Tomás Rincón si racconta: «I sacrifici, il Venezuela e la Ferrari di Dybala»

by Giacomo Brunetti

Quando ha preso l’aereo per il Brasile ha accettato una sfida delicatissima: salvare il Santos, mai retrocesso nella sua storia ultracentenaria. Purtroppo, però, alla fine di quella stagione Tomás Rincón si è messo le mani sul volto per la delusione. A 35 anni aveva accettato l’impresa, «quando è arrivata l’offerta del Santos, ero consapevole che la situazione non fosse rosea». Mancavano 5 mesi alla fine del campionato e «sarebbe stata la prima retrocessione, una cosa grave». Il primo impatto «è stato fortissimo: abbiamo fatto delle grandi partite con 4 successi consecutivi, battendo squadre come Palmeiras e Flamengo, che erano nelle prime posizioni. Sembrava che potessimo salvarci, ma non è andata così. Il giorno in cui siamo retrocessi c’era un clima di guerra, c’era addirittura un’elicottero che sorvolava la città, ho visto tifosi dal fuoco alle macchine e bombe carta che volavano». Ma è ripartito da lì, dalla seconda divisione brasiliana, da un Santos che aveva bisogno della sua esperienza pluridecennale tra Europa e Venezuela, della cui Nazionale è un idolo, oltre che un perno. E ha riconquistato la promozione.

«Ho deciso di rimanere – ci racconta – e i tifosi hanno visto in me una figura forte, un calciatore che si è messo in discussione, e sono diventato anche capitano nel giro di pochi mesi. Mi hanno chiesto se volessi rimanere per ricostruire ciò che si era perso: il Santos era appena retrocesso, ma i problemi andavano avanti da qualche stagione. Siamo subito risaliti: è stata una decisione forte, ma ha pagato», ed è impossibile chiedergli dell’idolo di casa: «L’alone di Neymar qui è ancora presente: è considerato un principino, i tifosi del Santos aspettano e sognano un suo ritorno».

Neymar è uno dei talenti che sono esplosi da giovanissimi in Brasile. Non il primo, ma sicuramente uno dei più brillanti di una schiera che oggi vede Endrick ed Estêvão in copertina: «In Brasile ci sono dei talenti clamorosi: Palmeiras, Santos e tante altre lavorano bene con i ragazzi, ci sono delle strutture pazzesche, hanno dei talenti assurdi che giocano per strada e poi diventano calciatori. La vera sfida è far sì che non si perdano, perché socialmente qui non è facile. Qui in Brasile un aspetto che mi piace è che se sei bravo, giochi, indipendentemente dal fatto che tu possa avere 16 anni o 18. Se puoi performare in prima squadra, entri. Ad esempio Estêvão, che in proporzione è ancor più forte di Endrick, penso che abbia un talento ancor più naturale. Endrick fisicamente è più tosto, ma Estêvão è una roba pazzesca». Anche il Santos, una squadra storica, non se la passa male: «Abbiamo 3 giovani di prospettiva: Jair Cunha, che ha avuto offerte importanti anche dal Porto e da altre squadra, anche un’italiana, e due terzini, Souza e Chermont. Cunha, prima che si facesse male, lo volevano anche Barcellona e City. Recentemente è arrivata un’offerta di 25 milioni, fortissimo».

Il suo arrivo in Europa si è materializzato nel 2009, quando a 21 anni lasciò il Deportivo Táchira in patria per firmare con l’Amburgo in Germania. Ci ha trascorso 5 anni, affermandosi come uno dei pochi calciatori venezuelani a essere diventati famosi dall’altra parte del mondo. Impossibile dimenticare il suo salvataggio ‘nosense’ di cabeza contro lo Schalke 04, uno di quei video virali che ogni tanto tornano a popolare i nostri telefoni: «Mi ricordo che all’inizio dell’azione stavo facendo il terzino destro e tenevo in gioco Kurányi, che era l’attaccante dello Schalke 04. Lo tenevo in gioco proprio io, mi ricordo chiaramente che ero almeno un metro dietro la linea difensiva. Quindi mi sentivo in colpa, sapevo di averla combinata grossa e ho provato in tutti i modi a evitare il gol, ho pensato: ‘Quel pallone non può entrare!’. Ho fatto di tutto per non farlo andare in rete». Un momento iconico della Bundesliga.

