a cura di Alessandro Lunari
Il Sant’Ambroeus in questi 5 anni è cambiato per forma e composizione. Stranieri da qualunque parte del mondo e tanti italiani: un melting pot perfetto. Ognuno con la sua storia.
Il capitano del Sant’Ambroeus è arriva da El Salvador nel 2017. Si chiama Fran Alfaro e fa l’attaccante. Nel suo Paese giocava tra Serie B e C, qui ha riniziato tutto da capo: «Il vero problema in El Salvador è la delinquenza: mio padre ha un negozio di pullman e negli anni abbiamo subito rapine e avuto problemi con il personale. È morto anche un ragazzo. Un giorno mi fa: ‘Fran, non puoi più stare qua. Rischi troppo tu e la tua famiglia. Cerca un Paese sicuro e vattene’. Non volevo crederci, ma avevo già due figlie e una moglie. Pur essendo vicini per entrare negli USA è difficile prendere i documenti. Così ho pensato prima alla Germania e poi all’Italia. Ho comprato i biglietti dell’aereo e siamo partiti. Senza conoscere nessuno, con la più piccola che aveva appena 3 mesi. Per 15 giorni ho affittato un albergo, poi ho pensato che a Milano avevo un amico. Mi ha offerto la casa per 6 mesi ed è grazie a lui che ho iniziato a giocare a calcio qui in Italia».
Già perché quando Fran arriva il Sant’Ambroeus ancora non esiste: «Giocavo in un altro club, eravamo 7 stranieri: 3 da El Salvador e 3 dall’Ecuador. Troppo spesso capitavano episodi di razzismo, a fine stagione la società ci disse che voleva solo italiani. Così ce ne siamo andati, insieme al ds: ‘Facciamo noi una squadra’. Siamo partiti dalla Terza Categoria, con una squadra di soli stranieri a grande maggioranza sudamericana: il Depor. Il Covid ha complicato tutto. Poi… c’è stata la possibilità di fonderci con il Santa». Sì, la squadra di Fran era una di quelle da cui è poi partito il progetto dell’Ambroeus.
Ora ne è capitano, dopo alcune stagioni: «Ho trovato una seconda famiglia. Gli allenamenti, le partite, è un piacere stare insieme con tutti questi ragazzi. La cosa più bella è stata fondermi con lingue e culture differenti. È come se conoscessi tutti sin dal primo giorno. Addirittura hanno organizzato corsi di lingua italiana per la patente». La missione è chiara. Fran per l’accento, il fisico e la capigliatura curata ci ricorda Javier Zanetti. D’altronde è interista come lui: «Ho sempre fatto l’attaccante, sono cresciuto guardando l’Inter di Ronaldo. Dicevo a mio papà: ‘Mi compri le scarpe R9’. E poi c’è una grande tradizione sudamericana, non potevo non tifare Inter. Ora ho 36 anni, finché Dio mi darà la forza io giocherò».
Fran si è ricostruito una vita. Ha ricominciato da capo, con sua moglie e le sue due bambine. Non è stato facile ripartire senza affetti, amici, lavoro e soldi: «Ho pianto tutti i giorni per due anni. È difficile: non hai nessuno, resti senza soldi, senza documenti non puoi lavorare. Un mio amico mi ha suggerito, dopo un momento di crisi: ‘Torna giù. Qui non riesci a vivere’. E io: ‘No, non posso tornare a El Salvador. Rimango qui, lo devo fare per la mia famiglia’. È stato complicato, qui fa anche freddo rispetto a giù dove ci sono sempre 30 gradi». Come sempre, la svolta nella vita di Fran qui in Italia gliel’ha data il calcio: «Mentre giocavo a pallone, un signore mi ha visto. Anche lui era di El Salvador: ‘Ehi, Fran. Vuoi venire in una chiesa cristiana?’. Siamo molto religiosi: lì ho trovato persone che avevano richiesto l’asilo politico. Passano 3 mesi e lo ottengo. Ora sono tranquillo da 6 anni. Non vorrei mai tornare giù, anche se non vedo i miei genitori, i miei nonni da quel momento. Ho incontrato solo una volta mio fratello. Ma non ci penso nemmeno: la mia vita ora è qui».
La bellezza del Sant’Ambroeus è la capacità di unire persone dalle storie più diverse. Tra chi lascia tutto e sale in un aereo, a chi arriva qui su un barcone o a chi lascia la propria casa in altre parti d’Italia per studio o lavoro.
