di Roberto D’Aversa
Mi sono svegliato e la bocca non rispondeva più ai comandi.
Mi stavo lavando i denti, erano due giorni che non sentivo i sapori. Sono andato all’ospedale, lì mi ha raggiunto il medico dell’Empoli. In quelle 4, anche 5 ore di attesa, mi è passato di tutto per la testa.
Negli occhi di tutti coloro che mi guardavano vedevo preoccupazione. Anche il direttore e il team manager mi hanno raggiunto al pronto soccorso. I dottori mi hanno subito diagnosticato una paresi facciale, momentanea. Un disagio temporaneo, che migliora giorno dopo giorno.
La motivazione? Virale, oppure un erpes, oppure ancora un colpo di freddo su un nervo.
Ma non mi sono nascosto. Sono andato in campo, davanti alle telecamere, senza problemi. Per rassicurare le persone che mi vogliono bene, ma soprattutto perché mi metto nei panni di chi convive con questo problema permanentemente, con chi deve fare i conti con i problemi fisici fin dalla nascita. Mi sono ripetuto: «È solo una cosa momentanea».
Mi immedesimo in chi ci convive da tutta la vita. A chi subisce del bullismo per questo. La prevenzione è fondamentale, per tutti. Dobbiamo essere culturalmente più inclini a farla. Anche per noi ex calciatori, che ci sentiamo invincibili perché trascorriamo diversi anni sentendoci osannati, dove siamo sempre controllati. Ma che alla fine invincibili non siamo.
Ho letto recentemente la storia della figlia di Roberto Mancini, che è stata discriminata a causa di una malformazione al viso. Mi ha colpito molto. Credo che non ci sia niente di cui vergognarsi.
Io sto solo prendendo farmaci per i nervi, passerà.
Se guardo ai problemi con cui sta lottando mia madre, arrivo alla conclusione che i problemi sono altri.
Sono nato in Germania, a Stoccarda, 49 anni fa. I miei genitori si erano trasferiti a 16 anni per lavorare: mio padre consegnava le bibite, soprattutto Coca-Cola, mentre mia madre faceva la sarta. Hanno fatto una vita di privazioni e rinunce per permettere a tutta la famiglia di andare avanti. Mai un giorno di vacanza, mai una cena al ristorante.
Quando siamo tornati in Italia avevo 3 anni. Passarono a lavorare al mercato: ogni mattina, all’alba, tutti i giorni. Girando le piazze e le zone limitrofe di Pescara. Cambiava la piazza, cambiava la gente, ma non la prospettiva. Quello è il vero sacrificio. Quando parliamo del nostro sacrificio, quello sportivo, dobbiamo ricordarci che i sacrifici sono altri. I miei genitori si sono negati tutto per permettersi di poterci dare una casa a testa: a me, a mio fratello e a mia sorella. Li ringrazierò per sempre, per tutta la vita.
Ho un cruccio: non essere stato presente nella loro vita da quando la mia carriera è iniziata. Sono una persona che vive per il lavoro. Vivo così, in tutto e per tutto. È un difetto che ho, che fa parte di me. Mia madre ha un ictus, ormai da diverso tempo. Un evento che mi ha cambiato. Non mi perdono che non sono riuscito a starle vicino.
Non mi perdono quando lo scorso anno, dopo la partita a Frosinone, non sono andato da loro a Pescara. Avevamo pareggiato, era un periodo complicato per il mio Lecce. I miei collaboratori me lo ripetevano: «Vai dai tuoi, vai a trovarli». Ma alla fine ho scelto di tornare a Lecce.
In quel periodo così difficile sono andato soltanto due volte da loro. E se ci ripenso, mi vergogno. Quando guardo quella situazione dall’esterno, credo che mia madre sappia quanto bene io le voglia. E questo mi fa vergognare ancora di più per il mio comportamento, per i sacrifici che hanno fatto. Sono sicuro che loro siano orgogliosi di me: quando giocavo, non volevo che lei venisse allo stadio, ero preoccupato per gli insulti che avrebbe sentito. Ma ho sempre cercato di dare qualcosa indietro e in cambio.
Il lavoro dell’allenatore è dominante. È una figura totalizzante. Che ti toglie il fiato. La mia attenzione è tutta lì, ho un difetto gigantesco: essere testardo. Come quando non ho ascoltato le voci di chi mi suggeriva di andare da loro, a Pescara, che da Frosinone non era poi così lontana.
Potevo fare meglio.
È una frase che ripeto spesso, visto anche l’epilogo della mia esperienza a Lecce.
Ho pagato tutte le conseguenze che potessero arrivare.
Mi sono vergognato quando sono rientrato a casa e mia moglie mi ha detto: «Ma cosa hai combinato?». L’esonero, le 4 giornate di squalifica. Quella testata a Henry mi ha perseguitato: ho commesso un grave errore, mi sono subito scusato, e ho immediatamente chiamato il ragazzo dopo la partita.