Durante il suo periodo all’Amburgo ha cementato il rapporto con la Nazionale. Proprio nel 2011, il Venezuela – che viveva una crisi sociale e politica interna – ha vissuto uno dei momenti di maggior splendore della sua storia calcistica: «La Copa América del 2011 ha cambiato la vita un po’ a tutti. A me per primo: prima non ero molto conosciuto, ma feci una Copa pazzesca. Avevo già 23 anni e il 2011 è stato l’anno in cui il Venezuela ha finalmente dimostrato di poter fare qualcosa di concreto con quel quarto posto. Perdemmo la semifinale contro il Paraguay e anche la finalina per il terzo posto, ma venimmo accolti in patria come se avessimo vinto. Il pullman scoperto, il mare di gente che ci accompagnava dall’aeroporto fino in città. È stata una delle cose più belle che abbiamo vissuto in Nazionale». Rincón è primatista di presenze (135) con il Venezuela: «È stato un lungo percorso, sono 16 anni che gioco in Nazionale. Abbiamo sofferto tanto sportivamente perché purtroppo non abbiamo mai avuto delle qualificazioni facili, in Sudamerica è così. Ma è un percorso di cui sono orgoglioso e grato perché mi ha fatto crescere, per me la Nazionale è tutto. Il giorno in cui ho fatto il record di presenze il mio procuratore è venuto a vedermi e c’era anche Maldini, la cui moglie è venezuelana. Infatti hanno fatto di tutto per provare a convocare Daniel Maldini prima dell’Italia». 

I venezuelani sono innamorati di Rincón, una delle icone in patria: «Per tanti anni la Nazionale ha rappresentato una via di fuga per il Venezuela, tifavano indipendentemente da ciò che stava capitando. Ha unito la popolazione in difficoltà, quindi è stata anche una responsabilità per noi. Vedevamo negli occhi della gente, delle nostre famiglie, che quando arrivava la Nazionale c’erano 100 minuti di gioia, anche se le partite non andavano in modo positivo. Ma questo senso di appartenenza ci ha sempre unito. Adesso abbiamo altre condizioni, siamo organizzati meglio e da quando è arrivato il nuovo presidente della Federazione, è stato fatto un ottimo lavoro, anche il nostro centro sportivo è spettacolare. Adesso abbiamo una grande possibilità: sognare di qualificarci per il Mondiale del 2036. Non ho mai sentito gli occhi addosso dei venezuelani, ma sapevo che la gente mi ha sempre apprezzato molto. C’è stato un periodo in cui la maggior parte dei miei compagni giocava in Sudamerica ed ero quasi l’unico in Europa. Quando sono arrivato alla Juventus sono impazziti tutti. È stato pazzesco».

Ovunque è andato si è fatto apprezzare. Eppure la sua carriera è stata molto strana: è arrivato in Italia al Genoa, ma ha chiuso alla Sampdoria; nel mentre ha giocato in altre due squadre, prima alla Juventus e poi al Torino, a cui è arrivato dai bianconeri. «Ho fatto una carriera particolare. Ma è stato bello: quando sei un professionista e ti impegni, la gente di rispetta, apprezza i tuoi valori». Il periodo alla Juventus ha coinciso anche con due trofei: uno Scudetto e una Coppa Italia. Oltre a una finale di Champions League persa contro il Real Madrid: «Quando sono arrivato è stato bellissimo: ho vinto due trofei, ho avuto un periodo intenso perché sono arrivato a gennaio e la squadra era impegnata nel preparare gli ottavi di Champions League. Sono grato ad Allegri: mi ha accolto benissimo, mi ha fatto giocare 19 partite in 6 mesi, sono stato il primo venezuelano a giocare una semifinale di Champions, ho vissuto periodi pazzeschi fino alla finale persa. Ho vinto il campionato e la Coppa Italia. Qualitativamente, però, ho vissuto il miglior periodo al Genoa, sicuramente il più continuo, mentre al Torino in 5 anni ho avuto più picchi, come quando abbiamo fatto 63 punti con Mazzarri».