La storia di Jacopo Gimbo è quella di migliaia di ragazzi italiani che lasciano il Sud per trasferirsi nelle grandi città del centro-nord per l’Università o per delle migliori condizioni lavorative: «Ho lasciato Catania dopo le superiori. Sono venuto a Milano per studiare e lavorare, ma se non fosse stato per il Santa sarei già andato via.
Sono qui dalla seconda stagione, prima avevo giocato in una squadra sempre di calcio popolare. Dopo un paio d’allenamenti qui, mi sono innamorato dell’ambiente: era incredibile entrare in uno spogliatoio dove ero io lo straniero. Si parlavano tantissime lingue e quella meno conosciuta era l’italiano perché eravamo solo 3-4».
La solidità del progetto e il mix culturale hanno poi fatto il resto. D’altronde il calcio non è mai solo calcio: «Il pallone è diventato uno sfogo. Al Santa ho trovato un motivo per continuare a giocare e restare in questa città. Io sono siciliano, non ho problemi coi documenti ma qui c’è una comunità pronta ad accoglierti, ricca di persone che hanno studiato e capaci di arricchirti ogni giorno».
Jacopo è il classico ragazzo fuorisede. La sua Catania dista qualche centinaia di chilometri dalle coste africane. È fortunato, lo dice lui: «Quando ascolti le loro storie, fatte di viaggi su barconi di 120 persone che arrivano con appena 10 sopravvissuti… ti va via il fiato. Pensateci un attimo: io mi lamento per venire qui a Milano, ma arrivo in aereo con una casa senza problemi con i documenti. Sentire i racconti di questi ragazzi è una cosa che ti rimette al mondo: capisci quanto sei fortunato ad essere nato in un luogo piuttosto che in un altro.
Credo che ci siano meno chilometri fra Catania e il nord Africa rispetto a quelli per arrivare a Milano. Il valore delle persone non può essere riconosciuto solo in un documento. Il Sant’Ambroeus è una delle poche società che basa il proprio pensiero su questi ideali e valori in un mondo, come quello del calcio, che è spesso discriminatorio». Quel ragazzo entrato in punta di piedi è ora è una delle certezze del progetto: con 47 gol è il miglior marcatore del club. Punta i 50 entro Natale, ma di mezzo c’è un infortunio.
Ora sta a lui accogliere i nuovi arrivati: «Quando si presentano dei ragazzi nuovi provo a dar tutto il calore e l’amicizia possibili. Non vogliamo che si pensi che il Sant’Ambroeus sia un esercizio politico: per me è importante far capire che quando oltrepassi quel cancello diventi mio amico, anche perché di base significa che condividiamo gli stessi valori. E l’amore per il calcio. Pensate quando sono arrivato a Milano ho trovato prima una squadra che una casa: avevo un club, ma non un tetto».
I tifosi del Piccione: l’Armata Pirata 161
Ma il Sant’Ambroeus non è tutto qui. Nel giugno 2018, appena due mesi dopo la fondazione del club, un gruppo di 4 ragazzi ha deciso di accompagnare la squadra ogni domenica. Abbiamo parlato con Stefano Diena, capo ultras dell’Armata Pirata 161: «Facevamo parte dei collettivi studenteschi e dei centri sociali. Quando è nato il Santa, ci siamo detti: ‘E perché noi non facciamo il gruppo ultras?’. Così il 18 giugno 2018 ufficializziamo la nascita dell’Armata. Non avevamo soldi per fare gli adesivi, gli striscioni… abbiamo iniziato con cose terribili. Ma come ci crediamo adesso, ci credevamo allora». Da 4 ragazzi, sono diventati poi 30, 40 ad accompagnare il Santa in ogni partita. Per le sfide importanti arrivano anche a 100.
L’Armata Pirata 161 nasce inizialmente con l’intento di emulare le curve del calcio mainstream. Dopo poco, però, Stefano e gli altri capiscono che quella non è la loro direzione: «Ci siamo affacciati a questa realtà non comprendendone subito le potenzialità e i valori. Ci comportavamo come tutte le curve, ma ora invece vogliamo combattere il calcio moderno. Si sta perdendo la passione, ma un altro calcio, per noi, è possibile. Il Sant’Ambroeus mira a questo: il calcio popolare. Non esistono proprietari e finanziatori: si rende attiva la partecipazione di chiunque. Dall’ultimo giocatore all’ultimo tifoso: tutti devono sentirsi coinvolti».