Ho dovuto spiegare tutto ai miei figli. Ho dovuto parlare con mio figlio Simone, che ha 16 anni e a cui dico sempre di non litigare in campo. Ho dovuto farlo con Francesco, che invece ne ha 14, che ama la pesca e il tennis. E guardare in faccia la più piccola, che ne ha 9, la più pura, dovendo raccontare il mio gesto e la mia giustificazione. Far capire che avevo sbagliato risultando credibile.
Mi dispiace aver messo in difficoltà Corvino e Trinchera, dirigenti del Lecce. Non ho potuto portare a termine un lavoro strepitoso. Ho grande rammarico per questo.
Ho ricevuto un attacco mediatico, ma il mondo del calcio non mi ha abbandonato. Non tutti si sono voltati dall’altra parte. Tantissimi dirigenti che non avevo mai incontrato in vita mia mi hanno chiamato o scritto per esprimermi vicinanza. E anche alcuni allenatori lo hanno fatto. Ho i loro nomi salvati nelle note del telefono. Hanno compiuto un gesto che mi ha colpito. So bene chi sono quei nomi.
La mia famiglia vive ancora a Lecce, dove abbiamo dato continuità al percorso di vita dei nostri figli, e la gente ci ha sempre espresso amore e vicinanza. I tifosi sono stati solidali, hanno capito quel gesto.
Se ho avuto il timore di aver perso il treno della Serie A per colpa di quel gesto? Il telefono squillava comunque. Certo, arrivavano chiamate dalla Serie B e io tergiversavo. Non volevo perdere la Serie A. Il Cesena si era fatta avanti concretamente, abbiamo parlato. Ogni società di A che mi chiamava, magari aveva altre scelte. Ed è chiaro che dopo ciò che era successo, D’Aversa non fosse più al primo posto. Neanche al secondo.
Non volevo andare all’estero, mi sembrava di scappare da ciò che era successo. Non volevo dare quell’immagine.
Non avevo certezze.
Infatti devo ringraziare per il coraggio sia il presidente Corsi, sia il direttore Gemmi. Qui c’è una circostanza che mi piace, vogliamo rimanere in Serie A.
Li ringrazio per non aver guardato l’etichetta. Sono il primo a cui non piacciono i pregiudizi. Vi faccio un esempio: Pietro Pellegri. Da sempre gli hanno attaccato delle etichette. Io me ne sono fregato: vedo solo che arriva prima al campo e va via oltre l’orario di allenamento. Si è messo a disposizione. Tutto il resto non conta. Solo i fatti hanno importanza.
A Empoli ho trovato una società che sa osare. Siamo soddisfatti del percorso che abbiamo fatto fin qui. Abbiamo lavorato duro, siamo andati ben oltre le aspettative. Il pensiero della famiglia Corsi è chiaro: sono tanti anni che investono le proprie risorse sul settore giovanile, quest’anno sono stati bravi a individuare anche calciatori da valorizzare che arrivano da fuori. Il risultato è soltanto la conseguenza di come ci stiamo allenando. Non abbassiamo mai il livello di attenzione e di umiltà. Ognuno in rosa ha il proprio obiettivo, chiaramente, ma tutti sono applicati per il bene comune, per un obiettivo comune. È un gruppo in cui i giovani sono importanti così come i più anziani, che stanno svolgendo un ruolo fondamentale sia in campo che fuori.
Il nostro è un percorso e credo che un esempio possa essere Goglichidze. Quando contro l’Inter è stato espulso, è uscito in campo sconvolto. Già in campo, comunicando con Viti, aveva capito che sarebbe stato buttato fuori. La postura del suo percorso, con la maglia sul volto, mostrava quanto fosse mortificato. Mi sarei arrabbiato solo se fosse stata una sciocchezza voluta e fuori dai nostri principi.
Quando sono arrivato faceva fatica ad avere il ritmo in allenamento. Non aveva mai giocato. Non parla italiano, parla poco inglese. Anche comunicarci non è facile. Ma lavora come un matto. Gli ho solo detto di far tesoro, gli ho spiegato che con le nuove regole e con il VAR deve stare ancor più attento al minimo tocco. È uno che si comporta da professionista ed è questo il messaggio che ci serve.
Me lo ha trasmesso anche Antonio Conte, quando mi ha allenato al Siena. Era il vice, ma la sua mentalità era impressionante nonostante le nostre premesse non fossero da alta classifica. Anche dopo un pareggio, mentre noi eravamo contenti, lui chiedeva di più e non era felice: vedeva il nostro reale valore, sapeva come aumentarlo. Era bravo e determinato nel vedere il potenziale dei giocatori. Siamo diventati amici, anche troppo. Lui è il padrino di mia figlia, e viceversa.
Non abbiamo un bel carattere, ma ci mettiamo buon umore. Siamo diventati molto legati grazie alle nostre mogli. Il nostro rapporto è disinteressato. Quando andiamo in vacanza, io prenoto per la mia famiglia e sua moglie per la sua. Ci diciamo sempre che se ci fossimo spostati incrociando le coppie, loro non avrebbero fatto una vacanza in vita loro perché non sarebbero mai riusciti a organizzarla.
Questa è la mia storia, iniziata al mercato.