«Braida tirò fuori una maglia e mi disse: ‘Andriy, tu con questa vincerai il Pallone d’oro’»

by Redazione Cronache

Si chiama ‘Forza gentile’, è l’autobiografia di uno degli attaccanti più forti della storia, l’ucraino Andriy Shevchenko, ed è uscita nelle librerie il 29 aprile.
Noi ce la siamo già divorata, in neanche quarantotto ore, 285 pagine di ricordi, dall’URSS, passando per l’esplosione del rettore numero 4 della centrale nucleare di Chernobyl, il Mar Nero, la Dinamo Kyiv, il Colonnello Lobanovskij, fino al Milan, Berlusconi, Ancelotti, Galliani, Braida e la Champions League.

«Era radioattivo.
Il mio pallone era radioattivo.
Bruciava. Si scioglieva, accartocciandosi su se stesso.
Puzzava, di quel fetore che emana la plasticaccia quando viene gettata tra le fiamme. Si sgonfiava. Soffocava. Moriva.
Avevo portato dentro casa un pezzo di Chernobyl.
Una piccola bomba atomica, mimetizzata all’interno della mia passione più grande: sognavo di diventare un calciatore, lo sapeva chiunque nel quartiere di Kyiv in cui vivevo.
[…]
Papà Nikolay non sembrava preoccupato. O meglio: se lo era, noi non ce ne stavamo accorgendo. Lavorava per l’esercito, dove insegnavano certe volte a fingere, altre a come mascherare le proprie emozioni. Osservava quell’incendio improvvisato, stringendo forte tra le mani uno strano apparecchio, che non avevo mai visto prima: serviva per il livello di radiazioni, anche negli oggetti. […] Neanche mamma Lubov parlava. […] Aveva dato fuoco alla palla con l’aiuto di papà, dopo averla buttata in una bacinella. Forse non aveva scelto il metodo migliore per cancellare i peccati altrui, di sicuro la sua è stata l’idea più immediata per dissolvere le tracce lasciate dal diavolo. Con un dettaglio, lì per lì sottovalutato: il diavolo, quando la temperatura aumenta, si sente a proprio agio. In particolare quel tipo di demone».

«A marzo la Dynamo Kyiv mi aveva selezionato per il proprio settore giovanile, grazie alla partecipazione a un torneo fra scuole. Io frequentavo la 216 (gli istituti non venivano identificati con un nome bensì con un numero), un palazzo grigio di tre piani. Il quartiere era quello di Obolon, un’area sorta da pochi anni con asilo, scuola, campo sportivo, cinema, parco giochi, clinica, insomma tutto ciò che doveva esserci.
Ad assistere alle partite era arrivato Oleksandr Shpakov, allenatore dei piccoli della Dynamo […].
Non è che ricoprissi un ruolo definitivo, correvo avanti e indietro, giocavo dappertutto. Difendevo, mi spostavo  in mezzo, puntavo la porta avversaria e facevo gol. Prima di allora non avevo mai disputato un match 11 contro 11, addirittura con la presenza di un arbitro, di due portieri e con un po’ di erba ai lati del campo, per il resto di terra battuta. Ero abituato a sfide senza regole, di puro cuore, in cui vinceva chi non veniva travolto dalla fatica o richiamato dalla mamma perché era pronta la cena. Di solito trovarmi risultava un compito facile: bastava girare gli stadi vicini a dove vivevo. Nelle mie fantasie certe volte vestivo i panni di Ole Blochin, oltre a quelli di Oleksandr Zavarov, entrambi attaccanti.
Non mi ricordo con esattezza quando sia scoccata la scintilla per il calcio, anzi, non mi stupirei di essere nato direttamente con un pallone fra i piedi. So invece che aver incrociato Shpakov sulla mia strada mi ha cambiato la vita. Al termine di una partita di quel torneo mi si è avvicinato, presentandosi e porgendomi un foglietto: ‘Qui ci sono il mio nome, il mio indirizzo e il mio numero di telefono. Fammi contattare dai tuoi genitori. Ti piacerebbe sostenere un provino per la Dynamo?’
Domanda retorica, la risposta spettava però a loro.
Sono tornato subito a casa, papà non sembrava molto interessato, mamma ha reagito con una domanda: ‘Vuoi andare?’
‘Sì, è la Dynamo Kyiv…’
‘Allora vai.’
Papà si è adeguato: ‘Va bene, vai a provare.’
A quel punto mamma ha contattato l’allenatore, che ci ha fornito tutti i dettagli dell’appuntamento. Ed è stata proprio lei ad accompagnarmi. Sapeva che non avrei desiderato altro, mi voleva bene».