Il gruppo ultras del Sant’Ambroeus ha il compito di portare fuori dal rettangolo di gioco gli stessi valori: «Non lasciamo nessuno indietro. Vogliamo prenderci cura di tutte le persone che fanno parte della nostra società. Questa è la forza del calcio popolare. Qual è la differenza principale con le tifoserie mainstream? L’assenza di contestazioni. La squadra, la curva, la dirigenza sono la stessa cosa. L’Armata ha dimostrato di avere un’incredibile capacità aggregativa. Una cosa così, a Milano, non si vedeva da tempo. È stata la nostra vittoria più grande, fin qui».
Che sia in casa o in trasferta l’Armata c’è sempre. Anche se la domenica alle 14.30 è un orario un po’scomodo, ci racconta scherzando Stefano: «Il pranzo influisce un po’ sul tifo del primo tempo. Siamo ancora un po’ addormentati nel primo tempo. Ci servono 45 minuti per carburare, ma siamo bellissimi lo stesso eh!». Sugli spalti sventolano bandiere, suonano tamburi e lanciano cori. L’atmosfera è davvero unica. Poi striscioni e bandiere con il teschio: «All’inizio sembrava un po’ One Piece. Così abbiamo scelto di aggiungere il 161 – l’acronimo di azione antifascista – ha dato un tocco di creatività al nome e non solo. È il simbolo dei valori in cui crediamo, un posizionamento politico che si aggiunge all’identità e all’immaginario forti creati dal ‘pirata’».
La raccolta firme contro Qatar22, l’emergenza freddo e il terremoto in Marocco
Stefano ci racconta come di fatto il calcio popolare stia prendendo sempre più piede in Italia. Esistono più di 50 realtà sparse per tutto il Paese che si fanno portatrici di valori e messaggi forti, in campo e fuori. Il Sant’Ambroeus e l’Armata Pirata vanno avanti intrecciando progetti, visione e valori. Lo scambio culturale alla base. In Italia e non solo: «Abbiamo amici a Clapton e a St. Pauli, oltre che nel resto d’Italia. Non abbiamo gemellaggi ufficiali, ma tutto il movimento sta crescendo. A Genova, i ragazzi della Resistente organizzano da due anni un festival stupendo. Siamo sicuri che diventeranno un punto di riferimento in Italia.
Nel settembre 2022 abbiamo unito tutte le realtà italiane contro il Mondiale in Qatar: abbiamo raccolto circa 50 firme. Manca un po’ di coordinamento e iniziativa comune, ma quello è stato il primo passo. In Italia è nato il movimento ultras e noi siamo stati anche il primo Paese ad aver subito una certa repressione. In Germania sono ancora agli ’90, c’è totale unione tra società e tifoserie. Il calcio popolare in Italia nasce anche come risposta a questo: serve un’identità politica, una socialità libera. Stiamo cercando di fornire un modello tutti insieme».
Ma non è finita qui. L’Armata Pirata 161 va ben oltre il calcio: l’obiettivo è quello di essere un punto di riferimento per la comunità, per Milano e non solo. Vanno nelle scuole, tengono discussioni su temi sociali rilevanti e sono pronti a partire con due progetti di gran valore: «Con l’arrivo dell’inverno, faremo l’emergenza freddo: aiuteremo i senzatetto con vestiti e materiali per riscaldarsi. Puntiamo a uscire dal rettangolo verde. Non cerchiamo visibilità come gruppo, ma magari per le nostre iniziative e per dar credito al Sant’Ambroeus. Per farlo, servono sponsor e una rosa sempre più competitiva per salire di categoria. Qui manca il milionario che finanzia, così dobbiamo essere noi stessi ad aiutarci».
Lo sguardo non è rivolto solo all’Italia. Dopo il terremoto di settembre in Marocco, che ha causato più di 30000 vittime e devastato città intere, Armata Pirata 161 e Sant’Ambroeus hanno deciso di dar vita a una raccolta fondi per aiutare la popolazione colpita dal sisma con l’acquisto di medicine e beni di prima necessità. Tra fine novembre e inizio dicembre i ragazzi partiranno e andranno in Africa per portare forza lavoro nei villaggi più in difficoltà. Il calcio come sempre sullo sfondo: ci sarà spazio anche per un torneo con la Tribal Dynamo, una squadra amatoriale marocchina proveniente da una delle zone più colpite.
Il Sant’Ambroeus e l’Armata Pirata 161 fanno sul serio. Se lo sono messi in testa. In 5 anni sono riusciti ad ottenere risultati straordinari con il loro progetto di integrazione in una città variegata e multiculturale come Milano. L’obiettivo è espandersi. D’altronde, hanno trovato la chiave per mettere tutti d’accordo: il calcio popolare.