prendermi.
Alle sagre vendevo i biglietti della lotteria, andavo casa per casa con la bicicletta e gli amici. Era poco, ma ci divertiva. Ci bastavano un bastone e dei sassi. Sebbene fossi fissato con il calcio, non ho mai messo da parte lo studio, bisogna sempre avere una seconda strada e non si può fare all-in sul calcio, perché non è matematica. Ho rischiato che finisse tutto e di non tornare mai più in Serie A. Sono rinato a Verona, dove ho ritrovato fiducia in Davide e continuità per Faraoni. I primi tre anni e mezzo sono stati da urlo, sulle montagne russe. Ero certo che sarebbe arrivato anche questo momento, quello della difficoltà: può diventare l’anno più bello di tutti. Prendetemi per pazzo, ma è la sfida più grande. La vita non mi sta dando quello che voglio, ma quello che mi serve attualmente. Sono sicuro che quando vinceremo sarò un giocatore più forte mentalmente. Sono affezionato alle belle sensazioni, ancor di più ai momenti brutti: quando sbaglio, faccio un errore, soffro. Come fosse un trauma. E lavoro per evitare che riaccada. Per me il calcio e la vita sono sopravvivenza.