«Per il calcio ho dato tutto. Ma per l’hockey mi sono buttato da una finestra, dal primo piano di casa. Era inverno. Un bellissimo inverno, di quelli con il cielo terso e i colori pieni, che riflettevano nella neve tante storie, una diversa dall’altra. Una collezione di quadri perfetti, a tinte fredde. […] Sono tornato da scuola, mamma come sempre mi aspettava per il pranzo.
‘Andriy, come sono andate le cose oggi?’
‘Dove?’ Prendevo tempo.
‘Come dove? In classe…’ Lei mi incalzava.
‘Non benissimo, mamma.’ Ho detto sottovoce.
‘Perché?’ Non ha mollato.
‘Abbiamo fatto un test e…’ Ormai stavo capitolando.
‘E?? La domanda davanti alla quale non potevo più scappare.
‘Ed è andata male. Però te lo racconto dopo, ora sono di fretta perché, dopo mangiato, devo andare al lago a giocare’, ho risposto, ma intanto sapevo di essere spacciato.
‘No Andriy, adesso resti a casa a studiare. Così, quando stasera tornerà papà, saprai cosa raccontargli. E domani rifarai il test.’
In effetti, ogni volta che mio padre rientrava dagli impegni con l’Esercito, chiedeva della scuola. Di come procedessero le cose. Si informava sui voti e sulle lezioni. Non avrebbe accettato di buon grado quanto appena accaduto.
Dopo pranzo, mamma è andata al lavoro, a tre minuti a piedi da dove abitavamo. E siccome fidarsi è bene ma non fidarsi è meglio, quando è uscita ha chiuso la porta a chiave. Cioè: l’ha chiusa e si è portata via le chiavi, per essere propri sicura che non scappassi. Ho resistito mezz’ora scarsa davanti ai libri, poi ho sentito il forte richiamo. Dovevi andare al lago. Dovevo proprio. Ho individuato in una finestra la via di fuga perfetta per non lasciare tracce. L’ho spalancata e, dopo essermi assicurato che nessuna persona stesse passando lì sotto, ho preso il bastone da hockey e l’ho lanciato giù.
Non ho ammazzato nessuno, per fortuna.
Poi, è toccato ai pattini.
Di nuovo, nessuna vittima.
A quel punto, veniva il difficile: dovevo buttarmi io.
Non ci ho pensato un secondo: una breve rincorsa, un balzo ed ero giù. Fradicio per essere atterrato sulla neve, ma tutto intero. […] Ho recuperato l’attrezzatura e ho raggiunto i miei amici, che mi stavano aspettando per iniziare la partita. Giocando, e divertendomi, ho perso la cognizione del tempo, mi sono accorto di quante ore fossero passate solo quando è sceso il buio. Sono rientrato in tutta fretta e, durante il tragitto, provavo a immaginare come i miei genitori mi avrebbero punito. Ero andato male a scuola, non avevo fatto i compiti, ero scappato, mi ero buttato di sotto, avevo giocato a hockey senza permesso: mi aspettavo il peggio. Soprattutto, temevo la furia di mio padre. Gli ultimi metri prima di arrivare sono stati terribili, ero indeciso se proseguire o scappare lontano. Ho preso coraggio, papà in effetti mi stava aspettando sotto casa.
‘Ciao, Andriy.’
‘Ciao.’
‘Entra.’
Ho pensato ecco, ci siamo. Ero pronto a tutto. O meglio, a tutto tranne a ciò che è realmente accaduto: mi ha perdonato. Abbiamo parlato e ha capito che, di fronte allo sport, proprio non potevo resistere. La mia assomigliava più a una missione che a un capriccio. A una forza interiore, devastante in senso positivo. Coinvolgente. Benzina sul fuoco della passione, che bruciava dentro di me. C’erano voglia e impegno, questo gli è bastato».

