Un foglio appoggiato su una scrivania, da firmare insieme al contratto da allenatore. “Il nostro obiettivo è costruire una squadra, non dei solisti”. Questa frase è accompagnata da qualche regola da rispettare, dalla gestione dei giovani ai principi tattici. Le fondamenta sono uguali per tutti, le modalità di costruzione invece vengono lasciate al singolo allenatore. Il comun denominatore rimane la filosofia.
Nella galassia Salisburgo, isola felice che produce talenti in serie, funziona così. Tutto però parte dallo scouting. «Abbiamo una rete di dieci osservatori, non tantissimi come si crede». Il racconto è affidato a Christoph Freund, da oltre dieci anni direttore sportivo del club. Uno di quelli a cui basta uno sguardo per riconoscere le qualità di un giocatore. Da quelle parti studiano i ragazzi grazie a software che ne analizzano le prestazioni e ne valutano i parametri. Poi li inseriscono in un database. Innovazione allo stato puro, analisi applicata al calcio giocato. «Database e software hanno un ruolo importante, soprattutto nella prima fase, quella in cui viene visionato il giocatore. Ma l’ultima parola la ha sempre l’occhio».
Per spiegare al meglio il modus operandi del Salisburgo si può citare una frase che Freund, durante la chiacchierata, ripete più volte. «Il talento da solo non basta, ci vuole la formazione. Il concetto di base è quello di far crescere i ragazzi. Non importa l’età, quello che conta è che imparino a comportarsi in campo e fuori. Poi i risultati si vedono e non sono nient’altro che una normale conseguenza. Non conta neanche da dove viene un calciatore, il talento lo si riconosce estrapolandolo dal contesto. Poi va fatto crescere con calma e pazienza».
Dai 16 ai 20 anni, l’età dell’oro
C’è un periodo – dai 16 ai 20 anni – che Freund chiama età dell’oro. Si prendono ragazzi giovani, scovati grazie a una rete di scout che arriva in tutto il mondo, con l’aiuto di sistemi informatici che permettono di analizzarne ogni caratteristica. Poi vengono valorizzati, in un settore giovanile all’avanguardia per strutture e forma mentis. Non solo calcio, ma anche vita, studio, rapporti sociali. Si pensa all’insieme, non al singolo e tutto viene curato nei minimi particolari. Come spiegava la frase scritta accanto al contratto.
Il Salisburgo, che giovedì affronterà all’Olimpico la Roma di Mourinho, è una delle componenti del mondo RedBull che vanta altre cinque squadre sparse per il mondo: Lipsia, Liefering, New York, Bragantino e Brasil. L’azienda ha un fatturato di 7,80 miliardi e il pallone ne è entrato a far parte solo nel 2005, dopo più di 25 anni di intuizioni vincenti e innovative. A ogni latitudine e in ogni ambito, il metodo funziona. Merito di saldi principi e di una struttura solida e ben organizzata. «La possibilità di avere più club “satellite” è un grandissimo vantaggio per noi. Riusciamo così a mettere i giovani ragazzi che compriamo nelle condizioni migliori per esprimersi».
Da Haaland a Manè, pietre grezze diventate diamanti di valore assoluto.
Di esempi se ne potrebbero fare moltissimi. L’iter infatti è spesso simile. Si parte dal Salisburgo, si fa una tappa a Lipsia per consacrarsi e poi via in una grande squadra. Subito. Senza paura di non essere pronti, grazie all’esperienza acquisita e al modo in cui si è stati formati. Haaland e Manè sono solo due dei tantissimi che si potrebbero citare, grandi giocatori che sono partiti da lì e hanno poi spiccato il volo. Plusvalenze e pietre grezze diventate, nel tempo, diamanti di valore assoluto. Nel loro caso senza bisogno di tappe intermedie, o per lo meno non al Lipsia. «Sia Erling che Sadio hanno avuto grande lungimiranza oltre che una classe fuori dalla norma. Hanno scelto di venire in Austria per crescere e sentirsi pronti per fare il salto. Le loro carriere e i loro successi sono i nostri trofei più belli».
Crescita e futuro, ottimi profitti e uno stimolo per i giovani
Cinque su dieci tra le cessioni più costose nella storia del Salisburgo sono andate poi al Lipsia. Keita, Sesko, Szoboszlai, Haidara e Upamecano. Tre di loro sono ancora lì. Naby Keita è stato portato a Liverpool per 60 milioni di euro, Upamecano per 42 è andato invece al Bayern. Il primo nel 2013 era stato preso a poco più di un milione dall’Istres, in terza serie francese, il secondo più o meno al doppio (2 milioni) dalla squadra B del Valenciennes. Fiuto, guizzo e gestione. Per questo da quelle parti i dogmi sono crescita e futuro. Si crea, si costruisce e si riparte. Sempre con ottimi profitti. Parlano i fatturati e le plusvalenze, ma anche il campo. «Ci sono tanti calciatori che sono passati da qui e poi hanno fatto grandi carriere. Ma è bello che sia così. È uno stimolo importante per tanti giovani, che guardano con ammirazione il modello e hanno voglia di mettersi in gioco». Catturati dal metodo.
Competenze, soldi e visione. Lo sguardo è volto al futuro e si punta in alto. La Roma è avvisata. Le regole sono chiare, precise e definite ancora oggi. Proprio come su quel foglio, messo accanto al contratto, che gli allenatori devono firmare prima di accettare l’incarico. Patto di fedeltà a una filosofia.