I ruoli, nel calcio, non si scelgono.
Sono loro che scelgono te.
Succede un giorno, solitamente per caso: “Oggi voglio provarti esterno”—tu ci provi per davvero e in quel posto ci passi una vita.
Da ragazzino giocavo centrocampista centrale; avevo due discreti piedi, gamba per correre e una buona visione di gioco, ma mi mancava la garra; una sera, durante una partitella in allenamento, controllo male il pallone e mi defilo. È capitato tutto in un attimo, come una scarica elettrica: mi sono buttato nella mischia, veloce come il vento. Ne ho saltato uno, poi un altro e un altro ancora dietro di lui. Era come se avessi scoperto di saper pattinare sull’erba, con la palla appiccicata alle scarpe. Un ballerino della Scala in mezzo agli elefanti.
Da quel giorno, vivo la vita come un eterno uno–contro–uno e tengo qualcosa che rotola tra i piedi più che posso. Prendo a calci lattine per strada, mi alleno a dribblare il cane, le sedie, i vasi di mia madre. Se vado a ballare, è solo per provare un doppio passo in mezzo ad una selva di gambe. Non c’è nulla da fare, vivo per il dribbling, per la botta d’adrenalina di un elastico che lascia il terzino imbalsamato a prendermi la targa, per un tunnel a quel cinghiale che ha provato a pestarmi tutta la partita e non mi ha preso mai.
Su quella fascia ho scoperto una metafora dell’esistenza. Dribblando i miei marcatori ho imparato che la vita va affrontata con coraggio, sempre a testa alta, anche se al lunedì mattina ti tocca svegliarti zoppo, con le cicatrici sulle tibie. E che anche quando ti marca stretto, troverai sempre la forza di lasciarla lì, a guardarti scappare verso la porta con la palla nei piedi e il sorriso sulle labbra.