Il servizio della Domenica Sportiva su Napoli-Milan del primo maggio 1988 si apre con sessanta secondi splendidi, muti, immersi nel silenzio delle strade della città – via Partenope, via Caracciolo, piazza Trieste e Trento, i chioschi sul lungomare dove si vendono i taralli ‘nzogna e pepe – opposte al frastuono nella pancia del San Paolo, con l’arbitro Lo Bello che si riscalda nel sottopassaggio, i giocatori nel tunnel, il boato dello stadio in cui, come invocato da Maradona, non sventolano bandiere rossonere. Con degli strepitosi occhiali da sole dalla montatura gialla, Gian Piero Galeazzi si avventa su uno scalpitante Maradona: «Diego, che senti nel cuore?». Il Pibe in tre parole gli fa una presentazione perfetta di quella partita, di quella giornata: «La finale del mundo». Nel Napoli c’è un clima da Messico ’86 ma senza lieto fine, un esercito in rotta che si aggrappa al suo fuoriclasse per uscire dal pantano, nella folle speranza che prenda palla a centrocampo, scarti tutti ed entri in porta col pallone. La squadra non si fida più di Ottavio Bianchi e della sua svolta catenacciara iniziata con la rinuncia al tridente Maradona-Giordano-Careca, ma si rende conto che non sta più in piedi e lo ammette senza filtri: «Siamo alla frutta? No, direttamente al dolce» confessa con sincerità Ciccio Romano al plotone di giornalisti convenuti a Soccavo. Così, per affrontare il Milan che verrà, Bianchi mette i luciodalliani sacchi di sabbia vicino alla finestra: rispolvera il vecchio Bruscolotti, mitologico «palo ’e fierro» di lontanissime ere calcistiche, e lo piazza a uomo su Donadoni; poi mette il malcapitato Tebaldo Bigliardi su Gullit, e che Dio gliela mandi buona; assegna a Salvatore Bagni la maglia del centravanti, «falso nueve» prima che sia di moda; infine cerca di ostruire la corsia sinistra di proprietà di Maldini con il cagnaccio Nando De Napoli. La sparagnina distinta del Napoli genera entusiasmo nell’altro spogliatoio, così Sacchi prende il toro per le corna: «Se non attaccate subito» li minaccia «vi giuro che faccio subito le due sostituzioni».
Milano ascolta la partita alla radio, Enrico Ameri oppure Radio Peter Flowers, dove il giovane Tiziano Crudeli ha raccolto il testimone dallo storico aedo Carlo Pellegatti passato da qualche mese a TeleLombardia. Tutta Milano tranne San Siro che è pieno di un’inutile Inter-Sampdoria. In realtà non è così semplice. Il Napoli avrà anche fiato cortissimo e autonomia limitata, ma il tifo, il gran caldo scoppiato all’improvviso dopo un sabato di pioggia, la pressione della partita-scudetto appesantiscono anche l’anima dei migliori. Dopo mezz’ora di nulla, in cui la colla a presa rapida che Bianchi ha spalmato sulla partita sembra fare effetto, una percussione centrale di Ancelotti viene stroncata da Renica e dà origine a una punizione di Evani che apre la prima crepa fatale nella diga napoletana: la palla buca la barriera e viene intercettata da Virdis, bravissimo a girare in rete il pallone dell’1-0. Ma il dio del San Paolo riesce là dove aveva fallito san Gennaro: Maradona artiglia il pareggio un attimo prima dell’intervallo, con una punizione perfetta dal punto di vista geometrico e artistico, che infligge a Galli il supplizio di schiaffeggiare la palla senza poterle impedire di entrare. Sacchi rientra negli spogliatoi masticando amarissimo alla scoperta che le sue idee napoleoniche, presto o tardi, devono fare i conti con la realtà. Ma non intende arretrare di un millimetro: anzi, dopo aver espresso il suo fastidio per un primo tempo in cui «non stiamo facendo nulla per meritare di vincere», ordina il cambio: fuori Donadoni, dentro Van Basten.
L’azzardo di Arrigo non è campato in aria: il Napoli è ormai un cartone di latte pericolosamente vicino alla scadenza, e semplicemente mantenendo il passo del primo tempo, superata l’ora di gioco, il Milan scopre all’improvviso di dominare. Gullit galoppa sulla destra e crossa splendidamente in mezzo per l’inzuccata di Virdis, la faccia antica, baffuta e canuta, del nuovissimo Milan di Berlusconi. Segue la seconda galoppata wagneriana del magnifico Tulipano Nero, che si conclude con l’assist per Van Basten, libero di toccare a porta vuota: Ruud alza il pugno in segno di vittoria prima ancora che il pallone raggiunga l’amico e connazionale, ancora con la numero 16. Il loro abbraccio da inginocchiati sul prato del San Paolo è l’immagine di copertina della giornata. In mezzo Bianchi, preso alla gola dai crampi di Bruscolotti e dagli infortuni simultanei di Bigliardi e Maradona, ha sgangheratamente ordinato l’assalto finale buttando dentro Giordano e Carnevale: una specie di 8 settembre che non serve a recuperare mentalmente una squadra sfiatata. Un po’ dal nulla arriva il 2-3 di Careca, dimenticato dalla difesa milanista: solo un falso allarme. Al fischio finale, sopraffatto dall’emozione mentre viene intervistato da Galeazzi, Sacchi non riesce ad articolare bene le parole nel sottofondo di applausi del San Paolo che tributa il giusto omaggio ai futuri campioni d’Italia, per due motivi. Il primo è che riconosce il valore superiore del Milan, e continuerà a farlo anche a distanza di generazioni: ha completato la sua rimonta senza ombre, senza papocchi arbitrali, senza polemiche da Processo del Lunedì. Il secondo è un segno di ringraziamento al Napoli in testa da un anno e mezzo e oramai dilaniato dallo stress, come se intimamente volesse scaricarsi dalle spalle l’enorme peso del successo: che se lo prenda Berlusconi, se ci tiene tanto. E in uno spicchio di gradinata spuntano anche le fatidiche bandiere rossonere, sventolate da un migliaio di coraggiosi giunti a Napoli dopo un viaggio omerico, iniziato il sabato notte dalla Stazione Centrale e concluso alle 4 del lunedì mattina. È il momento del Milan, in testa da solo al campionato per la prima volta negli anni Ottanta.