Siamo stati costretti ad accettare parole come simulazione, fuorigioco millimetrico, turnover, moviola. Abbiamo lentamente abbandonato il concetto di lealtà, piegandoci alle regole del calcio dei grandi. Ma davvero tutto questo è successo a noi?
Noi che aspettavamo 10 minuti per vedere se le squadre erano troppo squilibrate, cambiando formazioni senza battere ciglio, perché la sfida regolare era più emozionante di una squallida goleada.
Noi che accettavamo con dignità la spallata dell’avversario che ci faceva rotolare nella polvere, evidentemente perché avevamo affrontato lo scontro in maniera troppo morbida. Sapevamo darci la colpa, sapevamo mettere in dubbio noi stessi. Una lezione di vita unica, che ti marchiava a fuoco.
Noi che non abbiamo mai protestato per un gol subito dall’attaccante partito in fuorigioco di mezzo metro. Non era così importante.
Noi che eravamo in grado di autocondannarci per aver commesso un fallo da rigore. Una spolverata alla maglietta, una lucidata all’orgoglio e via di nuovo in campo.
Vincere, perdere. Siamo cresciuti con la convinzione che non fosse questo il senso della nostra vita.
Abbiamo sempre preferito contare i tagli sulle ginocchia, scrostando le minuscole pietre che si incastravano sotto la pelle.
Si può resistere alla fatica delle gambe che chiedono pietà. Ma non riusciremo mai a resistere al dolore che ci provoca il ricordo di un calcio che sta scivolando via.