Uno degli allenatori che ha maggiormente influito sulla sua carriera è stato Gian Piero Gasperini al Genoa. Che oggi vola con l’Atalanta: «Ho avuto modo di essere allenato da Gasp. Un cambiamento incredibile, per me che venivo dalla Germania. Il primo impatto è stato uno show. Ho avuto la sensazione di essere davanti a un genio. Burdisso mi disse: ‘Goditi questa opportunità perché ti cambierà la vita’. E infatti lo dico sempre e apertamente: Gasperini mi ha cambiato la vita, lo apprezzo molto, sono contento che anni dopo abbia potuto togliersi le soddisfazioni con l’Atalanta e vincere l’Europa League. È l’unico allenatore con cui ho lavorato che riesce a cambiare tanto un giocatore. Con Gasperini o iniziato a giocare in modo diverso: tutti i movimenti erano nuovi, a volte mi trovavo a lanciare Burdisso che era un difensore in porta e a chiedermi ‘Ma che ci fa qui?!’. È un gioco che crea entusiasmo nei giocatori, per molti è una cosa nuova. Ti fa capire il calcio».

Nei 6 mesi alla Juventus ha condiviso lo spogliatoio con numerosi campioni. Tra cui Paulo Dybala, con cui ha condiviso un aneddoto: «Quando ero ragazzo mi ero promesso che se fossi arrivato in un top-club, mi sarei comprato una Ferrari. Era una scommessa tra me e me. Una cosa mia. Quindi quando la Juventus mi acquistò, andai a prendermi una Ferrari come regalo. Uno dei primi giorni trovai Dybala nel parcheggio che mi disse: ‘Mamma mia quanto è bella’. Così gli chiesi perché non se la comprasse, dato che gli piaceva così tanto. Mi rispose: ‘Come potrei permettermi di arrivare con una Ferrari davanti a tutti questi campioni, ci sono Buffon, Chiellini, Dani Alves… e tutti gli altri’. Per me quel momento è stato un forte insegnamento, un ragazzo giovane ma molto maturo, in quel momento in grande hype alla Juventus, che faceva un discorso del genere. Paulo è un ragazzo molto speciale, lo stimo tanto». Una squadra formidabile: «Non aver vinto quella Champions League è stata una sofferenza: siamo arrivati bene in finale, eliminando anche il Barcellona. Siamo andati negli spogliatoio sull’1-1, era tutto aperto. Poi il Real Madrid ha accelerato e non siamo riusciti a contenerli. Avevano una squadra pazzesca pure loro. Mi ricordo che mentre ci avviavamo al campo, nel tunnel sono usciti i primi 4 di loro. Stavano sulla porta, parlavamo: c’erano Cristiano Ronaldo, Sergio Ramos, Bale e Benzema. Quando li ho visti, ho pensato: ‘E ora?’». Si era trasferito a Torino, dove ha lasciato anche dei ricordi granata indelebili: «A Torino è stato un periodo bellissimo. Mio figlio era appena nato e la città era bellissima. Una città nuova, nel Nord Italia, dove i tifosi mi hanno accolto benissimo nonostante arrivassi dalla Juventus. Quando abbiamo fatto quell’anno record con Mazzarri, abbiamo vissuto un momento bellissimo. Sono tornato a trovarli nei giorni scorsi perché gli voglio bene. Ci sono ancora Milinkovic-Savić, Vojvoda, Sanabria, Linetty e qualcun altro. Ricordo quando Milinkovic prese la traversa in Coppa Italia: un animale, un gigante, il portiere più enorme della Serie A, l’ho visto crescere molto».

Il suo modo di essere in campo lo ha contraddistinto. Nell’immaginario collettivo, Rincón è un guerriero: «Sono un calciatore che ama i duelli in campo. Non faccio trash-talking, ma ho grande intensità. Mi viene naturale: dalla passione, dall’intensità, dalla rabbia agonistica, quella che voi chiamate ‘garra’. Durante la mia carriera mi è stata riconosciuta, è sempre stata un’incazzatura sana perché avevo un buon rapporto con tutti. Anche con i miei avversari: De Paul, ai tempi dell’Udinese, mi odiava perché mi mandavano sempre a prenderlo a uomo e ogni volta che giocavamo contro mi diceva ‘Ancora tu, mamma mia’. Con Gasperini andavamo sempre a uomo, con il Torino anche. Martellavamo sempre e gli avversari dicevano che ero insopportabile. Il primo obiettivo è far giocare male gli altri. Mi faccio sentire atleticamente, magari con un tocco… meno delicato. A volte si giravano: ‘Ma chi ti credi di essere!’». Una voglia di spaccare il mondo frutto anche del suo percorso di vita: «Mia nonna è il mio eroe. Per tutto quello che ha significato per la mia famiglia. Dopo che abbiamo perso nostra mamma a 14 anni, siamo rimasti con lei che ci ha trascinato e ci ha dato dei valori. Ero il più grande, ci ha cresciuti da sola ma non sono mai riuscito a portarla in Europa. Veniva un mese, ma poi sentiva il richiamo del Venezuela. Veniva a vedermi in Nazionale solo quando faceva caldo, perché soffriva tanto il freddo e non ci era abituata: dopo la prima volta in Germania, in cui faceva molto freddo, non venne più!».