«Proprio nell’estate in cui non mi hanno ammesso all’università, siamo andati a giocare un torneo vicino a Milano, non più nel Sud del Paese come accaduto la volta precedente. Abbiamo vinto. Sono stato premiato come miglior calciatore della manifestazione. Ma soprattutto ho visitato San Siro, di cui avevo visto solo le immagini televisive, che a Kyiv a quei tempi non arrivavano neanche così nitide. Giungevano rare e brutte. Portavano la nebbia nelle nostre case anche quando la nebbia non c’era. E a me, nonostante le trasmissioni fossero di scarsa qualità, quello stadio aveva sempre affascinato. Me lo immaginavo magico e misterioso, mi incuriosiva, e quasi era bello averlo sempre intravisto poco e male, sgranato: al momento giusto ci sarebbero stati più angoli da osservare, un maggior numero di emozioni da vivere.
L’occasione si è presentata durante uno dei giorni liberi del torneo. Non erano in programma nostre partite, allora abbiamo chiesto a Lysenko di portarci in città, a San Siro. Di lasciarci un po’ di libertà. Permesso accordato. Grazie alle sue conoscenze ci ha accontentai e, appena ho messo piede dentro lo stadio, è scattato qualcosa. Mi sentivo a mio agio, in un posto familiare, nonostante fosse sostanzialmente sconosciuto. Come se il mio subconscio sapesse ciò che in realtà io ancora ignoravo. La mente viaggiava veloce, i pensieri diventavano difficili da governare, uno in particolare: ‘Un giorno giocherò qui’. Era il 1992. Mi sono quasi commosso, un momento intimo che io stesso ho fatto fatica a comprendere. Non ho pianto, ma se fosse scesa qualche lacrima non mi sarei stupito. Sono stato ipnotizzato  dalla maestosità del luogo. Il prato era perfetto, il campo immenso, le tribune avevano un aspetto nobile, elegante. Osservavo le quattro torri agli angoli dello stadio, a delimitare il perimetro, e mi immaginavo altrettanti silos in cui conservare i palloni utilizzati per segnare i gol più belli.
Un museo dentro a un museo.
La storia dentro la storia.
Stavo muovendo i primi passi all’interno del mio domani, non potevo prevedere il futuro, in ogni caso lo percepivo. Ne avvertivo le vibrazioni, simili a quelle provocate dai tifosi quando si muovono tutti insieme, cantando all’unisono. Chi non salta nerazzurro è. Perché a San Siro, in quel momento, io mi stavo immaginando il Milan che giocava.
Solo il Milan.
Nessun’altra squadra.
Il rosso e il nero.
Nessun altro colore.
L’Inter era un grande team, ma a quell’epoca il Milan poteva contare su calciatori come Marco van Basten, Paolo Maldini, Franco Baresi. Miti assoluti, campioni ai miei occhi inarrivabili».

