“Sono stato un giocatore, sono stato un innamorato fedele. Sono stato un capitano. Ci sono un sacco di cose da mandare giù anche se non vuoi e un capitano deve farlo per se stesso e per gli altri. Mi è successo di bussare alla porta di un compagno per cercare di tranquillizzarlo. Capitava che i ragazzi, spesso i più giovani, ma non solo loro, mi cercassero per raccontarmi un loro problema. Io gli facevo sentire la sicurezza di avere qualcuno con cui potersi confrontare. È accaduto anche il contrario: non ho chiesto aiuto, ma qualcuno ha capito che ne avevo bisogno. Eravamo in ritiro, a un certo punto si avvicina Montero. C’era stima e collaborazione tra colleghi, ma non ancora confidenza. Quella sera Paolo mi prende da parte e mi fa: «Oh, ma che hai? Sempre ‘sto muso…». Io lo guardo e non so che cosa rispondere. Sorpreso, in silenzio. Comincio a dire qualche banalità, lui mi stoppa. E parla: «Vabbè, qualunque cosa tu abbia, fattela passare. Non vedi come ti guardano i ragazzi più giovani che si allenano con noi? Tu per loro sei un grande, sempre e comunque. Pensaci». Era la stagione 1999/2000, quella dopo l’infortunio al ginocchio. Non funzionava niente. Paolo aveva capito che io avevo bisogno esattamente di quelle parole. Mi aveva osservato, aveva capito le mie ombre e aveva deciso che dovessi combatterle. E ho cominciato a combatterle, come dopo l’Europeo del 2000. Ebbi l’occasione di segnare due gol ma non ci riuscii, la Francia vinse in dieci secondi la partita e la Coppa. Ho ripensato spesso a quel momento. Perché sbagliai? E come sbagliai? La verità è che una risposta vera non c’è. L’ho capito col tempo. Anche se hai segnato più di trecento gol è come se non fossero serviti ad altro che a preparare il successivo: a 40 anni capisci che è il destino. Non sai dire come hai realizzato un certo gesto tecnico e nello stesso modo non puoi sempre sapere come l’hai sbagliato. Semplicemente accade.”
Alessandro Del Piero