E infatti vorrebbe scrivere la storia con il Venezuela, il suo Venezuela, sognando di concludere la carriera con un momento definitivo: «Il Mondiale 2026 è un sogno. Siamo a un punto dai play-off e a 4 dalla qualificazione diretta. Ci siamo complicati la vita contro Cile e Paraguay. Vorrei chiudere con il Mondiale. Stavo per lasciare la Nazionale qualche anno fa, poi arrivò Pekerman e mi chiesero di fare un altro ciclo per dare una mano, che ci sarebbe stata una volta situazione in Federazione, quindi accettai il compromesso e ho avuto ragione. La storia è continuata alla grande».

Per la Nazionale si è diviso tra Europa e Sudamerica. Gli abbiamo chiesto se effettivamente è sottovalutato questo aspetto per i calciatori che durante la pausa vanno dall’altra parte del mondo: «Giocare in Europa ed essere sudamericani non è facile, perché un aspetto che si sottovaluta è la Nazionale. Ora che gioco in Brasile è più semplice, ma prima è stato molto faticoso: nella settimana di convocazione parti dopo la partita, il lunedì sera, arrivi martedì che hai ancora il fuso orario che ti scombussola, mercoledì riesci ad allenarti e poi giochi il giovedì. Poi giochi ancora e il lunedì. E chiaramente nel mentre fai tante ore di aereo per andare, per esempio, a giocare in Argentina. Dopo devi nuovamente tornare in Venezuela, il martedì dopo lo passi in viaggio per l’Europa, arrivi sempre con il fuso e il tempo di riprenderti che c’è subito la giornata di campionato con il Club. Ricordo che un allenatore in Nazionale mi diceva sempre che i giocatori delle Nazionali sono diversi, devono essere preparati in modo diverso perché devono rendere sia in America che in Europa: ‘Non potete tornare al Club e dire che siete stanchi, o viceversa, che non volete giocare per riposarvi’. Ad esempio Gasperini non voleva sentirne: mi dicevano che ero il suo figlioccio, ma appena tornavo dal Venezuela mi metteva sotto torchio. Una volta mi disse che non mi avrebbe fatto giocare, ero tornato il giovedì sera. Mi mise tra le riserve in partitella, ma feci una grande giocata con un sombrero: fermò l’allenamento, cambiò le pettorine e mi mise titolare dicendo ‘Ma lo vedi che non sei stanco’». E poi è faticoso soprattutto quando… devi andare in Bolivia: «Giocare lì è disumano. Prima si giocava a La Plata, ora a El Alto. Prima erano 3600 metri sul livello del mare, ora oltre 4mila! Non riesco a capire come sia possibile farci giocare lì. E non è che prima fai una preparazione particolare, non c’è il tempo. Durante il viaggio mangi leggero, molte ore prima, in modo da avere lo stomaco vuoto. Hai delle pastiglie per i vasi dilatatori, per evitare di stare male. Ma anche il pallone va in modo differente. Ho un amico che gioca nella squadra di El Alto, nel campionato boliviano, e con me in Nazionale. Prima della partita mi disse: ‘Tra primo e secondo tempo cambia il peso del pallone’. Non capivo. Però aveva ragione: nel primo tempo feci un lancio e il pallone partì perfettamente. Nel secondo tempo riprovai ed era un macigno, pesantissimo. Non so quale sia il motivo scientifico. Anche a livello di ossigeno e di ritmo è tosta. Penso che siano avvantaggiati, hanno fatto tantissimi punti in casa e pochissimi fuori».

Nessuna voglia di mollare. C’è il Santos riportato in prima divisione da difendere: «Voglio studiare per diventare direttore sportivo, facendo intanto il corso. Voglio avere una preparazione e capire quali opzioni avrò quando smetterò. Ho tanta voglia di prepararmi bene al post-carriera». E poi dal Brasile al Venezuela non ci vuole poi così tanto.