«Sulla strada della guarigione, il calendario internazionale aveva piazzato una sfida storica: Ucraina-Russia del 5 settembre 1998, valida per le qualificazioni agli Europei del 2000. Il primo scontro diretto dopo l’indipendenza dall’Unione Sovietica del 1991. Kyiv ribolliva, e non erano solo pensieri o propositi positivi. Ruggine e orgoglio, e poi ovviamente lo sport. Noi contro loro. 11 contro 11. 50 milioni di abitanti contro 150 milioni. I piccoli e i grandi, almeno all’apparenza in quest’ordine. Abbiamo vinto 3-2, neppure quella volta ho segnato, però ho giocato bene. Nessun problema quindi. In tribuna 82.100 persone, o meglio, 82.099 più una: Ariedo Braida, direttore sportivo del Milan. Mi era arrivata la soffiata. Giocavo per l’Ucraina, contro la Russia e per lui. Ho triplicato le forze. Ho moltiplicato me stesso. E dopo la partita, una volta uscito dagli spogliatoi, ho ricevuto la convocazione da parte della dirigenza della Dynamo: ‘Andriy, domani mattina vieni nella nostra sede. C’è una persona che ti vuole conoscere.’ Non era difficile immaginare chi fosse.
Non avevo mai incontrato nessun dirigente del Milan, fino a quel momento. Ho dormito bene e mi sono svegliato sereno. Mi sono presentato all’appuntamento, in ufficio ho trovato i fratelli Surkis e Braida. C’era anche Rezo, che per la prima volta, di fatto, usciva allo scoperto davanti a me, ufficializzando il ruolo che gli era stato affidato. Quella volta, siccome parlava bene italiano, doveva tradurre le parole di Braida, un signore molto elegante, con un ciuffo ben pettinato. Si vedeva che teneva al proprio aspetto.
‘Caro Andriy, il Milan ti sta seguendo. Siamo contenti che tu possa lavorare con Lobanovskij, lo conosciamo e apprezziamo parecchio lui e suoi metodi. Complimenti, sei stato bravo ieri sera, e non preoccuparti se non sei riuscito a fare gol. Continueremo a guardarti, gli occhi di Rezo saranno i nostri. Ah, ti ho portato un regalo…’
E mentre lo diceva, da una borsa, ha estratto una maglia. Come si fa con il coniglio dal cilindro. Una maglia. Un colpo di scena. Rossa e nera. A strisce, stilosa, come la persona che l’aveva portata fino a lì. Dall’Italia. Per me. Luccicava, come il più prezioso dei gioielli. Sulle spalle una scritta dorata: Shevchenko. Il mio nome. Sotto, il numero 10. Era la mia maglia. La maglia del Milan. Mancava il bigliettino con la dedica, che mi è stata fatta direttamente a voce da Braida.
‘Andriy, tu con questa vincerai il Pallone d’oro.’
Sono scoppiati tutti a ridere. Io sorridevo».

«Dovevo tornare a scuola, così aveva deciso il Milan.
L’accordo con la Dynamo Kyiv prevedeva che andassi a Milano due mesi prima dell’inizio della nuova stagione, per imparare l’italiano. […] Come ogni scuola italiana che si rispetti, anche la mia a un certo punto ha chiuso i battenti per le lunghe ferie estive. O meglio, sono stato io a partire per la Sardegna, sede del pre-ritiro organizzato dal Milan in vista della stagione 1999/2000. Il battesimo rossonero. La società, dopo aver vinto il 16° scudetto della propria storia e aver concesso ai suoi calciatori un mese e mezzo di vacanza, aveva convocato al mare i nuovi arrivati: oltre a me, fra gli altri, Rino Gattuso, proveniente dai Rangers di Glasgow.
[…] abbiamo raggiunto Cala del Faro, un angolo meraviglioso della Costa Smeralda, dove abbiamo conosciuto i fisioterapisti, i medici, oltre ai preparatori atletici […].
Noi neo-acquisti siamo rimasti a Cala del Faro due settimane, mentre di tanto in tanto si affacciavano anche i vecchi, per intenderci quelli che si erano laureati da poco Campioni d’Italia. Rimanevano un paio di giorni, lavoricchiavano e poi ripartivano. Costacurta, Demetrio Albertini e Massimo Ambrosini, subito dopo la conquista dello scudetto, avevano affittato uno yacht, in quel periodo ormeggiato a Porto Cervo. Un giorno mi hanno invitato per una gita, sono stati molto carini, mi volevano coinvolgere, però l’atmosfera ha rischiato ben presto di diventare imbarazzante.
Loro parlavano e io capivo poco.
Io parlavo poco e loro non capivano niente.
Per togliere l’intero gruppo dall’impaccio, appena giunti in mezzo al mare, ho preso la moto d’acqua e sono andato a fare un giro, durato un paio d’ore. Una fuga per timidezza. Non mi sono allontanato eccessivamente dalla barca, ogni tanto alzavo il braccio, muovevo la manina e facevo ciao. Avranno pensato: poverino».

«Mi era stata assegnata un’auto aziendale, di quelle veloci che piacciono a me, ma nelle prime settimane non mi fidavo a guidarla, non conoscevo le strade. Né quelle di Milano, né i cinquanta chilometri di tragitto che speravano il Jolly Hotel dal centro sportivo. Ogni tanto uscivo di notte, nel destro creato dal buio, per prendere le misure fra vie e circonvallazioni. Costacurta e Rezo non avrebbero potuto farmi da autisti per sempre. Un mattino ho pensato: ‘Oggi non voglio che mi accompagni nessuno, guiderò da solo fino a Milanello’. Non è stata la mia intuizione più indovinata. Rezo, vedendo che non arrivavo a destinazione, mi ha telefonato.
‘Andriy, tutto bene? Sono già qui e ti sto aspettando.’
‘Tutto bene Rezo, sto arrivando’.
O almeno di quello ero convinto. Dopo un’ora, Rezo ha richiamato.
‘Andriy, l’allenamento starebbe per iniziare.’
‘Sì, sì, ti ho detto che sto arrivando.’
‘Non per farmi gli affari tuoi, ma potresti dirmi cosa c’è scritto sui cartelli stradali? Leggimi il primo che vedi.’
‘Rezo, ce n’è uno proprio qui.’
‘Dai, leggi.’
‘C’è scritto Verona, un chilometro.’
‘Andriy, credo tu abbia sbagliato strada…’
‘No, Rezo. Sto arrivando.’
‘Sì, Andriy. Arriverai, ma con un discreto ritardo. Ora torna indietro.’
Sono uscito dall’autostrada, imboccando la corsia in senso contrario. Mi sono concentrato. Dopo un tempo indefinito è squillato di nuovo il cellulare. Era ancora Rezo.
‘Andriy, stai arrivando giusto?’
‘Sì, Rezo.’
‘Leggimi il primo cartello che vedi, per favore.’
‘Va bene. C’è una freccia verde grande, con un nome sopra.’
‘Quale nome, Andriy?’
‘Genova.’
Silenzio. Forse era svenuto. Per fortuna, quella freccia indicava solo la direzione, e non l’effettivo arrivo in città. Avessi continuato senza deviazioni, avrei raggiunto il mare.
‘Andriy adesso stiamo al telefono, non riagganciare.’
Rezo, per l’occasione, è diventato il mio navigatore personale. Nel momento in cui ho varcato i cancelli di Milanello, qualcuno ha applaudito. Non era Zaccheroni, che in ogni caso ha perdonato il mio errore commesso in buonafede».

«Mi voleva bene. Gli volevo bene. Mi faceva ridere, come Serginho, uno con cui amavo scherzare durante gli allenamenti.
‘Sergio, sei pigro, devi lavorare di più.’
‘No Andriy, non sono io a lavorare poco, sei tu che esageri.’
Un pomeriggio a Milanello splendeva un sole bellissimo.
‘Andriy, hai visto che tempo meraviglioso?’
‘Sergio, corri…’
‘Andriy, in Brasile il sole significa estate.’
‘Corri…’
A quel punto, mentre stavamo giocando una partitella fra compagni, Serginho si è coricato sul campo e ha chiuso gli occhi.
‘Sergio, ma cosa stai facendo?’
‘Oggi è estate, Andriy. E io mi godo il momento. Lasciami prendere il sole.’
Serginho aveva il dono di rendere leggero anche ciò che era pesante. Una dote preziosa. Una sua risata ti permetteva di affrontare ogni istante con allegria. Toda joia, toda beleza».